lunes, 19 de agosto de 2013

Perché leggere i classici, Italo Calvino



Perché leggere i classici
Italo Calvino


Edizioni di riferimento
Italo Calvino, "Italiani, vi esorto ai classici", «L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68.
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995


Cominciamo con qualche proposta di definizione.

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito:
«Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.
Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli  per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria  mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato  (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

8. Un classico è un'opera che provoca incesantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.
Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente  e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.

E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di morire”».

domingo, 18 de agosto de 2013

Discorso sulla felicità


Discorso sulla felicità.
Pietro Verri


Edizione di riferimento:
Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano preceduti da un saggio civile sopra l’autore per Vincenzo Salvagnoli, volume primo, Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1854.
§ I. — INTRODUZIONE.

Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (siccome nel discorso precedente [1] credo di aver provato), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più utile verità a cui ci conduce la filosofia, sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro utile reale, se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto dei nostri mali. In fatti, se fissataci una volta in mente l’idea d’una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione. Che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro retaggio, ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invincibili e felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente, ma realmente rosi da mille angosciose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche da noi soli dispoticamente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, e pel vuoto di non aver più desideri: allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli, o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi, e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità dell’edificio.
L’eccesso de’ nostri desideri sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera, è in uno stato di letargo; chi sommamente desidera, s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli, laddove la violenza de’ desiderj la prova ogni anima che sente con energia, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dall’infelicità sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.
Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri; siamo noi arbitri di accrescer il nostro potere? In tutto no certamente, perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico, è una conseguenza fìsica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche da’ soli errori di opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla fìsica stessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimento de’ desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella loro prima età un uso continuato e intero della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principj le proprie azioni. L’immaginazione d’ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo; e ognuno riflettendo sopra di sé medesimo, e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà meco d’accordo Dell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminuirà la somma. Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj.
§  II. — DELLA RICCHEZZA.

Le ricchezze sono lo scopo di uno de’più comuni desiderj; e certamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possiede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione, trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che evidentemente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diventano realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte di acquistarle; anzi l’avidità di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare una ricchezza importante, dovrà dire che sarebbe stato più felice, se avesse posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la sollecitudine, il sospetto sogli attentati altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere come sul teatro, rappresentando un personaggio in faccia del pubblico censore attento e difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchezza, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle affannata da un fascio di svariatissime sensazioni; tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possiedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desideri, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderala condizione, è il seme da cui ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza: se te ne rimane di più, donalo alla beneficenza, non mai al lusso; e sia certo che l’avaro egualmente che il prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti a’ venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi bisogni. Il primo sempre si apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene; l’altro divora tutto nel momento attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo avvenire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze, come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità. Ma dico che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’ nostri sforzi continuati per ottenerli, perché allora chi se ne trova al possedimento, può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e considerandole come mezzo di aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle, ripartirle, servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata gradatamente colle proprie azioni, deve aver già abituato il suo cuore all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso, e palpita e si angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’ Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori; nella sua prima età non si occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito. Conosce in un fanciullo la nascente passione per essere uno scultore, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta all’età venture un Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai: quindi non può l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio delle ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrifìcio frequente della loro probità; sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso? Forse i piaceri fisici? Questi sono destinati per l’uomo amabile: l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini, comprandoti delle condecorazioni? Gli uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccierà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecoratlo per nascita e per merito ti spregierà, se sarai cinto colla stessa fascia d’onore, da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sempre più progredendo.
Ma, per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza, è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente riparto de’ beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sé la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci conduce a un cocentissimo desiderio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti. La memoria del passato fasto, la vista dell’inopia attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo talvolta nell’avvilimento, e da quello, quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato primiero, siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui avevano diritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i mezzi vanno diminuendosi, scompaiono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi piaceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilanciano i lunghi rammarichi che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse, non accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità. Le passioni nacquero; il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di volo si getta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo dapprincipio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decidere, ad esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro? Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e col  fasto di rendere attoniti gli uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione accecherà te solo; alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno; i più ti dileggeranno. Le tue facoltà sono note; non sperare che i creditori sieno pitagoricamente taciturni: la città conosce che il tuo fasto non è durevole: la tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a mancare di fede se ti abbandoni alla profusione. Avrai alcuni scaltri parassiti: come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radici nel tronco, e alimentandosi coll’umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici non si comprano: le anime capaci di profittare della rovina altrui, non lo sono d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dall’uniformità del genio e da’ beneficj fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione; la quale evidentemente ci dice: Se tu spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi aver fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in quest’ anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento; e come questi basterebbero se in quest’ anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di ricchezza. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascinano, se è spensierato, all’infelicità.
§ III. — Dell’ambizione.

L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più benemerita; a lei dobbiamo la massima parte dei politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti la gloria, la stima, gli onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta maniera di pensare sentonsi angustiati da due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un piccolo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’ lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di lettere e di belle arti. Un monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza. Perciò nell’indice delle biblioteche gli autori coronati vi sono in assai maggior numero che non trovansi nella serie cronologica i sovrani conquistatori e legislatori. Ma per un uomo privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di condizione privata veramente illustre, per un ministro degno di memoria l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla posterità scegliendo il partito delle armi, rifletta che più due milioni d’uomini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteranno, i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per veder scritto il loro nome nel tempio brillante della gloria. E quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa via come l’unità a trecento e più mila, sorta di lotteria di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente. Quindi è che realmente siano mossi piuttosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le cariche del ministro, sono anch’ essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si muovono quasi sempre per una diagonale composta da più forze motrici: l’energia medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e limpida la sua morale, ne scosta gli elementi motori. Gli uomini si collegano meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascente. E siccome in questa carriera non si possono occultare i primi progressi, come si fa nelle lettere, volendo; così si deve combattere mentre che ti stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita. Quindi pochissimi ambiziosi di gloria fra i privati s’ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per ambizione, lo fanno per l’ambito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti; giacché, se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’ambizione degli onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innalzarti negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni. Chi s’innalza sopra di essi, è in gran pericolo al primo slanciarsi che fa a volo: quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo, è decisa la superiorità. Gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere oggetto di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono, e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di onorarlo; nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissimi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un Richelieu, si può dire lo stessa dei disgraziati che hanno ambito la gloria negli impieghi pabblici; e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ripongono nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi invece di combatterne il desiderio, saggiamente pensando alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla, meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti. Questa giovanile impazienza è da calmarsi; conviene aspettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere dagli uomini in un momento. Al primo comparire d’un’opera interessante, le opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la piccola invidia o l’ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudono un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni dell’immortal luce placidi ed eterni nella loro rivoluzione. Se, desiderando la gloria delle belle arti, conoscerai intimamente queste verità, non avrai desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll’annunziare le tue idee quegli uomini e que’ ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch’egli abbia alla pubblica luce il suo lavoro.
L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle persone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vivere nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di rendercegli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente. La rettitudine, la popolarità, la beneficenza, l’amorevolezza delle maniere bastano; ma so ti abbandoni al desiderio di ottenere la stima de’ tuoi eguali ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che non te la mostrino. I nostri pari sono nostri rivali nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo mediocre che li diverte e non gl’imbarazza, che ad un cittadino virtuoso che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non siano tali. Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale, hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della superiorità nostra già stabilita dalla fortuna, anzi ci sa buon grado che valutiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è superiore al popolo, ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima de’ popolari costringiamo gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri un’opinione instabilissima per natura, la quale, quand’anche si ottenga, porta sempre seco la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune, si propone d’acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle opinioni e sui pregiudizi di essi, per modo che rinunziando quasi all’esistenza propria, deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia mai fatto. Convien dunque cercar la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel piano più basso non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non senza errore. Quindi l’ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desideri che sia pareggiabile col potere, lo ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un animo capace di commettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni distruggitrici della stima pubblica; ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla superiorità de’ lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammirare ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa benevolenza e fiducia che porta con sé il sentimento di stima.
Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe, la quale nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Questa classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volle l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per una carica o per un titolo. Questi amari frizzi si moltiplicano; vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso; si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non perchè in sé stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, e provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco. Questa fatale incertezza li rattrista: sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini vani e non uomini ambiziosi. Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi; vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sé medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi; laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più rigido e meno docile per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli onori dipende e da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito de’ distributori. Sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola, chi può mai prevedere se sarà fatto console l’uomo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio monarca è meno difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e chiare, quelle dell’arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gli impieghi non sempre si danno a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore. La fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini, può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco; ma tanto più sono pregevoli, perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della forza d’animo. Queste qualità, vedute, producono maraviglia; sentite, producono timore; esercitate, producono o l’esterminio di chi le possiede, o l’ubbidienza degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sé medesimo, esaminerà gli uomini coi quali dovrebbe porsi ad agire per ottenerli loro concorso, e scemerà, coll’abbandonare una vana lusinga, la classe de’ desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse conoscere la ineseguibilità. E per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccioliscono e quasi svengono. Ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi lo abbia ottenuto, mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio. L’occhio vede più piccoli gli oggetti, a misura che sono più rimoti: l’ambizione, per lo contrario, quanto più sono da noi lontani gli ingrandisce, e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’annientano al contatto.
La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza: la stessa ragione ci può abituare a correggere l’illusione dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza in chi non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità.
La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione degli onori, è sicuramente Roma, perché ivi trovasi la possibilità de’ più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua patria; che sia creato re elettivo con una moderata autorità, non è questo uno spazio corso, pareggiabile a quello d’un poverissimo fraticello, senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova sovrano d’uno stato, padre dei monarchi e capo della religione. L’importanza di quella che noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per giugnere, e dal luogo in cui si è collocato. Un elettore che sia fatto capo dell’impero, un principe del sangue a cui passi una corona, hanno fatto un passo: un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta monarchia, come il cardinale Alberoni, ne ha fatti più; ma il padre Ganganelli, fatto cardinale e sommo pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nessuna altra parte d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto solo.
Francesca d’Aubignè, nata da un matrimonio contratto (da Costante d’Aubignè) per fuggire dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a servire il poeta Scarron, considerava come un onore il diventare la moglie di quell’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a servire i figli che Luigi XIV aveva avuti dalla marchesa di Montespan. Da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al re, e guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata marchesa di Maintenon, la confidente del re, l’arbitra della Francia, e la più desolata, triste ed annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza al padre Ganganelli solamente di un buon vescovato, si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovato ravvisato il colmo della felicità. A chi alla d’Aubignè, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito, sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui erano destinati, essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili racconti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambiti hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono, o li sentono con indifferenza, mentre l’uomo volgare che prova una voluttuosa sensazione, accostandosi ad essi, li crede circondati da una perenne deliziosa atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gli insigniti di onori, ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza; nel secondo non si cercano, perchè quello che gli uomini credono grande, è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del re di Spagna, che vivea contemporaneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna, cavalier del Toson d’oro, generale degli eserciti, ecc., ecc., ecc., circondato da una brillante caterva di schiavi, riceveva nel fasto e nel seno dell’opulenza le adorazioni dei grandi e del popolo; mentre credeva egli che tutto l’universo lo ammirasse, e le più remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes mal vestito, mal alloggiato, al lume d’ una lucerna scriveva il suo romanzo, il Don Chisciotte. Probabilmente si sarebbe trovato ardito Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola esistenza. La morte troncò l’illusione. S’ignora il nome del grande coperto di onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes, che pochi uomini viventi sono al dì d’oggi tanto conosciuti quanto lo è egli. Le avventure che Cervantes s’immaginava nella sua povera oscurità, sono il soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei re ed i gabinetti degli uomini di gusto. Il bel romanzo gira in più lingue nelle mani d’ognuno; da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che sconsigliatamente sei abbandonato ai crucciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro vacuo, ed anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti ed alle scienze. Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio, un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli, vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia, mentre l’obblivione ha per sempre cancellati i nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ricchezze, allra non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che onorificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a render te stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza e col buon ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta, che sta sulla base propria adamantina e non cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri d’uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, d’amico; sia la tua promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e dell’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sii giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu stesso un tesoro di onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano, e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l’oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co’ quali viene incautamente strascinato alla infelicità.
§ IV. — dell’accrescimento del nostro potere.

Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella de’ piaceri fisici; propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla immaginazione alla realità, perdono costantemente, e che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Perocché un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti desiderj figli dell’errore e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que’ fini. Ma l’amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione all’organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriverne. Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrirei tormentosi, e vani desiderj, de’ quali ho trattato; ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col tempo, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmente l’argomento è troppo difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d’Ovidio che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento. Perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di troppo cibo; annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola disavventura: vedrai il primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensibilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberali poi da taluno dei dolori innominati, dei quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto, molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mantenere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’ piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie; l’intemperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e sedentaria, l’abituazione a’ troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali possono mollo contribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più utile e più sicura degli incerti tentativi, che fannosi per lo più per ricuperare la perduta, è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respignere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacché anche alla gloria e ad altri beni non si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchinale che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario all’uomo per avere un’esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e questo sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver commesse azioni vili e indegne, sebbene nell’oscurità abbia tessute le insidie, sempre è angustiato dal timore che sieno svelate: un’occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano: ei porta nel cuore una malattia più disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi, e mille tristi pensieri abituali nel cuore di un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che obbedisce alla virtù. Vera è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare l’uomo giusto; ma qual peso il rappresentare ogni giorno tutt’altro ohe noi stessi! Questo sforzo non toglie l’interno avvilimento. Si può disputare qual de’ due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito, per non averla, l’altro fa sforzi per contraffarla. Sono due debitori; il primo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa: entrambi hanno l’avvilimento nel cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l’interno sentimento di noi sessi, che è il più giusto e inesorabile de’ nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini: l’errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità. Non pretendo io già che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato, trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento. Ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi fissate dall’Autore dell’Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli errori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito, che talvolta s’incentrano dubbj, e fa mestieri d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario insegna all’uomo la strada della giustizia religiosa: il mero ragionatore, che ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uomini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini al santuario istesso, partendo ancora da’ più meccanici principj; perchè una verità non può smentire un’altra verità, e da più principj fisici o morali, purché sien veri, concatenando una verità all’altra, si può giugnere alla stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia una legge universale sempre ubbidita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore de’ dolori e la maggiore somma de’ piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene finito. Un’infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessione, alla quale pochi uomini si addestrano, non pone dicontro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacere attuale a prezzo di un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà illuminato, tanto più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’ dolori: quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa, e si terrà lontano da’ rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie all’onestà, sono false: la vera religione è sempre offesa, quando sia violata la onestà. Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi dell’onestà, siccome tanti illustri Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma de’ dispiaceri che si ricevono dagli uomini, qualora si ha il concetto di essere malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità a’ nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col tradire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ecc., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del rimorso che scema il poter nostro, togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente concludo che la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici, quelle anime nobili e sublimi che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere, e se, per conservarcene tutta la porzione possibile, dobbiamo colla saggia moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj, ci fa bisogno d’avere in favor nostro i suffragi degli uomini o almeno non averli contrarj. Questi o si comprano o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura, ma conforme alle leggi. I Romani, daché la virtù repubblicana era svanita, si vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere, gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la loro tirannia anche i primi Cesari, e, fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta, impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano, ubbidendo così al timore, alla vendetta ed alla avidità propria col concedere alla fame particolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a Roma, ne’ tempi di sua grandezza: non è però abolito l’uso di comprare più in piccolo i suffragi del popolo anche a denaro; e ciò non potendo accadere nelle monarchie ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a suffragi pubblici si facciano le elezioni alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve periodo, a meno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l’avevano i primi imperadori; e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo de’ beni superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare, facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi: nemmeno in conseguenza possono essere gli uomini d’ingegno caldo o d’immaginazione violenta: la figura nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità, è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la compra dei suffragi pubblici o per denari o per maniere, è da considerarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a poterselo procurare, opera sapientemente nel farlo; e chi non ha i mezzi per comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi contrarj, come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamente della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro; così si legano a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme col pericolo cresce la forza dell’impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti, essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della moltitudine, ottenendo una carica, per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a pochissimi; e sebbene accrescano il potere, anche assai di più moltiplicano i desiderj, onde non sono i trascelti da’ veri saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie loro l’occasione di restringere il nostro potere, sottraendoci a’ loro sguardi con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell’aperta ingiustizia, se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso d’ogni altro e meno soggetto a’ capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente prescelto da’ saggi.
§  V. — DI ALCUNI CONTRASTI FRA  LE  LEGGI.

La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi. Abbiamo le immortali leggi prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate, che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda.
Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il supplizio e l’infamia. La vita del principe Stuardo pretendente alla corona della Gran-Brettagna era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo; il pretendente sconfitto, dispersi interamente i suoi partigiani; senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver passato un giorno appiattato in un cespuglio, intorno cui giravano i nemici per prenderlo, venuta la notte, si presenta alla casa d’un gentiluomo del contorno: — Vi porto, gli disse, un felice annunzio. Dieci mila lire sterline sono vostre: sol che il vogliate, potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: son io, senza difesa; disponete dell’ultimo infelice rampollo dei vostri re, ovvero, se le mie disgrazie v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscir dall’isola. — Che partito doveva prendere il gentiluomo? Egli ristorò l’infelice principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione. Fu processato; la legge era chiara, come chiara la contravvenzione: per tutta difesa chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbono essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azione giusta e virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso ad un generoso e nobile uomo di soggiogare e impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare la libertà ad un inimico del proprio re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi contravvenire ad un legittimo proclama? Hai data la tua parola d’onore di conservare un secreto; si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo. Altra pubblica legge ti offre una ricompensa, e con pubblico editto l’invita ad uccidere un uomo; ma la religione e l’onestà gridano: Non tradire, non uccidere: come condurrommi in questo orribile labirinto?
In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esalto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia; poiché sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un piacere che portain conseguenza un male più grande di lui. Si dà un apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni periodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il pericolo di abbandonare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente calma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse, siccome di sopra ho detto, d’ubbidire alle leggi dell’onestà, così evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.
Ciò posto, per conoscere, fra le contraddizioni angustiose delle leggi, cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta quale dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo, conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.
Formiamoci un’idea d’una società d’uomini tanto perfettamente organizzata, quanto ce la può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciulli da una tempesta sieno divenuti col tempo i patriarchi d’un nuovo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di poter formare una nazione. Questa moltitudine d’uomini mossa da’ bisogni, mancante d’idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite alle azioni altrui; e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è propria del maggior numero, così in quello stato la parte massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza. Quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti raccolti pel proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più accorto a proporre un’associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con certe leggi fattizie sicuro di conservare sé stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un diritta di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i regni d’Europa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile associazione primitiva? Quest’isola immaginata altro non è che una finzione la quale niente ha di comune colla realtà de’ nostri diritti. Così può chiedermisi ragione della genealogia degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni filosofi, di quello che alcuni antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo che della rimota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione della scrittura: arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente inventata in que’ tempi, ne’ quali la memoria dell’associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo di più che, forse indipendentemente da ogni convenzione, un uomo solo più ardito, più illuminato o più scaltro, può avere cominciato a dominare sopra i suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo potrebbe togliere. Perciò quell’origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un diritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così saggiamente adoperato, che equivalesse all’immaginata spontanea primitiva associazione.
Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i doveri e i diritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste; giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza. Ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità pubblica; e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è un’immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data, nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi. Poiché, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero d’uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all’errore alle passioni e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.
Una società traviata da’ principj costituenti la giustizia sociale e condotta alla corruzione, lascia per l’opposto incerti i doveri e i diritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo. La felicità condensata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo stato di miseria e di annientamento di molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto: si teme la verità, si fugge la vista d’una virtù più luminosa, il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere; e di questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra isolate dal timore e concentrale, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla. Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a’ non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde, per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perchè essendo l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa parte con liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose è nobili, ovvero abbiette e codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gli interessi di tutti. Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia un’azione più utile in generale agli uomini il rinforzare le leggi dell’onore, acciocché almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che si andrà accostando all’originaria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere maggiore, onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VI.—DELLA CONOSCENZA DI NOI E DEGLI UOMINI.

Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere gli uomini. Conosci te stesso, ò un antico e verissimo precetto della sapienza, il quale in poco indica la perfezione della grand’opera a cui debbono tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come deboli ammalati che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sé medesima: quindi l’abbonimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conversazione qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche di un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita de’ più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, a’ quali rarissime volte la riflessione contrappone l’immagine degli oggetti lontani: onde mutandosi pel moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore all’odio, dal disprezzo alla stima, con un’apparente contraddizione, ma che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio che cerca la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sé stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, e d’onde traggano questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e pone sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapienza, gli sta al fianco; separa le verità dalle opinioni; pone nella prima classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare se stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia dei passati tumulti, divisa i mezzi onde scemare le turbolenze cagionate dai desiderj di beni chimerici, ovvéro di beni non conseguibili, col passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia all’esame dei mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che possiamo sentire con una sorta d’amicizia di noi stessi la contentezza di esistere, di renderci conto de’ principi che ci movono: il che ci dà una ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiorità nostra, in ciò che noi possiamo essere con noi medesimi; laddove quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia, nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini m’innalza al disopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la fortuna; l’orgoglio e l’invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo meno di quello che è infatti se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune; gli onori mi ubriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale; una traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza; passerò la vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma. Se conservo la pace interna all’udire un’azione infame, dirò: Il mio cuore è disgraziatamente insensibile; il mio animo è sinora incapace di elevazione; sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba nel mio cuore; se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto; se rabbonii nazione e la viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora: Sono capace di virtù, sono un uomo, e posso innalzarmi alle belle azioni. L’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini di merito, e con ciò avrò la misura dell’elevazione della mia mente. Il contrasegno più sicuro di ogni altro per conoscere se vagliamo è la sensibilità e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui; questo pusillanime rannicchiamento del cuore è figlio dell’incertezza del nostro merito, e suppone un’anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere all’opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il riuscire dipende dalle opinioni, da’ tempi e da’ luoghi. Io non cercherò ad un altro uomo, se quello ch’io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dall’opinione d’uomini colti e onesti, se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda l’impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore, l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nella solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè dell’elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna dimostrazione.
Conosciuto ch’io sia a me medesimo; definita ch’io abbia la vera e nuda altezza in cui mi trovo riposto; spogliato ch’ io mi sia de’ titoli e di quant’ altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose che si muovono intorno di me, nè il favore d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che valgo, nè gli insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza sopra il destino e sta immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere all’infelicità; il che sta rinchiuso nel precetto: Conosci te stesso.
L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di sé medesimo per fare il miglior uso del proprio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della propria carriera, e quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte ed il proprio lato debole. La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità. Sarebbe un uomo di spirito amabile; disgraziatamente si è trascelto maniere gravi e sentenzioso discorso: è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che si è imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe di migliore riputazione. Questi sarebbe un elegante scrittore se non si ostinasse a comporre per il teatro, per cui manca di genio. Quegli è un esattissimo ragionatore, e non vuol scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi, ne’ quali l’uomo si presenta svantaggiosamente per non avere esaminato meglio so medesimo e trascelta l’occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne occuperà, esaminerà sé stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo contorno e riesce disgustoso, e che l’imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sé medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che ti muovono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo; fra l’occhio e il primo, il vetro è convesso; fra l’occhio e il secondo, è concavo il vetro; e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi; ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si fida de’ giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna, altrui, non sente cambiarsi internamente l’opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell’udito, nell’odorato e nel corso; vedilo viaggiare sicuramente sull’instabile superficie dell’immenso Oceano, attraversare gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci sì varie, col mezzo delle quali comunica a’ suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora; cerca di parlare a’ lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura e la perfeziona al ponto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo, ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi quest’industriosissimo essere creare a sé stesso nuovi organi per supplire alla debole sua vista: e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la picciolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l’eclisse e l’apparenza. Cava di mezzo ai monti i metalli, e ne forma stromenti per la difesa e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e difficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a teiajo, dal tintore ecc. Esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj di molti sogni e di alcune verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d’Europa miseramente sagrifichino ogni anno molte migliaja di vittime umane per possedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile stromento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver libero e facile il moto, e d’essere difesa dal nemico o dalla stagione. I pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad un uomo. I giurisperiti hanno posta l’incertezza nelle proprietà. I medici, poco conoscendo e molto affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi; la piccola è di quelli che ne impongono, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono: stanno confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male; e il commercio d’uomo a uomo comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in eguali porzioni. Nel conoscere queste tristi verità l’uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa misantropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l’uomo che ha trovato le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni pochissimi, i quali sono dolali di una forza d’ingegno e d’una costante passione per cercare la verità e la gloria, talché essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione una scienza; e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo. Fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che risguardano gli interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capace d’innalzarsi, viene o escluso o contrastato, a meno che quest’uomo non sia nato sul trono. Perciò i regolamenti politici essendo l’opera di più uomini sono come le strade delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì queste che quelle nascono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di ottenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme, il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sé, possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigiose e sublimi: le opere concertate da molti uomini insieme, che a forze eguali si uniscono, sempre saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo, un Newton. Nessun’accademia di pittura ha formato un Rafaello, un Correggio, un Tiziano. Nessuna accademia di poesia ha formato un Tasso, un Ariosto. Un ceto d’uomini non farà mai cosa che oltrepassi la mediocrità.
L’uomo comunemente è debole; anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre della gelosia, dell’invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il ragionare; pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitudine ha ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; loda le virtù facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azioni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, perchè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio, che cerchi la tua felicità, di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione, e in vece di affliggertene allorché non la trovi, rimira ciò come un regolare fenomeno della nostra specie. Se ami d’essere superiore colle forze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri tu trovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua sopra de’ volgari; essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una classe di impossibili desiderj, e si accresce il sentimento del tuo potere.
§ VII. — DEI MOVIMENTI  DEL  CUORE.

Le verità sinora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro cuore: la compassione e il bisogno di amicizia. La vista d’un animale morto eccita un’emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno. Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addoloralo patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I bambini fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta a’ mali altrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma l’uomo comune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista de’ mali, le fibre con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice criminale, che fa da’ sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col litotomo [2], che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui, se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro stoico consigliarci d’indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi altrui: ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa sensibilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consiglierà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati, anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre, azioni verso il bene sono sempre più energiche, quando parlano da una spinta di sentimento di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di compassione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del nostro animo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un nobile sentimento dalla coscienza nostra, che ci risponda dell’elevazione di noi medesimi (il che non può aversi se non a misura che siamo virtuosi), così questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimento altrui. Molti sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e liberare altri dal male, conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi, o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti, e più sicuri e brevi; ed occupato in questa ricerca industriosamente il saggio, distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose, e si renderà sempre più robusto per allontanare sé medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de’ mali altrui non si trova che languidissima, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibre perdono la loro sensibilità egualmente o nel letargo, o nell’abuso delle ripetute sensazioni. Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fra le ridenti dissipazioni, vedrà un pallido padre di una numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassionevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un remo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità, che rende le anime delicate e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro che avendo idea de’ mali e provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, nè assorbito da una passione violenta che annienti ogni altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vita, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli, e chi persino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati o smarriti in uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno di avere un amico è piccolo negli uomini d’un carattere duro e poco sensibile, è grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, negli avari, ne’ maligni e in tutti coloro i quali debbono temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esamineremo i beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amicizia, dubito che ne sarà per comparire una verità poco consolante. Sono tanto rari i caratteri meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo, che, cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar sempre coll’amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’essere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in agguato, sempre in guardia, avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sagrificando il più nobile sentimento che mi rende sopportabile la vita? Io stimo che sia men male l’avventurarsi talvolta anziché l’esistere così solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del sublime entusiasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecillità; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi. Perciò l’uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l’abbia, si abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente, ed osservalo in varie circostanze felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principi; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dall’avidità delle ricchezze, dalla briga e dall’affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tali passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’un’azione generosa faccia comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’un’infamia dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservalo inalterabilmente i loro tratti! Esamina se infatti sia compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il sublime coraggio di dare il torto a sé medesimo, quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padrone, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge a questo esame l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una scambievole uniformità di genio. Due onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico. Tanti uomini illustri e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei hanno scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne; nè questo discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò solamente che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne’ benefici medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi le riceve, e fa risguardare l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddisfare giammai. Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne’ proprj sentimenti, e che la riconoscenza istessa non sia tanto un dovere, quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazione di uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia; questa è più costante ed intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà; perchè sotto un governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s’avvicina al suo simile per rinforzo ed ajuto; e per lo contrario sotto un governo giusto e costante l’uomo ha un’esistenza propria all’ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza bisogno di soccorso.Sotto la sferza della scuola d’un pedagogo, fra i pericoli delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle società che chiamano di bel mondo, gli uomini passano la vita senza accostarsi all’amicizia. I caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte vi ha l’ingegno e meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizione che la ragione c’insegna, troverà il saggio di essersi ingannato, soffrirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa una sventura, come una febbre da riguardarsi come un appannaggio della nostra sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fra le braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano dell’ingratitudine degli uomini, soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza de’ principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno dell’amicizia invece d’indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicché per questi due sentimenti tu diverrai ancora più lontano dall’infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VIII. — SE I MEZZI PER VIVERE FELICI

CRESCANO OVVERO SCEMINSI IN QUESTO SECOLO.

Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si promove e dilata la felicità d’uno Stalo; sarebbe questo un argomento che da sé meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un si vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere, se gli uomini che attualmente vivono, abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel còrso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio de’ nostri simili che seppero sopportarne una più penosa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità. Il Muratori in cento luoghi si consolava della felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò un compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci animati da un violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti confini del loro paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa, soggiogando le genti attonite, che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore inalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte d’Europa. Passa la robusta virilità dall’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell’Orsa le generazioni d’uomini, che dall’Eusino e dalla Germania, invadendo il Romano Impero, tutto distruggono, niente sostituiscono: lottano con altri barbari; poi, indeboliti a poco, a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, nei quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore. Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti: quindi per molte generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate e l’educazione, comparve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della sicurezza della nazione si eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni, e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per loro stesse, e divennero un mero patrimonio de’ principi, i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per motivi personali de’ principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate: spettacolo ben diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti da’ loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armale di schiavi mercenari limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva a’ sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò nelle miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a partecipare di questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio; si conobbe che la pubblica sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso ed arbitrario ne è l’esterminatore. Quindi alcune nazioni per non deperire nella forza relativa adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui altre vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Europa; e i sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile e la felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto. L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti prepara ano stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il fisico ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto delle miniere, e a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacché la storia ci ha trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’pensaiori fa torto la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore negli animi, l’antica guerra di nazioni e non di principi; e per questo circolo passeranno in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in fatti i sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini: li vediamo rappresentare la maestà della nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro l’abuso del potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno dello Stato, e servire allo stipendio di quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della nazione forza è che sieno alimentati dal possessore di cui conservano la proprietà o combattendo, o dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i diritti di ciascuno e frenando i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli che servirono di modello al Segretario Fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV accadevano quando nella Lombardia il duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da ferocissimi mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per comando d’un sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le donne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante, che non si presterebbe credenza a un tal racconto, egli Stati suoi si spopolerebbero, correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di stato. Io non dirò che tutti gli Stati d’Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica: ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì disputare se l’uomo fra gli Urani e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società sia più misero dello stato di società celta e legittima. Nella vita selvaggia può dirsi che l’eccesso de’ desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli sono limitati quasi a’ soli bisogni fisici, e questo è grande coll’agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione. Nello stato di società i desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si scema da quello delle forze fisiche; ma  se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla fonte dell’equità e della giustizia sgorga il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è vacillante, e l’eccesso de’ desideri diventa sommo. Si è forse trovato un ingegnoso paradosso, piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che gli uomini sociali; perchè si è creduto che con ciò si facesse il progetto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il selvaggio abbia tutti i bisogni ch’ei sente, e mancando di mezzi per soddisfarli conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la quistione è un oggetto di semplice speculazione; nè mai da questa potrà dedursene, che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate, se non se quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’industria, ed affrettando i progressi della verità, fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune l’uso di essa a’ cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società: al mio intento basta soltanto di indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi nell’Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l’indole del clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i governi dispotici, antichissimamente istituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di generazioni; ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente confermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato somigliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.
Dal sin qui detto raccogliesi, che l’uomo ha più mezzi oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi dipendono da’ lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse dominano l’opinione, e questa il mondo. Il saggio le onora, e sopra di ogni altra coltiva la scienza di sé medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare sé stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
CONCLUSIONE.

La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma pure chimera, perché l’uomo senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi de’ venti dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmente ne soffre il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci da’ desiderj contrari a lei e procurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini colti e naturalmente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni, per non aver credulo abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti, agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbolenta condizione ch’ei penetra a conoscere nell’interno altrui. La felicità del saggio comincia da lui, e si estende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di sé medesimo, mentre la prima si estende al di fuori di sé lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni; l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente cresce, e muore al primo gelo. Un antico poeta desiderava che l’uomo malvagio vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei, che gli uomini la vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno, anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso ed illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d’invidia, e ti proverò che se fosse staio illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj, combina questi elementi; e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso de’ desideri sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de’ tuoi principi, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani da noi medesimi, quanto gli spettacoli e le rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noia di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la capacità di ripiegarsi in sé stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del proprio potere, per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.

Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a godere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all’opposto merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che quell’uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicché nè l’una degeneri in asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio resta egualmente distante e dall’inurbanità e da quella servile passività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principi costantemente seguiti e difesi. Fra le nazioni corrotte tu vedi il sorrìso sulla faccia dei cittadini. Fra le nazioni illuminate leggerai in fronte agli uomini l’onorata sicurezza e l’amore dell’ordine. In ogni nazione il saggia esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria felicità.

EL ENCUENTRO EN LA VICTORIA



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UN ENCUENTRO EN LA VICTORIA

Autor: ©Giuseppe Isgró C.

Del libro: La Victoria

Capítulo I

Me encontraba un día, en una fuente de aguas tranquilas, cristalinas, cuando se me acercó un Venerable hombre, vestido a la antigua usanza, con bata blanca, larga, pelo y barba que alguna vez fueron de color pelirrojo y un báculo en la mano derecha.

Concentró sus ojos en los míos; su mirada era profunda, serena y apacible.

Con voz suave y afectiva, me dijo:

-“Hola, hijo, como estás”-.

–Bien, -le contesté-; y, ¿usted?

–Por aquí andamos; -fue su respuesta-, mientras me sonreía.

-¿Dónde estamos?, -le pregunté al Venerable hombre-.

-Este sitio es conocido como La Victoria; -me contestó-. –¿Qué haces por estos lados?

-Salí esta mañana, temprano, con el coche, a dar un paseo; luego, al llegar a esta zona, me paré a contemplar la belleza de los araguaneyes y decidí caminar un poco y la verdad que, absorto en mis reflexiones, caminé por lo menos durante dos horas, hasta llegar aquí. Desconocía este hermoso lugar. Y, usted, -¿vive por aquí cerca? -le pregunté-.

Un poco más arriba, en esa colina boscosa. Hace algunos años, -relata el Venerable hombre- decidí retirarme de la agitada vida ejecutiva en que me desenvolvía profesionalmente, como abogado, en la ciudad de Quebec, Canadá, aunque he viajado por diversos países asesorando a incontables líderes. Construí la casa, en esta zona tropical, con la idea de pasar aquí los meses de invierno. Me dedico al estudio de la vida, a la meditación y a cultivar mi jardín y de vez en cuando, a escribir mis reflexiones, las cuales, algún día, habrán de ser publicadas para esparcir un poco la luz que he podido vislumbrar en mis estudios metafísicos-espirituales.

-¿Quieres tomar un café? –Me preguntó el Venerable hombre-. Lo he traído de Caripe El Guácharo; es de los más exquisitos que he probado.

-Sí, con gusto se lo acepto; -le contesté-.

Nos fuimos caminando por un sendero rodeado de árboles cargados de mangos, aguacates, naranjas y una hilera de cayenas de diversos colores. A lo lejos, el ruido de la brisa se oía apaciblemente. Todo era quietud, armonía y paz. Pero, sobre todo, lo que más me impresionaba era la apacibilidad y el sosiego del Venerable hombre de La Victoria. Emanaba de él un flujo de fuerza que, en su presencia, me sentía con un poder y una seguridad nunca antes experimentados. Fuerzas bienhechoras se iban apoderando de mí y aquella paz y relax que buscaba en la mañana, al salir a dar un paseo, sin percatarme de ello, las estaba experimentando ya.

Después de unos quince minutos de caminar, llegamos a la casa del Venerable hombre. Su aspecto exterior humilde estaba lejos de dejar entrever lo que segundos después habría de asombrarme con lo que encontré en el interior.

Al entrar, en la casa, una joven de unos veinte años saludó al Venerable hombre.

-¡Hola, abuelo!, ¿cómo estás?

–Bien, hija, -contestó el Venerable hombre-. -Prepara un poco de café, Lucía, mientras conversamos un poco, adentro.

-Por cierto, te presento a Santiago, quien ha llegado paseando hasta La Victoria.

Después de la presentación, entramos en la biblioteca del Venerable hombre. Un salón grande, lleno de estantes de libros por todas partes, lo cual hacía inimaginable dicho cuadro desde el exterior. Algunos cuadros al óleo de morichales y de personajes históricos, presentaban un ambiente acogedor. En un rincón se encontraban diversos retratos de Tagore, Gandhi, Cicerón, Séneca, Ibn Arabi y un dibujo de Don Quijote y Sancho Panza. En un pequeño cuadro, podía leerse: -“Lo que Alá quiera. Nada se le asemeja”-.

-Le felicito por este inmenso tesoro que usted tiene aquí, -le dije al Venerable hombre-. -¿Cuáles son los temas de su interés?

A lo cual, me contestó: -Como usted puede ver, Santiago, -y me invitó a recorrer los estantes- aquí hay libros de variados temas: clásicos de todos los países y épocas, desde los Vedas, los Upanishads, el Mahabaratha, los libros de Confucio, El Tao te King, de Lao Tse, el Poema de Gilgamesh, el Código de Amurabí, autores griegos, como Homero y Hesiodo. Se encuentran las obras completas de Euclides, Platón, Aristóteles, Teofrasto, Demetrio de Falereo, de los Presocráticos, Epicteto, Plutarco, etcétera; de los latinos, autores como Séneca, Cicerón, -que son mis preferidos-, Julio César, Tito Livio, Dionisio de Halicarnaso, Marco Aurelio, así como libros de Psicología, Gerencia, Sufismo, Yoga, ensayos, filosofía, parapsicología, hermetismo, El Quijote, libros de economía, filosofía, etcétera, en fin, un poco de todo lo que es preciso conocer para poder entender el significado de la vida: de dónde venimos, por qué estamos aquí y hacía dónde vamos, sin lo cual, la vida no tendría sentido, sobre todo por el gran afán a que está sometido el ser humano en la agitada vida moderna.

Nos sentamos en sendas butacas y nos entretuvimos conversando de temas diversos. Al poco rato, entró Lucía con dos tazas de oloroso café y unos biscochos, que degustamos con agrado en una amena e interesante conversación. Al fondo, podía oírse una suave música de Beethoven.

Pasamos cerca de una hora conversando de sobre la Atlántida, Egipto, los griegos, de Homero, de los sufíes, del budismo zen, los poderes del espíritu, meditación, etcétera, después de lo cual, le hice una pregunta directa.

-Seguramente, usted ha desarrollado alguna técnica de meditación y algún método de resolución de situaciones, en la vida, que me quisiera explicar, ya que, según observo, para tener usted una serenidad tan acentuada y una fortaleza física a la edad que imagino que usted debe tener, -cerca de noventa años- es porque ha encontrado en su larga experiencia algún secreto que quizás quisiera compartir conmigo.

Santiago, -me dijo el Venerable hombre, si vuelves a visitarme otro día, quizá te cuente algo que te pueda servir. Empero, antes de que te vayas, te haré entrega de unos apuntes que hace ya muchos años, en una época en que yo andaba a la búsqueda de sosiego y tratando de encontrarle sentido a la vida, un Venerable hombre que, en una edad similar a la mía, a su vez me entregara y cuya práctica asidua me permitió domar la mente, encarrilar mi vida y poner bajo control los hilos del destino. Son veintidós manuscritos, y una meditación diaria, –continuó diciendo el Venerable hombre, que si bien son ya un poco antiguos, podrás copiarlos de nuevo y si pones en práctica las técnicas que contienen, darás a tu vida un esplendor que habrá de sorprenderte agradablemente.

-Una vez que los hayas probado con total y absoluta satisfacción de tu parte, -me dijo, ponlos en limpio, en forma de libro y publícalo para que su mensaje llegue a mayor número de personas. Hacía tiempo que esperaba a alguien a quien confiarle este legado y creo que hoy, al llegar aquí, en la forma en que lo has hecho, tus pasos han sido dirigidos por Aquel que todo lo sabe y puede, por la Ley Cósmica, y en cuyos planes universales, todos somos sus instrumentos.

Me despedí del Venerable hombre y de su adorable nieta, sintiendo dentro de mí fuerzas desconocidas hasta entonces que preanunciaban grandes cambios en mi vida.

En los días siguientes, aparté una hora diaria, antes de dormirme, y leí y releí, todos los manuscritos, de la siguiente manera: En primer lugar copié la Meditación diaria en un cuaderno, el cual leí durante veintidós noches y mañanas seguidas, tal como lo indicaban las instrucciones de la misma.

Una nota al pie de página mencionaba que si yo la transcribía en un cuaderno, el hecho de hacerlo, grabaría en mi ordenador mental las instrucciones y me sería más fácil desarrollar, en mi personalidad, las cualidades y condiciones que formaban parte de los objetivos implícitos en la misma.

De los veintidós manuscritos, cada lunes, a las once en punto de la noche, copiaba uno en el cuaderno, y durante el resto de la semana, a la misma hora, lo leía y meditaba, siguiendo las fáciles y efectivas técnicas e indicaciones al inicio del mismo.

Cuatro semanas después de leer durante veintidós días seguidos, en la noche y en la mañana, la meditación diaria, comenzaron a manifestarse en mi vida una serie de cambios positivos que me dejaban asombrado a mi mismo, pero, también, los miembros de mi familia y a mis amistades; sobre todo mi semblante comenzó a ser más apacible; volví a sonreír desde el interior; mi estado anímico era de contento; me sentía más seguro de mi mismo; comencé a confiar más en la gente, en la vida y a vislumbrar el sentido de mi misión en la vida –percibía cosas que antes me pasaban desapercibidas, a pesar de haber estado siempre allí. Sentía fluir en mí una nueva corriente vivificadora de prosperidad, de felicidad, de alegría de vivir. Mi entusiasmo y amor por la vida y por mi familia, por mi trabajo y por las personas, crecía día a día. En aproximadamente dos meses había logrado muchas de las cosas en las cuales había soñado desde hacía años. Había dado un paso sorprendente en el camino de la autorrealización.

Efectivamente, pude comprobar que me fue relativamente muy fácil desarrollar las aptitudes y actitudes a nivel físico, mental, emocional, espiritual y en diversos aspectos de mi vida, como el financiero, que comenzó a mejorar casi inmediatamente, así como, surgieron nuevas oportunidades que comencé a aprovechar, casi sin esfuerzo de mi parte.

Transcurría el año de 1967 y mi vida había encontrado un sendero que habría de conducirme a cooperar en forma más efectiva en el plan divino que el Supremo Hacedor, en algún momento, había diseñado para mí.

Tres meses después volví a aquel lugar donde había encontrado al Venerable hombre de La Victoria y allí estaba la fuente que él dijo llamarse La Victoria; empero, cuando traté de encontrar el camino para llegar a la casa donde amablemente me ofreció un delicioso café, preparado por su nieta Lucía, no logré encontrarlo, pese a haber recorrido durante un par de horas por los alrededores. Pregunté a varias personas para ver si podían indicarme como llegar a la casa del Venerable hombre y cual fue mi sorpresa, nadie lo conocía.

Empero, después de tanto buscar, volví a encontrar la casa donde vivía el Venerable hombre de La Victoria, pero se encontraba abandonada. Su aspecto indicaba que debía encontrarse en ese estado un lapso mayor del que mediaba con el encuentro de aquel ser extraordinario. Es sorprendente como los inmuebles solos acusan el paso del tiempo en mayor grado que los que son habitados. Si no fuera por los manuscritos pensaría que el encuentro no fue más que un simple sueño. -¿O se trata, acaso de un sueño combinado con un fenómeno de aporte? Personalmente, no lo creo. El encuentro fue muy vívido y real. El aromático café servido por Lucía estaba exquisito. Durante varios años volví al lugar varias veces, la casa seguía sola. La última vez que volví, no la pude ubicar y sin tener tiempo suficiente para seguir buscándola, me fui. Ahora, vivo muy lejos de aquella zona, en otro continente; han transcurrido muchos años y después de tanto tiempo es poco probable que vuelva allí; pero, los manuscritos y la meditación diaria obran en mi poder, me han transformado y han enriquecido mi vida.

Durante más de treinta y cinco años he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen los manuscritos y la meditación diaria y cada vez que los pongo en práctica, experimentos los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para mí.

Su contenido es eminentemente práctico; no hay teorías superfluas. Si lleva a cabo los ejercicios que contienen, es probable que, gradualmente, se vaya efectuando la transmutación alquímica de su ser sintonizándose con los elevados resultados existenciales, los cuales, por añadidura, al ser creados a nivel mental, se van manifestando en su propia vida, oportunamente.

Sobre todo, con estos ejercicios, me percaté, cuando el Venerable hombre me entregó los manuscritos, de que se dispone de un método para domar la mente y ejercer un pleno dominio sobre la vida en general y, por ende, sobre el destino y controlar, cuando eventualmente se presenten, todas las situaciones, manteniendo un perfecto equilibrio físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

El Venerable hombre de La Victoria me comentaba que todo se puede lograr en la vida si se siembra la respectiva semilla por medio de correctas decisiones acordes con la propia y elevada auto-estima y dignidad personal, desarrollando el convencimiento de que sí se puede hacer, por medio de las afirmaciones, las visualizaciones y meditaciones, la experimentación de un estado emocional acorde al momento de ser logrados los respectivos resultados y la practica del desapego, es decir, dejar encargada a la mente psiconsciente del logro, y además, se espera el tiempo necesario haciendo, mientras tanto, todo lo que se requiere, según el caso o los objetivos por alcanzar.

Estas técnicas funcionan, me decía una y otra vez el Venerable hombre de La Victoria; luego, agregaba: -las he probado por más de cincuenta años y quien, a su vez me las entregó, habría hecho otro tanto, aseverando que eran efectivas, si yo seguía fielmente las instrucciones y las ponía en práctica con expectativas positivas.

Desde que en 1967, el Venerable hombre me hiciera entrega de los manuscritos, han transcurrido un poco más de de treinta y cinco años, durante los cuales yo también he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen, y cada vez que me ejercito con ellos, experimento los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para todos los que hemos aplicado las enseñanzas del Venerable hombre de La Victoria.

Él me repetía constantemente: -“¡Tú puedes si crees que puedes hacerlo! ¡Hazlo y tendrás el poder!

Recuerdo que ese día el Venerable hombre me dijo: -ejercer el poder con que la naturaleza de las cosas ha dotado a cada ser, cultivando los dones inherentes y aprendiendo todo lo que se pueda de sí y del vasto universo del que se forma parte, es una manera efectiva de ser cada día más feliz. Luego, cuando me despedí de él, expresó: -“¡Que cada día brille más y mejor tu luz interior!”.- Adelante.

Capítulo 2

Meditación diaria

Es lunes en la noche, son las once en punto.

Me dispongo a copiar textualmente, en el cuaderno que he dispuesto para ello, el manuscrito identificado con el título:

Meditación diaria

Dice así:

Afirme, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desee, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubra cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en su vida:

MEDITACIÓN DIARIA

Afirma, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desees, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubre cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en tu vida. Al encender la luz en la mente se ilumina la propia existencia y todo en derredor vibra al unísono y con el mismo sentimiento de felicidad y bienestar, interrelacionándose por la ley de afinidad.

1. -Entro en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, contando de tres a uno: Tres, dos, uno.

Ø Ahora, estoy ya en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre.

Ø Voy a permanecer en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, durante quince minutos y voy a programar los siguientes efectos positivos, los cuales perduran, cada vez mejor, hasta que vuelva a realizar este acceso y programación mental:

Ø Todo va bien, siempre, en todos los aspectos de mi vida, cada día mejor. (Tres veces). –Imagínalo-.

Ø Todo va bien en mi trabajo; cada día logro mejores niveles de efectividad, prosperidad, riqueza, abundancia y bienestar. (Imagínalo).

2. Formo una unidad cósmica perfecta con el Creador Universal, -ELOÍ. (Diez veces, con los ojos cerrados). Hoy se expresa en mí la Perfección universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión en todos los aspectos de mi vida.

3. -Cada día, en todas formas y condiciones, mi cuerpo y mi mente funcionan mejor y mejor. La consciencia de mi conexión permanente e indisoluble con el Creador Universal, -ELOÍ-, restablece y mantiene en mí, diariamente, durante las veinticuatro horas del día, un perfecto estado de salud a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Creador Universal, por darme un cuerpo perfecto, saludable, lleno de energía. Aquí y ahora, me siento en perfecto equilibrio de salud, a nivel físico, mental, emocional y espiritual.

4. Afronto y resuelvo bien toda situación que me compete, siempre.

5. Todo tiene solución, en todas las situaciones de mi vida.

6. El Creador Universal, -ELOÍ-, es en mí, cada día mejor, en todos los aspectos de mi vida, fuente de amor, luz, sabiduría, éxito, riqueza, prosperidad, abundancia y armonía.

7. Permito que las leyes universales de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión actúen bien en el plan de mi vida.

8. Tengo prosperidad y poder. Cada día enriquezco mejor mi vida a través del servicio efectivo, del amor y de la práctica de todas las virtudes.

9. Mi dignidad personal me lleva a realizar las cosas que me competen con la máxima perfección posible.

10. Cada día, en todas formas y condiciones, en todos los aspectos de mi vida, estoy mejor y mejor a nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

11. Actúo con templanza, serenidad, autodominio y perfecto equilibrio en todo. Conservo plena autonomía y control sobre todas mis facultades físicas, mentales, emocionales, intelectuales y espirituales. Hecho está. (Visualizar un escudo protector de luz que te envuelve y protege; -una pirámide-).

12. Tengo fortaleza, valor, confianza y fe suficiente para triunfar y alcanzar todas mis metas, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y en armonía con sus planes cósmicos. Soy inmune e invulnerable a las influencias y sugestiones del medio ambiente y de cualquier persona a nivel físico, mental, emocional y espiritual, en las dimensiones objetivas y subjetivas y en cualesquiera otras en que sea requerido.

13. El orden universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión se establece en mi vida, en todos mis asuntos y en las personas interrelacionadas, aquí y ahora. Hecho está.

14. Asumo la responsabilidad de mis actos y cumplo bien todos mis compromisos, siempre oportunamente, de acuerdo con el orden cósmico.

15. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos da abundancia y armonía en el eterno presente. Vivo en abundancia y en armonía perfectas, aquí, ahora y siempre.

16. El Creador Universal, -ELOÍ-, se está ocupando de todo, en todos los aspectos de mi vida, y se expresa en mí conciencia intuitiva por medio de los sentimientos en correspondencia con los valores universales.

17. Gracias, Creador Universal, -ELOÍ-, por esta vida maravillosa. Que Tu Inteligencia Infinita, Amor, Sabiduría, Justicia, Luz, y Poder Creador guíen, adecuadamente, todas mis decisiones y acciones, ahora y siempre. Gracias, Eloí, por este día maravilloso.

18. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos proteja, aquí y en cualquier lugar, ahora y siempre. (Tres veces).

19. Siempre espero lo mejor, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y la Ley Cósmica, en armonía con todos.

20. Gracias, Creador Universal; todo va bien en todos los aspectos de mi vida, a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Eloí, todo va bien en mis practicas espirituales y en mi relación Contigo; Tú y yo formamos una unidad perfecta, armónica, aquí y ahora, en el eterno presente. Yo soy Tú, Tú eres yo. Te amo.

21. Voy a realizar –obtener o resolver- (mencionar), antes del: (fecha), de acuerdo al orden divino y en armonía con todos. (Si se trata de varios objetivos, anótelos y haga la afirmación y visualización con cada uno de ellos. Imagínelo concluido satisfactoriamente sin imponer canal alguno de manifestación.)

22. Tengo serenidad y calma imperturbable. Soy impasible frente a todo y a todos. No tengo temor a nada, a nadie ni de nadie en ningún nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero. Dentro de mí vibra la seguridad total. Tengo completa confianza en la vida y en mi propia capacidad de resolver situaciones y alcanzar los resultados satisfactorios que preciso, en cada caso, siempre.

A continuación anoté la fecha: Lunes 12 de agosto de 1967. Luego, tal como me lo indicó el Venerable hombre, anoté la fecha que correspondía veintidós días después: 03 de septiembre de 1967.

Acto seguido, me senté cómodamente, tomé tres respiraciones profundas y realicé la meditación.

Luego, cada noche, durante veintidós días, a las once en punto, me iba a mi cuarto, daba indicaciones de no ser interrumpido durante veinte minutos y realizaba la meditación del día, la cual, siempre complementaba con la lectura breve de uno de los libros de cabecera que siempre suelo tener en mi mesa de noche.

Iba notando, día a día como emergía de mi interior una nueva y desconocida fortaleza, seguridad, estado de ánimo contento, actitud más decidida, optimismo frente a la vida y a las situaciones; comencé a llevarme mejor en las relaciones con las demás personas, a ser más comedido en todo y sobre todo comenzaba a tener conciencia de cosas que antes me solían pasar desapercibidas.

Cabe destacar que, en el punto número veintiuno de la meditación, había anotado siete objetivos que desde hacía tiempo quería realizar y para mi sorpresa, treinta días después de haber terminado de efectuar la meditación del manuscrito número veintidós comencé a observar como, en forma aparentemente casual se iban manifestando la resultados de cada uno de ellos hasta que, algunos meses después, antes de la fechas previstas, los había realizado todos, menos dos, por lo cual, me senté y volví a anotar, en una hoja de mi cuaderno, otros diez objetivos, encabezados por los dos pendientes de la lista anterior, les puse la fecha tope a cada uno, antes de la cual debían ser logrados, para seguir visualizando, su logro, periódicamente.

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lunes, 19 de agosto de 2013

Perché leggere i classici, Italo Calvino



Perché leggere i classici
Italo Calvino


Edizioni di riferimento
Italo Calvino, "Italiani, vi esorto ai classici", «L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68.
Italo Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995


Cominciamo con qualche proposta di definizione.

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito:
«Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.
Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli  per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria  mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato  (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

8. Un classico è un'opera che provoca incesantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.
Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente  e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.
Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.
Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.

E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di morire”».

domingo, 18 de agosto de 2013

Discorso sulla felicità


Discorso sulla felicità.
Pietro Verri


Edizione di riferimento:
Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano preceduti da un saggio civile sopra l’autore per Vincenzo Salvagnoli, volume primo, Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1854.
§ I. — INTRODUZIONE.

Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (siccome nel discorso precedente [1] credo di aver provato), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più utile verità a cui ci conduce la filosofia, sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro utile reale, se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto dei nostri mali. In fatti, se fissataci una volta in mente l’idea d’una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione. Che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro retaggio, ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invincibili e felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente, ma realmente rosi da mille angosciose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche da noi soli dispoticamente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, e pel vuoto di non aver più desideri: allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli, o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi, e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità dell’edificio.
L’eccesso de’ nostri desideri sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera, è in uno stato di letargo; chi sommamente desidera, s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli, laddove la violenza de’ desiderj la prova ogni anima che sente con energia, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dall’infelicità sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.
Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri; siamo noi arbitri di accrescer il nostro potere? In tutto no certamente, perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico, è una conseguenza fìsica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche da’ soli errori di opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla fìsica stessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimento de’ desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella loro prima età un uso continuato e intero della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principj le proprie azioni. L’immaginazione d’ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo; e ognuno riflettendo sopra di sé medesimo, e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà meco d’accordo Dell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminuirà la somma. Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj.
§  II. — DELLA RICCHEZZA.

Le ricchezze sono lo scopo di uno de’più comuni desiderj; e certamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possiede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione, trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che evidentemente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diventano realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte di acquistarle; anzi l’avidità di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare una ricchezza importante, dovrà dire che sarebbe stato più felice, se avesse posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la sollecitudine, il sospetto sogli attentati altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere come sul teatro, rappresentando un personaggio in faccia del pubblico censore attento e difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchezza, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle affannata da un fascio di svariatissime sensazioni; tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possiedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desideri, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderala condizione, è il seme da cui ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza: se te ne rimane di più, donalo alla beneficenza, non mai al lusso; e sia certo che l’avaro egualmente che il prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti a’ venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi bisogni. Il primo sempre si apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene; l’altro divora tutto nel momento attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo avvenire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze, come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità. Ma dico che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’ nostri sforzi continuati per ottenerli, perché allora chi se ne trova al possedimento, può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e considerandole come mezzo di aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle, ripartirle, servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata gradatamente colle proprie azioni, deve aver già abituato il suo cuore all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso, e palpita e si angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’ Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori; nella sua prima età non si occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito. Conosce in un fanciullo la nascente passione per essere uno scultore, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta all’età venture un Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai: quindi non può l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio delle ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrifìcio frequente della loro probità; sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso? Forse i piaceri fisici? Questi sono destinati per l’uomo amabile: l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini, comprandoti delle condecorazioni? Gli uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccierà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecoratlo per nascita e per merito ti spregierà, se sarai cinto colla stessa fascia d’onore, da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sempre più progredendo.
Ma, per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza, è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente riparto de’ beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sé la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci conduce a un cocentissimo desiderio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti. La memoria del passato fasto, la vista dell’inopia attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo talvolta nell’avvilimento, e da quello, quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato primiero, siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui avevano diritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i mezzi vanno diminuendosi, scompaiono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi piaceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilanciano i lunghi rammarichi che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse, non accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità. Le passioni nacquero; il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di volo si getta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo dapprincipio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decidere, ad esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro? Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e col  fasto di rendere attoniti gli uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione accecherà te solo; alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno; i più ti dileggeranno. Le tue facoltà sono note; non sperare che i creditori sieno pitagoricamente taciturni: la città conosce che il tuo fasto non è durevole: la tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a mancare di fede se ti abbandoni alla profusione. Avrai alcuni scaltri parassiti: come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radici nel tronco, e alimentandosi coll’umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici non si comprano: le anime capaci di profittare della rovina altrui, non lo sono d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dall’uniformità del genio e da’ beneficj fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione; la quale evidentemente ci dice: Se tu spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi aver fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in quest’ anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento; e come questi basterebbero se in quest’ anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di ricchezza. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascinano, se è spensierato, all’infelicità.
§ III. — Dell’ambizione.

L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più benemerita; a lei dobbiamo la massima parte dei politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti la gloria, la stima, gli onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta maniera di pensare sentonsi angustiati da due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un piccolo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’ lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di lettere e di belle arti. Un monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza. Perciò nell’indice delle biblioteche gli autori coronati vi sono in assai maggior numero che non trovansi nella serie cronologica i sovrani conquistatori e legislatori. Ma per un uomo privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di condizione privata veramente illustre, per un ministro degno di memoria l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla posterità scegliendo il partito delle armi, rifletta che più due milioni d’uomini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteranno, i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per veder scritto il loro nome nel tempio brillante della gloria. E quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa via come l’unità a trecento e più mila, sorta di lotteria di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente. Quindi è che realmente siano mossi piuttosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le cariche del ministro, sono anch’ essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si muovono quasi sempre per una diagonale composta da più forze motrici: l’energia medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e limpida la sua morale, ne scosta gli elementi motori. Gli uomini si collegano meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascente. E siccome in questa carriera non si possono occultare i primi progressi, come si fa nelle lettere, volendo; così si deve combattere mentre che ti stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita. Quindi pochissimi ambiziosi di gloria fra i privati s’ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per ambizione, lo fanno per l’ambito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti; giacché, se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’ambizione degli onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innalzarti negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni. Chi s’innalza sopra di essi, è in gran pericolo al primo slanciarsi che fa a volo: quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo, è decisa la superiorità. Gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere oggetto di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono, e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di onorarlo; nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissimi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un Richelieu, si può dire lo stessa dei disgraziati che hanno ambito la gloria negli impieghi pabblici; e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ripongono nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi invece di combatterne il desiderio, saggiamente pensando alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla, meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti. Questa giovanile impazienza è da calmarsi; conviene aspettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere dagli uomini in un momento. Al primo comparire d’un’opera interessante, le opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la piccola invidia o l’ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudono un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni dell’immortal luce placidi ed eterni nella loro rivoluzione. Se, desiderando la gloria delle belle arti, conoscerai intimamente queste verità, non avrai desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll’annunziare le tue idee quegli uomini e que’ ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch’egli abbia alla pubblica luce il suo lavoro.
L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle persone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vivere nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di rendercegli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente. La rettitudine, la popolarità, la beneficenza, l’amorevolezza delle maniere bastano; ma so ti abbandoni al desiderio di ottenere la stima de’ tuoi eguali ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che non te la mostrino. I nostri pari sono nostri rivali nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo mediocre che li diverte e non gl’imbarazza, che ad un cittadino virtuoso che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non siano tali. Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale, hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della superiorità nostra già stabilita dalla fortuna, anzi ci sa buon grado che valutiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è superiore al popolo, ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima de’ popolari costringiamo gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri un’opinione instabilissima per natura, la quale, quand’anche si ottenga, porta sempre seco la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune, si propone d’acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle opinioni e sui pregiudizi di essi, per modo che rinunziando quasi all’esistenza propria, deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia mai fatto. Convien dunque cercar la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel piano più basso non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non senza errore. Quindi l’ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desideri che sia pareggiabile col potere, lo ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un animo capace di commettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni distruggitrici della stima pubblica; ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla superiorità de’ lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammirare ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa benevolenza e fiducia che porta con sé il sentimento di stima.
Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe, la quale nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Questa classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volle l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per una carica o per un titolo. Questi amari frizzi si moltiplicano; vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso; si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non perchè in sé stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, e provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco. Questa fatale incertezza li rattrista: sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini vani e non uomini ambiziosi. Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi; vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sé medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi; laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più rigido e meno docile per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli onori dipende e da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito de’ distributori. Sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola, chi può mai prevedere se sarà fatto console l’uomo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio monarca è meno difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e chiare, quelle dell’arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gli impieghi non sempre si danno a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore. La fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini, può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco; ma tanto più sono pregevoli, perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della forza d’animo. Queste qualità, vedute, producono maraviglia; sentite, producono timore; esercitate, producono o l’esterminio di chi le possiede, o l’ubbidienza degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sé medesimo, esaminerà gli uomini coi quali dovrebbe porsi ad agire per ottenerli loro concorso, e scemerà, coll’abbandonare una vana lusinga, la classe de’ desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse conoscere la ineseguibilità. E per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccioliscono e quasi svengono. Ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi lo abbia ottenuto, mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio. L’occhio vede più piccoli gli oggetti, a misura che sono più rimoti: l’ambizione, per lo contrario, quanto più sono da noi lontani gli ingrandisce, e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’annientano al contatto.
La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza: la stessa ragione ci può abituare a correggere l’illusione dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza in chi non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità.
La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione degli onori, è sicuramente Roma, perché ivi trovasi la possibilità de’ più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua patria; che sia creato re elettivo con una moderata autorità, non è questo uno spazio corso, pareggiabile a quello d’un poverissimo fraticello, senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova sovrano d’uno stato, padre dei monarchi e capo della religione. L’importanza di quella che noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per giugnere, e dal luogo in cui si è collocato. Un elettore che sia fatto capo dell’impero, un principe del sangue a cui passi una corona, hanno fatto un passo: un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta monarchia, come il cardinale Alberoni, ne ha fatti più; ma il padre Ganganelli, fatto cardinale e sommo pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nessuna altra parte d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto solo.
Francesca d’Aubignè, nata da un matrimonio contratto (da Costante d’Aubignè) per fuggire dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a servire il poeta Scarron, considerava come un onore il diventare la moglie di quell’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a servire i figli che Luigi XIV aveva avuti dalla marchesa di Montespan. Da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al re, e guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata marchesa di Maintenon, la confidente del re, l’arbitra della Francia, e la più desolata, triste ed annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza al padre Ganganelli solamente di un buon vescovato, si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovato ravvisato il colmo della felicità. A chi alla d’Aubignè, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito, sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui erano destinati, essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili racconti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambiti hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono, o li sentono con indifferenza, mentre l’uomo volgare che prova una voluttuosa sensazione, accostandosi ad essi, li crede circondati da una perenne deliziosa atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gli insigniti di onori, ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza; nel secondo non si cercano, perchè quello che gli uomini credono grande, è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del re di Spagna, che vivea contemporaneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna, cavalier del Toson d’oro, generale degli eserciti, ecc., ecc., ecc., circondato da una brillante caterva di schiavi, riceveva nel fasto e nel seno dell’opulenza le adorazioni dei grandi e del popolo; mentre credeva egli che tutto l’universo lo ammirasse, e le più remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes mal vestito, mal alloggiato, al lume d’ una lucerna scriveva il suo romanzo, il Don Chisciotte. Probabilmente si sarebbe trovato ardito Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola esistenza. La morte troncò l’illusione. S’ignora il nome del grande coperto di onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes, che pochi uomini viventi sono al dì d’oggi tanto conosciuti quanto lo è egli. Le avventure che Cervantes s’immaginava nella sua povera oscurità, sono il soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei re ed i gabinetti degli uomini di gusto. Il bel romanzo gira in più lingue nelle mani d’ognuno; da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che sconsigliatamente sei abbandonato ai crucciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro vacuo, ed anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti ed alle scienze. Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio, un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli, vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia, mentre l’obblivione ha per sempre cancellati i nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ricchezze, allra non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che onorificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a render te stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza e col buon ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta, che sta sulla base propria adamantina e non cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri d’uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, d’amico; sia la tua promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e dell’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sii giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu stesso un tesoro di onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano, e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l’oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co’ quali viene incautamente strascinato alla infelicità.
§ IV. — dell’accrescimento del nostro potere.

Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella de’ piaceri fisici; propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla immaginazione alla realità, perdono costantemente, e che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Perocché un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti desiderj figli dell’errore e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que’ fini. Ma l’amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione all’organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriverne. Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrirei tormentosi, e vani desiderj, de’ quali ho trattato; ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col tempo, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmente l’argomento è troppo difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d’Ovidio che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento. Perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di troppo cibo; annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola disavventura: vedrai il primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensibilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberali poi da taluno dei dolori innominati, dei quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto, molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mantenere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’ piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie; l’intemperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e sedentaria, l’abituazione a’ troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali possono mollo contribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più utile e più sicura degli incerti tentativi, che fannosi per lo più per ricuperare la perduta, è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respignere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacché anche alla gloria e ad altri beni non si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchinale che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario all’uomo per avere un’esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e questo sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver commesse azioni vili e indegne, sebbene nell’oscurità abbia tessute le insidie, sempre è angustiato dal timore che sieno svelate: un’occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano: ei porta nel cuore una malattia più disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi, e mille tristi pensieri abituali nel cuore di un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che obbedisce alla virtù. Vera è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare l’uomo giusto; ma qual peso il rappresentare ogni giorno tutt’altro ohe noi stessi! Questo sforzo non toglie l’interno avvilimento. Si può disputare qual de’ due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito, per non averla, l’altro fa sforzi per contraffarla. Sono due debitori; il primo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa: entrambi hanno l’avvilimento nel cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l’interno sentimento di noi sessi, che è il più giusto e inesorabile de’ nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini: l’errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità. Non pretendo io già che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato, trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento. Ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi fissate dall’Autore dell’Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli errori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito, che talvolta s’incentrano dubbj, e fa mestieri d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario insegna all’uomo la strada della giustizia religiosa: il mero ragionatore, che ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uomini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini al santuario istesso, partendo ancora da’ più meccanici principj; perchè una verità non può smentire un’altra verità, e da più principj fisici o morali, purché sien veri, concatenando una verità all’altra, si può giugnere alla stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia una legge universale sempre ubbidita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore de’ dolori e la maggiore somma de’ piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene finito. Un’infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessione, alla quale pochi uomini si addestrano, non pone dicontro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacere attuale a prezzo di un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà illuminato, tanto più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’ dolori: quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa, e si terrà lontano da’ rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie all’onestà, sono false: la vera religione è sempre offesa, quando sia violata la onestà. Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi dell’onestà, siccome tanti illustri Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma de’ dispiaceri che si ricevono dagli uomini, qualora si ha il concetto di essere malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità a’ nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col tradire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ecc., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del rimorso che scema il poter nostro, togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente concludo che la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici, quelle anime nobili e sublimi che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere, e se, per conservarcene tutta la porzione possibile, dobbiamo colla saggia moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj, ci fa bisogno d’avere in favor nostro i suffragi degli uomini o almeno non averli contrarj. Questi o si comprano o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura, ma conforme alle leggi. I Romani, daché la virtù repubblicana era svanita, si vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere, gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la loro tirannia anche i primi Cesari, e, fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta, impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano, ubbidendo così al timore, alla vendetta ed alla avidità propria col concedere alla fame particolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a Roma, ne’ tempi di sua grandezza: non è però abolito l’uso di comprare più in piccolo i suffragi del popolo anche a denaro; e ciò non potendo accadere nelle monarchie ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a suffragi pubblici si facciano le elezioni alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve periodo, a meno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l’avevano i primi imperadori; e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo de’ beni superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare, facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi: nemmeno in conseguenza possono essere gli uomini d’ingegno caldo o d’immaginazione violenta: la figura nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità, è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la compra dei suffragi pubblici o per denari o per maniere, è da considerarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a poterselo procurare, opera sapientemente nel farlo; e chi non ha i mezzi per comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi contrarj, come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamente della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro; così si legano a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme col pericolo cresce la forza dell’impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti, essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della moltitudine, ottenendo una carica, per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a pochissimi; e sebbene accrescano il potere, anche assai di più moltiplicano i desiderj, onde non sono i trascelti da’ veri saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie loro l’occasione di restringere il nostro potere, sottraendoci a’ loro sguardi con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell’aperta ingiustizia, se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso d’ogni altro e meno soggetto a’ capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente prescelto da’ saggi.
§  V. — DI ALCUNI CONTRASTI FRA  LE  LEGGI.

La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi. Abbiamo le immortali leggi prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate, che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda.
Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il supplizio e l’infamia. La vita del principe Stuardo pretendente alla corona della Gran-Brettagna era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo; il pretendente sconfitto, dispersi interamente i suoi partigiani; senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver passato un giorno appiattato in un cespuglio, intorno cui giravano i nemici per prenderlo, venuta la notte, si presenta alla casa d’un gentiluomo del contorno: — Vi porto, gli disse, un felice annunzio. Dieci mila lire sterline sono vostre: sol che il vogliate, potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: son io, senza difesa; disponete dell’ultimo infelice rampollo dei vostri re, ovvero, se le mie disgrazie v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscir dall’isola. — Che partito doveva prendere il gentiluomo? Egli ristorò l’infelice principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione. Fu processato; la legge era chiara, come chiara la contravvenzione: per tutta difesa chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbono essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azione giusta e virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso ad un generoso e nobile uomo di soggiogare e impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare la libertà ad un inimico del proprio re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi contravvenire ad un legittimo proclama? Hai data la tua parola d’onore di conservare un secreto; si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo. Altra pubblica legge ti offre una ricompensa, e con pubblico editto l’invita ad uccidere un uomo; ma la religione e l’onestà gridano: Non tradire, non uccidere: come condurrommi in questo orribile labirinto?
In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esalto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia; poiché sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un piacere che portain conseguenza un male più grande di lui. Si dà un apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni periodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il pericolo di abbandonare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente calma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse, siccome di sopra ho detto, d’ubbidire alle leggi dell’onestà, così evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.
Ciò posto, per conoscere, fra le contraddizioni angustiose delle leggi, cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta quale dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo, conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.
Formiamoci un’idea d’una società d’uomini tanto perfettamente organizzata, quanto ce la può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciulli da una tempesta sieno divenuti col tempo i patriarchi d’un nuovo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di poter formare una nazione. Questa moltitudine d’uomini mossa da’ bisogni, mancante d’idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite alle azioni altrui; e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è propria del maggior numero, così in quello stato la parte massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza. Quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti raccolti pel proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più accorto a proporre un’associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con certe leggi fattizie sicuro di conservare sé stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un diritta di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i regni d’Europa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile associazione primitiva? Quest’isola immaginata altro non è che una finzione la quale niente ha di comune colla realtà de’ nostri diritti. Così può chiedermisi ragione della genealogia degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni filosofi, di quello che alcuni antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo che della rimota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione della scrittura: arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente inventata in que’ tempi, ne’ quali la memoria dell’associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo di più che, forse indipendentemente da ogni convenzione, un uomo solo più ardito, più illuminato o più scaltro, può avere cominciato a dominare sopra i suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo potrebbe togliere. Perciò quell’origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un diritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così saggiamente adoperato, che equivalesse all’immaginata spontanea primitiva associazione.
Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i doveri e i diritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste; giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza. Ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità pubblica; e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è un’immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data, nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi. Poiché, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero d’uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all’errore alle passioni e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.
Una società traviata da’ principj costituenti la giustizia sociale e condotta alla corruzione, lascia per l’opposto incerti i doveri e i diritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo. La felicità condensata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo stato di miseria e di annientamento di molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto: si teme la verità, si fugge la vista d’una virtù più luminosa, il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere; e di questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra isolate dal timore e concentrale, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla. Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a’ non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde, per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perchè essendo l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa parte con liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose è nobili, ovvero abbiette e codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gli interessi di tutti. Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia un’azione più utile in generale agli uomini il rinforzare le leggi dell’onore, acciocché almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che si andrà accostando all’originaria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere maggiore, onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VI.—DELLA CONOSCENZA DI NOI E DEGLI UOMINI.

Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere gli uomini. Conosci te stesso, ò un antico e verissimo precetto della sapienza, il quale in poco indica la perfezione della grand’opera a cui debbono tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come deboli ammalati che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sé medesima: quindi l’abbonimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conversazione qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche di un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita de’ più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, a’ quali rarissime volte la riflessione contrappone l’immagine degli oggetti lontani: onde mutandosi pel moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore all’odio, dal disprezzo alla stima, con un’apparente contraddizione, ma che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio che cerca la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sé stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, e d’onde traggano questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e pone sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapienza, gli sta al fianco; separa le verità dalle opinioni; pone nella prima classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare se stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia dei passati tumulti, divisa i mezzi onde scemare le turbolenze cagionate dai desiderj di beni chimerici, ovvéro di beni non conseguibili, col passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia all’esame dei mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che possiamo sentire con una sorta d’amicizia di noi stessi la contentezza di esistere, di renderci conto de’ principi che ci movono: il che ci dà una ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiorità nostra, in ciò che noi possiamo essere con noi medesimi; laddove quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia, nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini m’innalza al disopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la fortuna; l’orgoglio e l’invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo meno di quello che è infatti se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune; gli onori mi ubriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale; una traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza; passerò la vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma. Se conservo la pace interna all’udire un’azione infame, dirò: Il mio cuore è disgraziatamente insensibile; il mio animo è sinora incapace di elevazione; sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba nel mio cuore; se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto; se rabbonii nazione e la viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora: Sono capace di virtù, sono un uomo, e posso innalzarmi alle belle azioni. L’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini di merito, e con ciò avrò la misura dell’elevazione della mia mente. Il contrasegno più sicuro di ogni altro per conoscere se vagliamo è la sensibilità e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui; questo pusillanime rannicchiamento del cuore è figlio dell’incertezza del nostro merito, e suppone un’anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere all’opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il riuscire dipende dalle opinioni, da’ tempi e da’ luoghi. Io non cercherò ad un altro uomo, se quello ch’io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dall’opinione d’uomini colti e onesti, se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda l’impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore, l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nella solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè dell’elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna dimostrazione.
Conosciuto ch’io sia a me medesimo; definita ch’io abbia la vera e nuda altezza in cui mi trovo riposto; spogliato ch’ io mi sia de’ titoli e di quant’ altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose che si muovono intorno di me, nè il favore d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che valgo, nè gli insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza sopra il destino e sta immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere all’infelicità; il che sta rinchiuso nel precetto: Conosci te stesso.
L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di sé medesimo per fare il miglior uso del proprio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della propria carriera, e quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte ed il proprio lato debole. La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità. Sarebbe un uomo di spirito amabile; disgraziatamente si è trascelto maniere gravi e sentenzioso discorso: è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che si è imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe di migliore riputazione. Questi sarebbe un elegante scrittore se non si ostinasse a comporre per il teatro, per cui manca di genio. Quegli è un esattissimo ragionatore, e non vuol scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi, ne’ quali l’uomo si presenta svantaggiosamente per non avere esaminato meglio so medesimo e trascelta l’occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne occuperà, esaminerà sé stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo contorno e riesce disgustoso, e che l’imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sé medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che ti muovono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo; fra l’occhio e il primo, il vetro è convesso; fra l’occhio e il secondo, è concavo il vetro; e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi; ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si fida de’ giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna, altrui, non sente cambiarsi internamente l’opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell’udito, nell’odorato e nel corso; vedilo viaggiare sicuramente sull’instabile superficie dell’immenso Oceano, attraversare gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci sì varie, col mezzo delle quali comunica a’ suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora; cerca di parlare a’ lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura e la perfeziona al ponto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo, ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi quest’industriosissimo essere creare a sé stesso nuovi organi per supplire alla debole sua vista: e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la picciolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l’eclisse e l’apparenza. Cava di mezzo ai monti i metalli, e ne forma stromenti per la difesa e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e difficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a teiajo, dal tintore ecc. Esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj di molti sogni e di alcune verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d’Europa miseramente sagrifichino ogni anno molte migliaja di vittime umane per possedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile stromento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver libero e facile il moto, e d’essere difesa dal nemico o dalla stagione. I pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad un uomo. I giurisperiti hanno posta l’incertezza nelle proprietà. I medici, poco conoscendo e molto affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi; la piccola è di quelli che ne impongono, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono: stanno confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male; e il commercio d’uomo a uomo comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in eguali porzioni. Nel conoscere queste tristi verità l’uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa misantropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l’uomo che ha trovato le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni pochissimi, i quali sono dolali di una forza d’ingegno e d’una costante passione per cercare la verità e la gloria, talché essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione una scienza; e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo. Fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che risguardano gli interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capace d’innalzarsi, viene o escluso o contrastato, a meno che quest’uomo non sia nato sul trono. Perciò i regolamenti politici essendo l’opera di più uomini sono come le strade delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì queste che quelle nascono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di ottenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme, il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sé, possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigiose e sublimi: le opere concertate da molti uomini insieme, che a forze eguali si uniscono, sempre saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo, un Newton. Nessun’accademia di pittura ha formato un Rafaello, un Correggio, un Tiziano. Nessuna accademia di poesia ha formato un Tasso, un Ariosto. Un ceto d’uomini non farà mai cosa che oltrepassi la mediocrità.
L’uomo comunemente è debole; anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre della gelosia, dell’invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il ragionare; pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitudine ha ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; loda le virtù facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azioni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, perchè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio, che cerchi la tua felicità, di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione, e in vece di affliggertene allorché non la trovi, rimira ciò come un regolare fenomeno della nostra specie. Se ami d’essere superiore colle forze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri tu trovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua sopra de’ volgari; essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una classe di impossibili desiderj, e si accresce il sentimento del tuo potere.
§ VII. — DEI MOVIMENTI  DEL  CUORE.

Le verità sinora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro cuore: la compassione e il bisogno di amicizia. La vista d’un animale morto eccita un’emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno. Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addoloralo patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I bambini fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta a’ mali altrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma l’uomo comune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista de’ mali, le fibre con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice criminale, che fa da’ sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col litotomo [2], che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui, se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro stoico consigliarci d’indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi altrui: ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa sensibilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consiglierà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati, anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre, azioni verso il bene sono sempre più energiche, quando parlano da una spinta di sentimento di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di compassione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del nostro animo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un nobile sentimento dalla coscienza nostra, che ci risponda dell’elevazione di noi medesimi (il che non può aversi se non a misura che siamo virtuosi), così questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimento altrui. Molti sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e liberare altri dal male, conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi, o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti, e più sicuri e brevi; ed occupato in questa ricerca industriosamente il saggio, distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose, e si renderà sempre più robusto per allontanare sé medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de’ mali altrui non si trova che languidissima, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibre perdono la loro sensibilità egualmente o nel letargo, o nell’abuso delle ripetute sensazioni. Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fra le ridenti dissipazioni, vedrà un pallido padre di una numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassionevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un remo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità, che rende le anime delicate e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro che avendo idea de’ mali e provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, nè assorbito da una passione violenta che annienti ogni altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vita, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli, e chi persino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati o smarriti in uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno di avere un amico è piccolo negli uomini d’un carattere duro e poco sensibile, è grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, negli avari, ne’ maligni e in tutti coloro i quali debbono temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esamineremo i beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amicizia, dubito che ne sarà per comparire una verità poco consolante. Sono tanto rari i caratteri meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo, che, cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar sempre coll’amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’essere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in agguato, sempre in guardia, avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sagrificando il più nobile sentimento che mi rende sopportabile la vita? Io stimo che sia men male l’avventurarsi talvolta anziché l’esistere così solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del sublime entusiasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecillità; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi. Perciò l’uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l’abbia, si abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente, ed osservalo in varie circostanze felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principi; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dall’avidità delle ricchezze, dalla briga e dall’affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tali passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’un’azione generosa faccia comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’un’infamia dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservalo inalterabilmente i loro tratti! Esamina se infatti sia compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il sublime coraggio di dare il torto a sé medesimo, quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padrone, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge a questo esame l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una scambievole uniformità di genio. Due onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico. Tanti uomini illustri e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei hanno scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne; nè questo discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò solamente che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne’ benefici medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi le riceve, e fa risguardare l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddisfare giammai. Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne’ proprj sentimenti, e che la riconoscenza istessa non sia tanto un dovere, quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazione di uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia; questa è più costante ed intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà; perchè sotto un governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s’avvicina al suo simile per rinforzo ed ajuto; e per lo contrario sotto un governo giusto e costante l’uomo ha un’esistenza propria all’ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza bisogno di soccorso.Sotto la sferza della scuola d’un pedagogo, fra i pericoli delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle società che chiamano di bel mondo, gli uomini passano la vita senza accostarsi all’amicizia. I caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte vi ha l’ingegno e meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizione che la ragione c’insegna, troverà il saggio di essersi ingannato, soffrirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa una sventura, come una febbre da riguardarsi come un appannaggio della nostra sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fra le braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano dell’ingratitudine degli uomini, soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza de’ principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno dell’amicizia invece d’indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicché per questi due sentimenti tu diverrai ancora più lontano dall’infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VIII. — SE I MEZZI PER VIVERE FELICI

CRESCANO OVVERO SCEMINSI IN QUESTO SECOLO.

Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si promove e dilata la felicità d’uno Stalo; sarebbe questo un argomento che da sé meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un si vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere, se gli uomini che attualmente vivono, abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel còrso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio de’ nostri simili che seppero sopportarne una più penosa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità. Il Muratori in cento luoghi si consolava della felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò un compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci animati da un violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti confini del loro paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa, soggiogando le genti attonite, che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore inalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte d’Europa. Passa la robusta virilità dall’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell’Orsa le generazioni d’uomini, che dall’Eusino e dalla Germania, invadendo il Romano Impero, tutto distruggono, niente sostituiscono: lottano con altri barbari; poi, indeboliti a poco, a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, nei quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore. Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti: quindi per molte generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate e l’educazione, comparve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della sicurezza della nazione si eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni, e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per loro stesse, e divennero un mero patrimonio de’ principi, i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per motivi personali de’ principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate: spettacolo ben diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti da’ loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armale di schiavi mercenari limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva a’ sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò nelle miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a partecipare di questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio; si conobbe che la pubblica sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso ed arbitrario ne è l’esterminatore. Quindi alcune nazioni per non deperire nella forza relativa adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui altre vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Europa; e i sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile e la felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto. L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti prepara ano stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il fisico ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto delle miniere, e a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacché la storia ci ha trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’pensaiori fa torto la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore negli animi, l’antica guerra di nazioni e non di principi; e per questo circolo passeranno in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in fatti i sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini: li vediamo rappresentare la maestà della nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro l’abuso del potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno dello Stato, e servire allo stipendio di quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della nazione forza è che sieno alimentati dal possessore di cui conservano la proprietà o combattendo, o dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i diritti di ciascuno e frenando i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli che servirono di modello al Segretario Fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV accadevano quando nella Lombardia il duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da ferocissimi mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per comando d’un sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le donne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante, che non si presterebbe credenza a un tal racconto, egli Stati suoi si spopolerebbero, correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di stato. Io non dirò che tutti gli Stati d’Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica: ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì disputare se l’uomo fra gli Urani e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società sia più misero dello stato di società celta e legittima. Nella vita selvaggia può dirsi che l’eccesso de’ desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli sono limitati quasi a’ soli bisogni fisici, e questo è grande coll’agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione. Nello stato di società i desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si scema da quello delle forze fisiche; ma  se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla fonte dell’equità e della giustizia sgorga il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è vacillante, e l’eccesso de’ desideri diventa sommo. Si è forse trovato un ingegnoso paradosso, piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che gli uomini sociali; perchè si è creduto che con ciò si facesse il progetto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il selvaggio abbia tutti i bisogni ch’ei sente, e mancando di mezzi per soddisfarli conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la quistione è un oggetto di semplice speculazione; nè mai da questa potrà dedursene, che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate, se non se quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’industria, ed affrettando i progressi della verità, fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune l’uso di essa a’ cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società: al mio intento basta soltanto di indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi nell’Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l’indole del clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i governi dispotici, antichissimamente istituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di generazioni; ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente confermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato somigliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.
Dal sin qui detto raccogliesi, che l’uomo ha più mezzi oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi dipendono da’ lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse dominano l’opinione, e questa il mondo. Il saggio le onora, e sopra di ogni altra coltiva la scienza di sé medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare sé stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
CONCLUSIONE.

La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma pure chimera, perché l’uomo senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi de’ venti dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmente ne soffre il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci da’ desiderj contrari a lei e procurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini colti e naturalmente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni, per non aver credulo abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti, agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbolenta condizione ch’ei penetra a conoscere nell’interno altrui. La felicità del saggio comincia da lui, e si estende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di sé medesimo, mentre la prima si estende al di fuori di sé lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni; l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente cresce, e muore al primo gelo. Un antico poeta desiderava che l’uomo malvagio vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei, che gli uomini la vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno, anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso ed illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d’invidia, e ti proverò che se fosse staio illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj, combina questi elementi; e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso de’ desideri sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de’ tuoi principi, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani da noi medesimi, quanto gli spettacoli e le rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noia di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la capacità di ripiegarsi in sé stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del proprio potere, per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.

Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a godere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all’opposto merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che quell’uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicché nè l’una degeneri in asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio resta egualmente distante e dall’inurbanità e da quella servile passività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principi costantemente seguiti e difesi. Fra le nazioni corrotte tu vedi il sorrìso sulla faccia dei cittadini. Fra le nazioni illuminate leggerai in fronte agli uomini l’onorata sicurezza e l’amore dell’ordine. In ogni nazione il saggia esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria felicità.