SENTENZE
Porfirio
SENTENZA I
Ogni corpo è nello spazio, ma nessuno degli incorporei in sé è, in
quanto tale, nello
spazio.
SENTENZA II
Gli incorporei in sé, per la ragione stessa che sono superiori a
ogni corpo e allo spazio, sono ovunque; e non in modo estensivo, ma
indivisibile.
SENTENZA III
Gli incorporei in sé, dato che non sono spazialmente presenti nei
corpi, vi sono presenti quando lo vogliono, nel senso che si abbassano fino ad
essi per quanto sta nella loro natura di abbassarsi. E, non presenti
spazialmente, lo sono nella conformazione dei corpi.
SENTENZA IV
Gli incorporei in sé non sono presenti nei corpi né come ipostasi
né per essenza, né si mischiano ad essi. Ma attraverso l'ipostasi che
scaturisce dalla discesa, trasmettono una certa potenza che è vicina ai corpi.
È la discesa infatti che dà ipostasi a una seconda potenza prossima ai corpi.
SENTENZA V
L'anima è un termine medio tra l'essenza indivisibile e quella che
è divisa nei corpi, la mente è solo essenza indivisibile, i corpi sono solo
divisibili, le qualità e le forme materializzate sono divise nei corpi.
SENTENZA VI
Non tutto ciò che agisce in altro agisce per prossimità e per
contatto; piuttosto anche ciò che agisce per prossimità e contatto usa la
prossimità per occidente.
SENTENZA VII
Le ipostasi incorporee, quando scendono, si dividono e si
moltiplicano nell'individuale per un rilassamento della potenza. Quando invece
salgono, si unificano e spaziano in senso opposto verso l'insieme per la
sovrabbondanza della potenza.
SENTENZA VIII
Tutto ciò che genera per propria essenza, genera qualcosa di
inferiore e tutto ciò che nasce si volge per natura a chi l'ha fatto nascere.
Tra i generanti alcuni non si volgono affatto ai loro generati, altri si
volgono a quelli e a se stessi, altri ancora si volgono soltanto alla loro
progenie, ma non a se stessi.
SENTENZA IX
Ogni cosa che nasce ha da altro la causa del proprio nascere,
ovvero nulla nasce senza causa. Ma tra le cose che nascono quelle che
acquistano l'essere in seguito a composizione sono disgregabili e per ciò
stesso corruttibili. Tutti gli esseri semplici e non composti, che acquistano
l'essere nella semplicità dell'ipostasi, in quanto non disgregabili sono invece
incorruttibili e si dicono generati non perché composti, ma perché dipendono da
una qualche causa. Dunque i corpi sono generati nel doppio significato che
dipendono da una causa produttrice e sono composti, mentre l'anima e la mente
sono generate solo nel senso che dipendono da una causa, non certo perché composte.
Pertanto i corpi sono generati, disgregabili e corruttibili; gli altri esseri,
in quanto non composti, sono ingenerati, e perciò indissolubili e
incorruttibili, ma anche generati, nel senso che dipendono da una causa.
SENTENZA X
Nelle vite degli incorporei le progressioni si verificano in
condizione di stabilità e saldezza dei termini precedenti, che non corrompono
né mutano qualcosa di sé nel produrre l'ipostasi dei conseguenti. Così anche
quelli che prendono ipostasi, la prendono senza che nulla si corrompa o muti, e
per questa ragione neppure si generano, se la generazione partecipa di
corruzione e mutamento: ingenerati e incorruttibili e, per questo, generati
ingenerativamente e incorruttibilmente.
SENTENZA XI
Tra le ipostasi integrali e perfette nessuna sta rivolta alla
propria progenie, ma tutte sono fatte risalire alle cause che le hanno
generate, fino al corpo dell'universo. Poiché esso è perfetto, viene ricondotto
all'anima, che è intuitiva, e pertanto si muove di moto circolare. La sua anima
poi è volta alla mente e la mente al primo principio. Così ogni ipostasi si
espande verso il primo principio, a cominciare dall'ultima e secondo le possibilità
di ciascuna; il ritorno al primo principio si compie tuttavia o da vicino o da lontano.
Si direbbe perciò non solo che tutte aspirano al dio ma anche che ne godono a seconda
della potenza.
Le ipostasi divisibili, dotate della facoltà di abbassarsi al
molteplice, hanno invece la possibilità di volgersi anche alla propria
progenie. È in queste ipostasi pertanto che hanno avuto origine la colpa e
l'infedeltà biasimevole. In loro il male è la materia, perché scelgono di
volgersi ad essa, mentre potevano rimanere rivolte al divino. Così la perfezione
fa nascere le realtà seconde dalle prime e ha cura che rimangano volte alle prime,
ma l'imperfezione volge persino le prime verso le realtà posteriori e fa sì che
amino cose che prima di loro si sono allontanate.
SENTENZA XII
La denominazione di incorporei non viene attribuita a oggetti che
abbiano in comune uno e un medesimo genere, come i corpi, ma secondo la pura e
semplice privazione delle proprietà corporee. Per questa ragione nulla
impedisce che alcuni di essi siano esseri e altri non esseri, che alcuni
esistano prima dei corpi, altri con i corpi, che alcuni siano separati dai
corpi, altri non separati, che alcuni prendano ipostasi in se stessi e altri
siano bisognosi di altro per esistere, che alcuni esistano da sé con azioni e forme
di vita che si muovano da sole, altri con forme di vita che sussistono solo in funzione
di azioni di un certo tipo. Si denominano infatti in base alla negazione di ciò
che non sono, non in base all'affermazione di ciò che sono.
SENTENZA XIII
Alcuni incorporei si chiamano così e si concepiscono in quanto
privi di corpo: tali, secondo gli antichi, sono la materia, la forma che è
nella materia - quando la si pensa astratta dalla materia - e ancora le nature
e le potenze. Così pure lo spazio, il tempo e i limiti. Tutti questi vengono
chiamati incorporei perché sono privi di corpo. Ma vi erano già altri
incorporei così chiamati impropriamente, non perché privi di corpo, ma perché la
loro natura non può assolutamente generare un corpo. Perciò gli incorporei nel
primo significato prendono ipostasi in rapporto ai corpi e quelli nel secondo sono
perfettamente separati dai corpi e dagli incorporei in relazione coi corpi. I
corpi infatti sono nello spazio e i limiti sono in un corpo, ma la mente e la
ragione intuitiva non hanno ipostasi nello spazio né in un corpo, non danno
immediatamente ipostasi a corpi, non sussistono né in funzione dei corpi né in
funzione degli incorporei così chiamati perché privi di corpo. E dunque neanche
se si concepisse l'incorporeo come qualcosa di vuoto, la mente potrebbe essere
nel vuoto. Il vuoto sarebbe piuttosto il contenitore del corpo, impotente a far
spaziare l'attività della mente e a darle un luogo.
Benché questa duplicità di genere appaia manifesta, i seguaci di
Zenone non l'hanno capita affatto, perché accettano il primo significato,
mentre l'altro, poiché constatano che non è uguale, lo eliminano. Dovevano
invece sospettare l'esistenza dell'altro genere e non concludere che, poiché il
primo non ha un'esistenza reale, neppure può averla il secondo.
SENTENZA XIV
Le proprietà della materia secondo gli antichi sono queste:
incorporea – perché diversa dai corpi - senza vita - perché non vivendo di per
sé non è mente né anima - informe, irrazionale, illimitata, impotente. Perciò
non è "essere", ma "non essere". E "non essere"
non nel modo in cui il movimento è "non essere" e "non
essere" è la quiete.
È il vero "non essere": immagine riflessa e fantastica
della massa corporea, in quanto della massa è il costitutivo primario,
impotenza e desiderio di ipostasi. È l'immobile che non sta in quiete, ciò che
di per sé viene immaginato sempre nei contrari: piccolo e grande, meno e più,
insufficiente ed eccessivo. E sempre in divenire e non permane ma non può
fuggire: è mancanza totale dell'essere. Per questo tutto quel che promette è menzognero
e quando lo si immagina grande è piccolo. È come un gioco che fugge nel non
essere, perché non è fuga attraverso lo spazio, ma per allontanamento
dall'essere.
Ragion per cui anche le immagini riflesse in essa stanno dentro a
un'immagine peggiore, come in uno specchio, dove una cosa posta da una parte la
si immagina dall'altra e dà l'impressione di essere piena; e non ha nulla,
mentre pareva avere tutto.
SENTENZA XV
Altra è la passività dei corpi, altra quella degli incorporei: il
patire dei corpi è accompagnato da mutazione, ma le proprietà e le passioni
dell'anima sono stati attivi, in nulla simili al riscaldarsi e al raffreddarsi
dei corpi. Perciò se la passività si accompagna in ogni caso alla mutazione, si
deve dire che gli incorporei sono tutti impassibili. Infatti le realtà separate
dalla materia e dai corpi sono in atto [sempre] le stesse, quelle poi che si
avvicinano alla materia e ai corpi sono impassibili, quelle infine in cui esse
si danno a vedere, patiscono. Perché, quando un essere vivente ha una
sensazione, la sua anima somiglia a un'armonia separata che di per sé metta in
vibrazione delle corde intonate dall'armonia inseparabile. La causa del
movimento, ossia il vivente in quanto dotato di anima, è l'analogo del musico
nel suo essere dotato di armonia, e i corpi percossi, col loro patimento
sensibile, corrispondono alle corde intonate. Nella musica infatti non è l'armonia
separata che patisce, ma la corda; e il musico la mette in vibrazione in virtù dell'armonia
che è in lui. La corda non produrrebbe un moto musicale, posto che il musico
volesse, se l'armonia non lo ordinasse.
SENTENZA XVI
Non c'è passività che là dove c'è corruzione, perché accogliere
passione è la via verso la corruzione, e il corrompersi è proprio di colui che
patisce. Nessun incorporeo si corrompe; o è o non è, in modo da non patire
nulla. Il paziente non può essere così, ma deve alterarsi e corrompersi sotto
l'azione delle qualità degli oggetti che gli si insinuano dentro e ne provocano
la passione. Per la qualità interna l'alterazione non è casuale: [il calore
interno è alterato da ciò che lo raffredda, l'umidità da ciò che la dissecca, e
diciamo che il soggetto ha subìto un'alterazione quando da caldo diviene freddo
e da secco umido]. Così la materia non patisce - in quanto è di per sé senza
qualità – né patiscono le forme che vi entrano e ne escono. La passione
riguarda il composto e qualunque cosa il cui essere consista in una
composizione. E il composto si dà appunto a vedere nelle contraddittorie
potenze e qualità degli oggetti che si insinuano. Per questo le cose che hanno
la vita dall'esterno e non da loro stesse, possono essere affette tanto dal
vivere che dal non vivere. Ma quelle che esistono in una vita impassibile è necessario
che permangano in modo vitale, così come il privo di vita, nella misura in cui ne
è privo, necessariamente non patisce. Come la mutevolezza e il patimento sono
nel composto di materia e forma, ossia nel corpo, e non nella materia, così il
vivere, il morire e il patire per questo si danno a vedere nel composto di
anima e corpo. Di patire per questo non accade all'anima, perché essa non è
composta di vita e non vita, ma è vita soltanto. Ciò intendeva Platone, quando
diceva che essenza e definizione dell'anima è: «colei che muove se stessa».
SENTENZA XVII
Un incorporeo che si trovi dentro un corpo non ha bisogno di
esservi rinchiuso come una bestia in un serraglio, perché nessun corpo ha il
potere di rinchiuderlo e di stringerlo così, né di aspirarlo come un mantice
aspira un liquido o dell'aria. Bisogna che sia l'incorporeo stesso a dare
ipostasi a quelle potenze che lo fanno declinare dall'unità con se stesso fin
verso l'esterno e gli permettono di scendere e unirsi al corpo.
Proprio il suo ineffabile espandersi fa sì che si ritrovi
congiunto a un corpo. Perciò null'altri che se stesso lo lega e non lo
sciolgono la rovina o la corruzione del corpo: può sciogliersi solo da sé
deviando dalla simpatia per le passioni.
SENTENZA XVIII
L'anima si lega al corpo perché si volge alle passioni di quello,
ma se ne scioglie di nuovo mediante l'impassibilità.
SENTENZA XIX
Ciò che natura legò natura scioglie, ciò che l'anima legò l'anima
scioglie. La natura ha legato un corpo a un'anima e l'anima ha legato se stessa
a un corpo. La natura quindi scioglie il corpo dall'anima, l'anima scioglie se
stessa dal corpo.
SENTENZA XX
Di certo vi sono due specie di morte: l'una, ben nota, del corpo
che si scioglie dall'anima, l'altra - propria dei filosofi - dell'anima che si
scioglie dal corpo. E non sempre l'una consegue dall'altra.
SENTENZA XXI
L'anima è un'essenza priva di grandezza e materia, incorruttibile,
che arriba all'essere in una vita che possiede di per se stessa il vivere.
SENTENZA XXII
Per quell'essenza il cui essere consiste nella vita e le cui
passioni sono vita, per essa anche la morte è in qualche modo un momento della
vita, non una definitiva privazione.
Per essa infatti neppure la passione è una via che conduce
all'assoluto non vivere.
SENTENZA XXIII
Non soltanto negli incorporei c'è ambiguità di termini; della vita
stessa si parla in molti sensi. Altra è infatti la vita del vegetale, altra
quella dell'essere animato e altra quella dell'intuitivo, altra poi è la vita
della natura, altra quella dell'anima e altra quella della mente; altra infine
la vita di ciò che è al di là. Vive infatti anch'esso, benché nessuno degli
esseri che ne conseguono possieda una vita paragonabile alla sua.
SENTENZA XXIV
Tutto è in tutto, ma compatibilmente all'essenza di ciascuna cosa.
Nella mente tutto è intuitivamente, nell'anima lo è razionalmente, nelle piante
seminalmente, nei corpi sotto forma di immagini riflesse, in ciò che è al di là
in modo inintuitivo e superessenziale.
SENTENZA XXV
L'essenza intuitiva è formata di parti simili l'una all'altra, di
modo che gli stessi esseri si trovano sia nella mente particolare quanto in
quella perfetta. Ma nella mente universale persino le parti sono comprese
universalmente; in quella particolare tanto gli universali che i particolari
sono compresi parzialmente.
SENTENZA XXVI
Su ciò che è al di là della mente si dicono molte cose basandosi
sull'intuizione, ma lo si contempla in uno stato di non-conoscenza superiore
all'intuizione, così come sul dormiente si parla molto nello stato di veglia,
ma di cose conosciute e sperimentate durante il sonno. Il Simile infatti si
conosce col simile, in quanto ogni conoscenza è somiglianza col conosciuto.
SENTENZA XXVII
Il non essere, in un senso lo generiamo quando ci siamo separati
dall'essere, in un altro, lo pre-intuiamo quando stiamo congiunti all'essere.
Così, se ci separiamo dall'essere, non pre-intuiamo il non essere che sta sopra
l'essere, ma generiamo un non essere che è una falsa impressione, come capita a
chi è uscito fuori di sé. Del non essere infatti è autore chiunque può
realmente risalire da sé al non essere che è sopra l'essere o discendere al
non-essere che è la caduta dell'essere.
SENTENZA XXVIII
Gli antichi che per quanto possibile volevano spiegare con un
discorso razionale le proprietà dell'essere incorporeo, quando lo chiamarono
"uno", subito aggiunsero "tutto", conformandosi a ciò che
in qualche modo rappresentava l'unità delle cose conosciute per sensazione. Ma
quando si accorsero che tale unità era qualcosa di diverso, giacché questa
entità complessiva "uno-tutto" non la vedevano nel sensibile,
congiunsero all'"uno-tutto" l'"uno in quanto uno", perché
capissimo che nell'essere l'"esser tutto" non è qualcosa di composto
e ci astenessimo dall'idea di una somma. E quando dissero che è lo stesso
ovunque, aggiunsero che non è in alcun luogo. E quando dissero che è in tutte le
cose e in ognuna di esse, nella misura in cui una cosa parziale può
adeguatamente accoglierlo, aggiunsero che è un "tutto intero in un tutto
intero". Insomma ce l'hanno mostrato attraverso le massime contraddizioni
prese insieme, affinché ne bandissimo le rappresentazioni immaginifiche che
derivano dai corpi e oscurano le proprietà conoscitive dell'essere.
SENTENZA XXIX
Il dio è ovunque perché in nessun luogo, la mente è ovunque perché
in nessun luogo, anche l'anima è ovunque perché in nessun luogo. Ma il dio è
ovunque e in nessun luogo rispetto a tutte le realtà che da lui conseguono
(rispetto a se stesso è soltanto come è e come vuole); la mente, che è in dio,
è anch'essa ovunque e in nessun luogo rispetto alle realtà che ne conseguono;
l'anima, che è nella mente e in dio, è ovunque e in nessun luogo rispetto al
corpo; il corpo infìne è nell'anima, nella mente e in dio. E come tutte le cose,
esseri e non esseri, vengono da dio e sono in dio, senza tuttavia che egli sia
essere o non essere né si identifichi in esse (se infatti il dio fosse soltanto
ovunque, sarebbe tutte le cose e in tutte le cose, invece poiché è anche in
nessun luogo, le cose nascono attraverso di lui e sono in lui, dato che è
ovunque, ma restano diverse, perché egli è in nessun luogo), così la mente
stessa, che è ovunque e in nessun luogo, è causa delle anime e delle realtà ad
esse conseguenti, ma non si identifica con l'anima né con le realtà che ne
conseguono, e neppure è in esse, dato che rispetto ai suoi conseguenti non soltanto
è ovunque, ma anche in nessun luogo. Così l'anima non è corpo né dentro il corpo,
bensì è causa del corpo e, pur diffusa ovunque nel corpo, non è in nessun
luogo.
La progressione dell'universo si arresta appunto in ciò che non
può essere contemporaneamente ovunque e in nessun luogo, ma partecipa
parzialmente di entrambi.
SENTENZA XXX
Ogni cosa secondo la sua propria natura è da qualche parte; e se è
interamente da qualche parte, non è certo contro natura. Per il corpo, che ha
preso ipostasi nella materia e nel volume, essere da qualche parte significa
essere nello spazio; anche nel caso del corpo dell'universo, quindi, che è
materiale e voluminoso, l'"essere ovunque" si fonda sull'estensione e
sullo spazio esteso. Per il mondo intuitivo, invece, e in generale per l'[essere]
immateriale e incorporeo in sé, che non ha volume né estensione, non c'è neanche
la possibilità di essere in un luogo. Nel caso di un incorporeo l'"essere ovunque"
non va quindi inteso in senso spaziale.
Né dell'incorporeo vi sarà una parte qui e una altrove, perché non
sarebbe più inesteso né estraneo allo spazio. Esso è invece tutto intero,
dovunque sia. Neppure sarà qui mentre altrove non è: sarebbe infatti dentro
questo luogo e fuori da quello. Né sarà lontano da qualcosa, vicino a
qualcos'altro, in quanto lontananza e vicinanza si predicano delle cose che per
natura sono nello spazio, in base alla misura dei loro intervalli. Ne consegue
che l'universo è presente all'intuitivo per estensione, mentre l'incorporeo sta
nell'universo indivisibilmente e inestensivamente.
L'indivisibile si mostra in un oggetto esteso tutto intero in
qualunque parte, perché è uno in numero e il medesimo. Se anche incontrasse
l'oggetto esteso in un numero infinito di parti, poiché è presente tutto
intero, non si presenterebbe dividendosi e dando una parte di sé a ogni parte
[dell'altro], e neppure moltiplicandosi e offrendosi moltiplicato alla
molteplicità; ma sarà tutto intero in tutte le parti del volume e in tutti i punti,
uno per uno, del molteplice. Godere di esso in modo parziale e diviso è proprio
di quelle cose che si disperdono nella particolarità di potenze diverse; ad
esse accade spesso di attribuire ingannevolmente alla natura inestesa la loro
imperfezione e di trovarsi in difficoltà riguardo all'essere, quando passano
dalla loro abituale forma di esistenza a quella dell'inesteso. E allora
l'indivisibile e non molteplice si ingrandisce e si moltiplica grazie a ciò che
per natura è molteplice e dotato di grandezza, e così gli è presente; e per
contro grazie a ciò che per natura è indivisibile e non molteplice il divisibile
e moltiplicabile diventa indivisibile e non moltiplicabile, e così gode di
quello nei limiti della sua propria natura e non come quello è in realtà.
Questo significa che l'indivisibile è presente in modo indivisibile, non
molteplice e non spaziale, secondo la propria natura, a ciò che invece è per
natura divisibile, moltiplicabile ed esistente nello spazio; a sua volta il
divisibile, il moltiplicabile, lo spaziale è presente all'altro, che non
ha rapporto con tali attributi, in modo divisibile, moltiplicabile
e spaziale.
È necessario, in queste speculazioni, dominare bene le proprietà
di ciascuno dei due e non confonderne le nature, e più ancora le
caratteristiche dei corpi come tali non immaginarle o opinarle a proposito
dell'incorporeo, perché nessuno ascriverebbe ai corpi le proprietà del puro
incorporeo. Infatti, mentre ognuno ha familiarità con i corpi, alla conoscenza
degli incorporei arriva a stento; e benché provenga dall'incorporeo stesso,
sugli incorporei rimane incerto, finché lo domina l'immaginazione.
Dirai dunque così: se ciò che è nello spazio è anche fuori di sé,
dato che è progredito nel volume corporeo, allora l'intuitivo non è nello
spazio ma in se stesso, perché non è progredito nel volume; e se l'uno è
immagine e l'altro modello, quello acquista esistenza volgendosi all'intuitivo,
questo invece in se stesso: ogni immagine è infatti un'immagine della mente.
Se si ricordano le proprietà di entrambi, non c'è da stupirsi
dello scambio che si verifica nella loro congiunzione, ammesso che di
congiunzione si debba parlare. In effetti non stiamo esaminando una
congiunzione di corpi, ma di cose perfettamente trascendenti l'un l'altra
secondo la proprietà dell'ipostasi. Ed è una congiunzione che esula dalle
abituali considerazioni su cose della stessa essenza. Non si tratta di fusione,
di mescolanza, di congiunzione di avvicinamento, ma di una condizione diversa
che si manifesta al di là delle relazioni che in vario modo uniscono cose di
pari essenza e che è estranea a tutto ciò che cade sotto il senso.
SENTENZA XXXI
Il puro essere non è né grande né piccolo, perché grande e piccolo
sono propriamente caratteristiche del volume. Trascesi il grande e il piccolo,
al di sopra del grande e del piccolo e al di sotto del massimo e del minimo, è
uno in numero e il medesimo, anche se lo si trova partecipato da ogni massimo e
insieme da ogni minimo.
Non lo puoi pensare come massimo - altrimenti saresti in difficoltà
a capire come il massimo può essere presente nei volumi minimi senza essere
rimpicciolito o contratto - ma neanche lo puoi pensare come minimo, perché
saresti in difficoltà a capire come il minimo è presente nei volumi massimi
senza venir moltiplicato, ingrandito, esteso. Se invece considererai
contemporaneamente ciò che supera il volume massimo per un intervallo massimo e
il minimo per un intervallo minimo, capirai come nella prima cosa che capita e
in ogni altra, nelle infinite moltitudini e masse, esso si dà a vedere come l'"identico
che permane in se stesso". Sta infatti in relazione con la grandeza dell'universo
come vuole la sua proprietà fondamentale, ossia indivisibilmente e senza grandezza.
E precede il volume dell'universo, perché abbraccia con la propia indivisibilità
ogni parte di quello, così come l'universo, con la sua molteplice divisibilità e
per quanto ne è capace, sta in relazione con l'essere in modo molteplicemente divisibile
e non può abbracciarlo interamente né in tutta la sua potenza, bensì lo
incontra in ogni cosa come infinito e impenetrabile, per altri aspetti e nella
misura in cui si purifica d'ogni volume.
SENTENZA XXXII
Ciò che è maggiore in volume è minore in potenza, se confrontato
non con le cose a esso simili in genere, ma con quelle che ne differiscono in
forma o per diversa essenza.
Il volume è infatti paragonabile a un uscire da sé e a una
frantumazione della potenza. E allora tutto quel che eccelle in potenza è
incompatibile col volume, perché la potenza è piena di sé se sta concentrata in
sé, acquista la forza che le è peculiare quando potenzia se stessa. Per questa
ragione il corpo, col progredire nel volume e col depotenziamento che ne
deriva, si è allontanato dalla potenza del puro essere incorporeo, tanto quanto
il puro essere non si è vanificato in un volume ed è rimasto, poiché non ha
volume, nella grandezza della sua potenza. E come l'essere è senza grandezza e
volume, se confrontato al corporeo, così il corporeo è debole e depotenziato,
se confrontato all'essere: giacché il più grande in potenza è incompatibile col
volume e il più grande in volume è senza potenza. Così l'universo, che è
ovunque, e che incontra l'essere che è ovunque - nel senso in cui si dice
essere ovunque - non può abbracciarne la grandeza della potenza e lo incontra
non parte contro parte, ma indipendentemente dalla grandezza e dal volume. Si
tratta di una presenza non spaziale ma fondata sulla somiglianza: per quanto
cioè il corpo è capace di somigliare all'incorporeo e l'incorporeo può venir contemplato
nel corpo che gli somiglia. L'incorporeo sarà assente, nella misura in cui il
materiale non è in grado di somigliare alla pura immaterialità; sarà presente
per quanto il corpo può somigliare all'incorporeo. Tuttavia non si uniscono con
una relazione di contenente-contenuto, perché rovinerebbero entrambi: il
materiale che ha accolto l'immaterialità per il suo tramutarsi in essa, l'immateriale
perché divenuto materiale. Relazioni di somiglianza e partecipazione in realtà
transitano vicendevolmente tra potenze e impotenze e i loro opposti in essenza.
Perciò mentre l'universo dista di molto dalla potenza dell'essere
e l'essere dall'impotenza del materiale, ciò che sta in mezzo, ossia il
somigliante-somigliato che congiunge i due estremi, diventa la causa
dell'inganno riguardo agli estremi [stessi], giacché per il
tramite della somiglianza aggiunge all'uno le proprietà
dell'altro.
SENTENZA XXXIII
Il puro essere viene detto molteplice non per la diversità degli
spazi occupati, per misure di volume o per somma, non per separazioni o
delimitazioni scomponibili di parti, ma perché un'alterità immateriale, priva
di volume e non moltiplicabile, lo divide in molteplicità.
Per questo è anche uno; e non uno come un corpo, un oggetto nello
spazio, un volume, ma "uno-molti". Nel senso che è "altro"
in quanto è uno.
La sua alterità si divide e si riunisce, perché non è qualcosa di
avventizio o accessorio. Né esso è "molti" in quanto partecipi di
qualcos'altro: lo è di per sé.
Così è in azione in tutte le attività, eppure rimane ciò che è,
nel senso che dà ipostasi a tutta la sua alterità attraverso l'identità, e
l'alterità non si dà a vedere nella differenza di qualcosa da qualcos'altro,
come avviene nei corpi. Nei corpi infatti la relazione è
rovesciata e v'è "unità nell'alterità", quasi che in
loro l'alterità venisse per prima e l'identità sopraggiungesse dall'esterno e
fosse accessoria. Nell'essere unità e identità precedono, e l'alterità nasce
dalla tendenza all'azione propria dell'unità. Per questo l'essere si moltiplica
nell'indivisibile, il corpo invece si unifica nel molteplice en el volume. Il
primo dimora in se stesso, perché è unitariamente in sé e non esce; l'altro non
è mai in se stesso ed è come se prendesse ipostasi nell'uscire. L'essere è
appunto l'uno nel dispiego di tutta la sua azione, il corpo è una molteplicità
che si sta unificando.
Si deve quindi concludere così: il primo è
l'"uno-altro", il secondo è il "moltepliceuno" e non
confondere le proprietà di quello con le caratteristiche di questo.
SENTENZA XXXIV
I predicati del sensibile e del materiale sono in verità questi:
essere trascinato da ogni parte, essere in mutamento, prendere ipostasi
nell'alterità, essere composto, di per sé disgregabile, esistere nello spazio,
mostrarsi in un volume, e quanti altri assomigliano a questi. Del puro essere,
che prende ipostasi di per sé ed è immateriale, i predicati sono questi: essere
sempre ciò che dimora in se stesso, trovarsi allo stesso modo rispetto alle stesse
cose, essenziarsi nell'identità, essere per essenza immutabile e non composto,
non esistere nello spazio e non essere disperso nel volume, non essere qualcosa
che nasce né qualcosa che muore, e quanti altri sono simili a questi.
Attenendoci ad essi, bisogna dire noi stessi né ascoltare da altri
nulla che ne confonda la differente natura.
SENTENZA XXXV
Non bisogna pensare che la molteplicità delle anime nasca dalla
molteplicità dei corpi, perché prima dei corpi esistono le anime molteplici e
l'anima unica, senza che quella unica e intera impedisca alle altre di esistere
in essa né che le molte dividano quella unica tra loro. Infatti si distinguono
ma non si scindono e non frantumano quella intera tra loro; sono presenti le
une alle altre senza confondersi o fare una somma che è l'anima totale. Perché
non sono divise da confini ma nemmeno confuse tutte insieme, al modo stesso che
molte scienze non si confondono dentro un'anima sola e nemmeno vi si trovano
per essenza eterogenea come i corpi, ma costituiscono determinate attività dell'anima.
La natura dell'anima ha invero una potenza infinita: una qualunque
delle sue parti è un'anima, eppure tutte le anime sono un'anima sola e,
all'inverso, l'anima intera è diversa da tutte le altre. Come i corpi, pur
divisi all'infinito, non arrivano all'incorporeo, perché continuano a
differirne per il volume dei segmenti, così l'anima, che è una forma vivente,
si divide all'infinito secondo le forme e ne assume le differenze, ma rimane intera
con esse o senza di esse: l'alterità è in lei paragonabile al prodursi di una
scissione in una perdurante identità. Se persino nei corpi, dove domina
l'alterità più che l'identità, neppure il sopraggiungere di un incorporeo
riesce a spezzare l'unità e tutti restano uniti quanto all'essenza, anche se
divisi per le qualità e le altre forme, cosa si dovrà dire e supporre circa la
vita formale di un incorporeo, dove l'identità domina sull'alterità e non v'è
altro che la forma (da questa vita viene anche ai corpi l'unità) e dove il sopraggiungere
di un corpo non spezza l'unità, benché in molti casi ostacoli le azioni?
L'identità stessa dell'anima crea e scopre tutte le cose con
un'azione che si specifica in forme all'infinito, perché una qualunque delle
sue parti può tutto, quando si sia purificata dal corpo, al modo stesso che una
qualsiasi parte del seme ha la potenza del seme intero.
Come un seme, nella materia, è dominato secondo ciascuna delle
ragioni seminali con cui aveva potuto dominare la materia e, ricondotto che sia
alla potenza di seme, riottiene per ognuna di quelle parti la sua potenza
complessiva, così quella che consideriamo una parte dell'anima immateriale ha
la potenza dell'anima intera. E la parte che si abbassa verso la materia è
dominata in quella forma secondo la quale si era abbassata e aveva familiarizzato
con l'oggetto materiale, ma riottiene la potenza dell'anima intera e la ritrova
dentro di sé, non appena abbandona la materia e rientra in se stessa. Poiché
poi l'anima che si è abbassata nella materia manca di tutto ed è svuotata della
sua potenza, mentre quella che sale alla mente ritrova la pienezza di sé nel
possesso della potenza dell'anima totale, così i primi che conobbero la
passione dell'anima chiamarono enigmaticamente, ma a ragion veduta, l'una
Penìa, l'altra Pòros.
SENTENZA XXXVI
L'ipostasi corporea non ostacola in nulla l'incorporeo in sé nel
suo essere dove vuole e come vuole. Come infatti il senzavolume è inafferrabile
per il corpo e non ha relazione con esso, così il voluminoso è per l'incorporeo
qualcosa che non fa schermo e sta come un non essere. Non è in senso spaziale
che l'incorporeo si dirige dove vuole - perché lo spazio prende ipostasi
insieme al volume - e non è compresso dai corpi esistenti. Perché la cosa che
occupa in qualche modo un volume può essere compressa e opera mutamenti per
traslazione spaziale, ma chi è perfettamente privo di volume e di grandezza non
può venir dominato da ciò che ha volume né ha parte al movimiento spaziale. Lo
si trova là dove per una certa disposizione inclina, ma spazialmente è ovunque e
in nessun luogo. Così, a seconda di una determinata disposizione, viene dominato
al di là del cielo o in una qualche parte dell'universo; e se mai sia dominato
in una parte dell'universo, non lo si vede con gli occhi, ma la sua presenza si
fa manifesta per i suoi effetti.
SENTENZA XXXVII
Come è propria dell'anima un'esistenza terrena - non muoversi a
terra al modo dei corpi, ma guidare il corpo che a terra si muove - così può
anche trovarsi nell'Ade, quando dirige un'immagine riflessa che ha la natura di
essere in un luogo ma prende ipostasi nella tenebra. Se l'Ade sotterraneo è un
luogo tenebroso, l'anima che atrae l'immagine si trova nell'Ade, benché non si
sia separata dall'essere. Quando esce dal corpo rigido, è accompagnata infatti
dal soffio vitale che aveva ricevuto dalle sfere. E poiché conserva dalla sua
inclinazione per il corpo quella ragione particolare proiettata, secondo la
quale aveva preso in vita la conformazione di un corpo determinato, per questa
inclinazione l'anima imprime un'immagine fantastica sul soffio, e così atrae l'immagine.
Si dice che è nell'Ade [Aides], nel senso che il soffio vitale viene a contatto
con una natura invisibile e tenebrosa.
Dato poi che il soffio pesante e umido penetra fino nei luoghi
sotterranei, si dice che anche l'anima discende sotto terra; non perché la sua
essenza passi di luogo in luogo ed esista nello spazio, ma in quanto assorbe le
conformazioni dei corpi destinati per natura a mutar luogo e ad avere in sorte
uno spazio assegnato, giacché la ricevono quel genere di corpi le cui proprietà
corrispondono a una certa sua determinata disposizione.
A seconda di come è disposta, l'anima trova infatti un corpo ben
delimitato nel rango e nei luoghi che gli competono. Così all'anima che è in
una disposizione più pura è connaturato il corpo più vicino all'immaterialità,
che è il corpo etereo, a quella che è progredita dal pensiero razionale alla
proiezione dell'immaginazione il corpo solare, a quella che è diventata femmina
ed è appassionatamente protesa verso la forma il corpo lunare. Ma per l'anima
caduta nei corpi composti di esalazioni umide - quando si trovi nella sua forma
più indeterminata - conseguono perfetta ignoranza dell'essere, oscuramento,
puerilità.
E allora nel momento dell'uscita, quando ha ancora un soffio
torbido per l'esalazione umida, attrae l'ombra e si appesantisce, dato che un
soffio del genere cerca per natura di ritrarsi nei recessi della terra, se
un'altra causa non lo trae in direzione opposta. Ebbene,
come è necessario che l'anima che si cinge di un guscio terroso
stia aggrappata alla terra, del pari è necessario che si cinga di un'immagine
riflessa quella che attrae il soffio umido. E attrae l'umido quando non abbia
altro pensiero che dimorare di continuo nella natura, la cui azione avviene
nell'umido ed è per lo più sotterranea; quando invece si cura di separarsi
dalla natura, diventa fulgóre secco, senz'ombra e senza nube. Infatti nell'aria
l'umidità si condensa nella nube, ma la secchezza trasforma il vapore in splendore
secco.
SENTENZA XXXVIII
Quando afferri l'essenza eterna e in sé infinita in potenza,
quando cominci a intuire l'ipostasi infaticabile e inesauribile, che non manca
di nulla ma eccelle per una vita purissima, piena di sé, fissata in sé e di sé
sazia (una vita che non è alla ricerca di nulla, neppure di sé), bene, se vi
aggiungi il "dove" o il "riguardo a cosa", subito, con la diminuzione
che deriva dall'insufficienza di luogo e relazione, non sminuisci quella ma confondi
te stesso, perché cogli un'immaginazione che si insinua nel tuo congetturare e ti
fa velo.
Infatti non potrai varcarne i confini e oltrepassarla, né d'altra
parte arrestarla, separarla o ridurla a piccole proporzioni, come se non avesse
più nulla da dare in quel venir meno per piccolezza; perché è inesauribile
anche più, se pensi, del flusso perenne e inesauribile di tutte le fonti. Così,
o sei capace di muoverti in armonia con lei, di farti simile alla totalità
dell'essere, di non cercare più nulla, oppure cercherai e devierai nella visione
di qualcos'altro. Se non cerchi nulla, sta in te stesso e nella tua essenza: ti
sei fatto simile al tutto e non sei rimasto impigliato in una delle cose che ne
derivano. Non hai detto neppure: "tanto io sono", perché hai lasciato
il "tanto" e sei divenuto tutto.
Certo eri tutto anche prima, ma oltre al tutto vi era in te
qualcos'altro e questa aggiunta ti faceva piccolo, perché non veniva
dall'essere - all'essere invero non si aggiunge nulla.
Perciò chi è nato anche dal non essere, non è tutto: è compagno
della povertà e bisognoso d'ogni cosa; e dunque abbandonato che abbia il
non-essere, allora è tutto: è lui medesimo sazietà di se stesso. Così lascia le
cose che umiliano e sminuiscono e ritrova se stesso, soprattutto quando credeva
che quelle cose piccole per natura fossero il suo "io" e non sapeva
chi fosse in verità: infatti era lontano da sé e insieme era lontano dall'essere.
Chi sta in se stesso ed è presente a sé presente, sta anche in presenza dell'essere
che è ovunque; ma chi è lontano da sé, è anche lontano da quello. Tale è infatti
la norma che ricevette: essere presente a ciò che è presente, essere assente da
ciò che è fuori di lui. Se l'essere ci è presente, è assente il non essere, e
se non è presente fìnché stiamo con le altre cose, non occorre che venga perché
sia presente: siamo noi che ce ne siamo andati, quando non è presente. Che c'è
di strano? Tu stesso, presente,non sei assente da lui; ma non sei presente a te
e, benché presente [in apparenza], sei "il presente-assente", quando
guardi le altre cose e non ti curi di guardare te stesso. Così sei presente e
non-presente a te stesso, e per questa ragione ti ignori e trovi tutte le cose lontane
da te piuttosto che il "te stesso", che ti è presente per natura:
perché ti meravigli se il non-presente ti è lontano, tu che te ne sei
allontanato allontanandoti da te? E dunque nella misura in cui sei congiunto a
te stesso come a una presenza da cui non puoi sottrarti, e nella misura in cui
lui è congiunto a te, tu sei congiunto a lui, che in tal modo è inseparabile da
te per essenza come tu da te stesso. Così puoi avere una conoscenza universale
di ciò che sta nella presenza dell'essere e di ciò che è assente dall'essere,
il quale è presente dappertutto e inversamente non è in nessun luogo. Coloro infatti
che sono capaci di spaziare intuitivamente verso la loro propria essenza e di conoscerla,
mediante questa conoscenza e la consapevolezza di tale conoscenza, si recuperano
nell'unità di conoscente e conosciuto: presenti a se stessi, a loro è presente anche
l'essere. Ma quelli che dal proprio essere digradano verso le altre cose, sono assenti
da sé e a loro è assente anche l'essere.
Se fu nella nostra natura di risiedere stabilmente nella medesima
essenza, di arricchirci di noi stessi, non discendere in ciò che non siamo, non
impoverirci di noi né pertanto congiungerci di nuovo alla povertà pur in
presenza dell'abbondanza, se noi che non siamo separati dall'essere per luogo o
per essenza, né da lui recisi per qualcos'altro, ce ne separiamo perché ci
volgiamo al non essere, ebbene espiamo la colpa della lontananza dall'essere
con la lontananza da noi stessi e con l'ignoranza, benché poi di nuovo, grazie
all'amore per noi, recuperiamo noi stessi e ci riannodiamo al dio. Pertanto giustamente
fu detto che l'uomo che diserta dagli dèi si trova necesariamente incatenato in
una specie di carcere e si sforza di sciogliersi dai lacci, come uno che, rivoltosi
alle cose di quaggiù e abbandonata la condizione di essere divino, è, come dice
[Empedocle], "in fuga dagli dèi e ramingo". Tanto che ogni esistenza
meschina è piena di schiavitù e di empietà, e per questa ragione è anche priva
di divinità e di giustizia, in quanto un soffio vitale pieno di empietà e per
ciò stesso di ingiustizia vi prende consistenza. Così ancora giustamente fu
detto che il giusto lo si trova nell'agire che corrisponde a quel che si è, e
che il simulacro e l'immagine riflessa della vera giustizia consistono nella
distribuzione del dovuto a ciascuno di coloro coi quali viviamo.
SENTENZA XXXIX
Altre sono le virtù del politico, altre quelle di chi tende alla
contemplazione e che per questa ragione è chiamato contemplativo, altre poi
quelle di chi ha già compiuto la contemplazione ed è ormai visionario, altre
ancora quelle della mente in quanto tale e pura dall'anima.
Le virtù del politico consistono nella misura delle passioni, nel
seguire la ragione e nell'obbedirle riguardo ai doveri attinenti alle azioni
pratiche. Sono dette politiche per il loro carattere socievole e comunitario,
in quanto mirano alla sicurezza del prossimo nella comunità. La saggezza è
propria della parte razionale, il coraggio di quella animosa, la temperanza
consiste in un accordo e in una armonia tra la parte concupiscibile e la
razionale, la giustizia è il compito specifico di ognuna di queste parti prese
insieme, relativo al comando e all'obbedienza.
Ma le virtù del contemplativo che progredisce nella contemplazione
consistono in un allontanamento dalle cose di questo mondo. Si chiamano anche
purificazioni appunto perché vengono considerate come astinenza dalle azioni
che si fanno col corpo e dai legami di simpatia con esso. Appartengono
all'anima che si innalza al puro ente, mentre quelle politiche abbelliscono
l'uomo mortale e aprono la via alle purificazioni: infatti, una volta
abbelliti, bisogna principalmente astenersi dal fare qualcosa col corpo.
Per questo nelle virtù catartiche la saggezza prende ipostasi se
l'anima non si fa complice delle opinioni del corpo, ma se agisce da sola -
scopo che è raggiunto grazie alla purezza della facoltà intuitiva -, la
temperanza consiste nel non aderire alle passioni, il coraggio nel non temere
il distacco dal corpo quasi fosse una caduta nel vuoto en el nulla, la
giustizia nel predominio della ragione e della mente, senza che nulla si opponga.
Dunque l'abito acquisito con le virtù politiche viene identificato nella misura
delle passioni e lo scopo è che l'uomo viva secondo natura; ma le virtù
contemplative abituano all'impassibilità, il cui scopo è la somiglianza a un
dio.
Poiché "purificazione" significa per un verso ciò che
purifica e per l'altro ciò che appartiene a chi si è purificato, le virtù di
questo genere sono considerate in entrambi i sensi della parola
"purificazione". Esse infatti purificano l'anima e insieme la accompagnano
una volta purificata, dato che scopo della purificazione è divenire puri.
Ma poiché tanto il purificarsi quanto l'esser divenuti puri
consistono nella soppressione di ogni elemento estraneo, il bene sarà [qualcosa
di] diverso da chi si purifica. Pertanto, se prima dell'impurità chi si
purifica era buono, la purificazione è sufficiente. Ma, sia pure sufficiente,
ciò che resta sarà il bene, non la purificazione. La natura dell'anima non era
però il bene; stava piuttosto nella possibilità di partecipare del bene ed
essere conforme al bene - altrimenti non sarebbe entrata nel male. Suo bene
sarà quindi congiungersi al generante, suo male stare insieme alle cose
posteriori. Il male appunto è doppio: star congiunti alle cose posteriori e
sopportare l'eccesso delle passioni. Per questo le virtù politiche, che
liberano l'anima da un solo male, furono giudicate degne del nome di virtù e
venerabili, ma più venerabili le virtù catartiche, che la liberano da tutto il
male.
Così l'anima purificata deve congiungersi al generante e la sua
virtù, dopo la conversione, consiste nel conoscere e comprendere l'essere; non
perché non abbia in sé questa conoscenza, ma perché senza ciò che la precede
essa non vede le cose che possiede. Vi è dunque, dopo le catartiche e le
politiche, un terzo genere di virtù: quelle dell'anima intuitivamente attiva.
Sapienza e saggezza consistono nella contemplazione degli oggetti appartenenti
alla mente, giustizia è provvedere al proprio compito nel conformarsi alla
mente e nell'agire verso la mente, temperanza è volgersi interiormente alla
mente, e coraggio è impassibilità, a somiglianza della mente a cui l'anima
guarda, che è impassibile per natura. Tra queste virtù vi è quindi la stessa
connessione che tra le altre.
Una quarta specie è quella delle virtù paradigmatiche. Queste
risiedono nella mente, perché sono superiori alle virtù dell'anima e loro
esemplari di cui quelle dell'anima sono imitazioni. Mente è ciò in cui esistono
[tutte] in qualità di esemplari, saggezza è la scienza, sapienza è la mente che
conosce, temperanza è il suo volgersi a se stessa, provvedere al compito
specifico è l'opera propria [della mente], coraggio è la sua identità e il
permanere pura in se stessa per sovrabbondanza di potenza.
Quattro dunque appaiono i generi di virtù: le prime appartengono
alla mente e sono le paradigmatiche e costitutive della stessa essenza mentale,
le seconde appartengono all'anima che ormai guarda alla mente ed è piena di
essa, le terze appartengono all'anima umana che si purifica o si è già
purificata dal corpo e dalle passioni irrazionali, le quarte appartengono
all'anima umana che abbellisce l'uomo perché fissa una misura all'irrazionalità
e ne stimola la moderazione nelle passioni. E chi possiede le virtù superiori possiede
di necessità anche le inferiori, ma non viceversa. E peraltro il possessore
delle virtù superiori non agirà più secondo le inferiori, per la prevalente ragione
che ha anche queste, ma solo a seconda delle circostanze del divenire. Infatti
gli scopi, come si è detto, sono diversi e variano col variare dei generi. Lo
scopo delle virtù politiche è imporre una misura alle passioni nelle attività
di chi ha a che fare con la natura, delle catartiche è allontanarsi
perfettamente dalle passioni che fino allora si erano misurate, delle altre è
agire verso la mente, senza neppure avere il pensiero di liberarsi dalle
passioni, delle ultime non è più neanche quello di rivolgere l'attività alla mente,
ma di giungere a incontrarsi con la sua stessa essenza. Per questo chi agisce secondo
le virtù pratiche è un uomo onesto, chi secondo le catartiche un uomo demonico
o anche un demone buono, chi solo secondo le virtù rivolte alla mente è un dio,
e chi secondo le paradigmatiche è il padre degli dèi.
Preoccupiamoci soprattutto di esaminare le virtù catartiche,
giacché sono quelle che si possono raggiungere in questa vita e rappresentano i
mezzi per risalire alle più venerabili. Bisogna perciò vedere fino a che punto
e in che misura la purificazione può essere raggiunta; si tratta infatti
dell'allontanamento dal corpo e dal movimiento passionale della parte
irrazionale. Diciamo come si raggiunge e fino a che punto. Prima cosa, base e,
per così dire, seggio della purificazione è conoscere se stessi come un'anima
legata a una cosa straniera e di diversa essenza. Secondo è lo slancio che consegue
da tale persuasione a rimettere insieme se stessi dal corpo e quasi da luoghi diversi,
in una disposizione di perfetta impassibilità nei suoi confronti. Perché chi agisce
di continuo conforme al senso, anche se non lo fa per vera attrazione o perché
vi trovi una soddisfazione al piacere, nondimeno si disperde nel corpo, dato
che vi si è congiunto attraverso il senso e nutre passione per i piaceri e i
dolori propri degli oggetti sensibili con assenso e inclinazione simpatica. È
soprattutto da simile disposizione che bisogna purificarlo. Ciò accadrà se
accoglierà le sensazioni ineliminabili dei piaceri a solo scopo di cura e di
alleggerimento dalle fatiche, al fine di non esserne ostacolato.
Bisognerà poi eliminare le sofferenze e, ove non sia possibile,
sopportarle con calma e sminuirle con la non partecipazione simpatica.
L'animosità andrà soppressa per quanto possibile e in nessun modo curata con
meditato consiglio; altrimenti non si mischi ad essa la volontà consapevole, ma
la si faccia essere un moto irriflesso che appartiene a un altro - e sarà un
moto irriflesso debole e di poca importanza. La paura andrà eliminata del
tutto, perché non ci sarà motivo di temere di nulla, benché anche qui vi siano
dei moti irriflessi. Animosità e paura andranno semmai usate come strumenti di ammonimento.
Si rimuoverà poi ogni genere di desideri vani. Desideri di cibi e bevande ne
avremo, ma non per noi stessi in quanto noi stessi. Di piaceri d'amore, sia
pure naturali, non dev'esservi neppure il moto irriflesso, o almeno non più di
una di quelle fuggevoli fantasie che si hanno nel sonno. Insomma, l'anima
intuitiva di chi si è purificato si mantenga pura da tutto questo. E voglia che
la parte di noi che si muove incontro all'irrazionalità delle passioni
corporee, si muova senza simpatia e sbadatamente, in modo che anche quei
movimenti siano subito dissolti dalla vicinanza della ragione. Così non vi sarà
battaglia sulla via della purificazione. Quanto al resto basterà la presenza
della ragione a far vergognare la parte inferiore, tanto che essa stessa disapproverà,
quando è in completa balìa del movimento, di non saper stare tranquilla mentre
il suo signore è presente, e si rimprovererà per la debolezza. E queste sono ancora
forme di misura delle passioni che acquistano tensione in vista
dell'impassibilità; ma quando il legame simpatico è perfettamente purificato,
ad esso subentra l'impassibilità, giacché la passione aveva cominciato a muoversi
quando la parte razionale, con la sua discesa, aveva dato il segnale.
SENTENZA XL
La mente non è l'origine di tutte le cose, perché è molteplice e
prima del molteplice è necessario che vi sia l'uno. Che sia molteplice è
chiaro, dato che le intuizioni che intuisce di continuo non sono una ma molte,
e dato che non sono diverse da lei. Così se la mente sta con le intuizioni e
quelle sono molteplici, anche la mente sarà molteplice.
Che la mente stia con gli intuitivi si dimostra così: se essa
contempla qualcosa, evidentemente lo contemplerà o perché lo possiede in sé o
perché posto in altro. E che contempli è chiaro: la mente deve infatti
accompagnarsi all'atto di intuire, e sottratta all'intuire è sottratta alla sua
essenza. Occorre quindi mettersi sulle tracce della sua contemplazione e
soffermarsi sulle passioni che accompagnano le conoscenze. In noi le potenze
conoscitive consistono complessivamente in senso, immaginazione, mente. Chi si
serve esclusivamente del senso contempla attingendo all'esterno e non si unisce
con le cose che contempla: riceve soltanto un'impronta dal contatto con esse.
Così, quando l'occhio guarda l'oggetto visibile, è impossibile che vi si
identifichi, perché non vedrebbe nulla, se non si trovasse a distanza. Allo
stesso modo l'oggetto del tatto si distruggerebbe, se si identificasse con chi
tocca. Risulta quindi chiaro che sia il senso sia chi se ne serve sono sempre
condotti all'esterno, se vogliono cogliere l'oggetto sensibile. Similmente
anche l'immaginazione si porta sempre all'esterno e col suo
espandersi da una realtà funzionale a un'immagine. [È chiaro
dunque che anche chi si serve dell'immaginazione è condotto all'esterno,] tanto
se l'oggetto dell'immagine lo costruisce realmente dal di fuori, quanto se è la
sua stessa espansione all'esterno che gli fa immaginare l'esistenza di un
oggetto al di fuori. Tale è la percezione di queste [potenze]; poiché nessuna
delle due può tornare in se stessa e riunirsi, non può nemmeno incontrare una
forma sensibile o sovrasensibile. Ma la mente non percepisce in questo modo,
perché essa torna a sé e si contempla. Se
infatti si distogliesse dalla contemplazione delle proprie attività,
dall'essere l'occhio delle proprie attività, non
sarebbe più visione di sé e non vedrebbe nulla. Come dunque il
senso stava in relazione al sensibile, così la mente è in relazione
all'intuitivo. Ma mentre il senso contempla perché si estende al di fuori e
trova un sensibile che sta nella materia, la mente contempla perché si
raccoglie in se stessa. E se non si estende al di fuori...... Il che parve
giusto anche ad alcuni, per i quali tra l'ipostasi della mente e quella dell'immaginazione
vi era soltanto una differenza di nome. Essi infatti credevano che l'intuizione
fosse l'immaginazione nell'animale razionale. Dato poi che facevano dipendere
tutto dalla materia e dalla natura corporea, concludevano che anche la mente doveva
dipenderne. Ma poiché la nostra mente contempla essenze diverse dai corpi, dove
le troverà e dove le percepirà? In quanto estranee alla materia non dovrebbero essere
da nessuna parte. È chiaro allora che, in quanto intuitive, andranno congiunte all'intuizione
e ancora, se intuitivi, alla mente e all'intuitivo...... [Se non si estende al
di fuori,] la mente, quando intuisce gli intuitivi, contemplerà anche se
stessa, e quando si ritrae in sé, intuisce perché si ritrae tra gli intuitivi.
Se poi gli intuitivi sono molteplici - perché la mente intuisce i molti e non
l'uno - di necessità sarà molteplice anch'essa. Ma prima dei molti c'è l'uno;
così è necessario che prima della mente sia l'uno.
SENTENZA XLI
Ciò che ha l'essere in altro e non è essenziato in sé né
separatamente da altro, qualora torni in se stesso per conoscersi, ma torni
senza ciò in cui è essenziato, si corrompe, perché, abbandonando l'altro, si
separa dal proprio essere. Chi invece può conoscersi indipendentemente dalla
cosa in cui è, e anzi la abbandona ed è capace di far questo senza rovina sua,
non può essere essenziato in ciò da cui ha potuto distogliersi e senza il quale
ha potuto conoscersi. Ora, se la vista e ogni altra potenza sensibile non possono
avere sensazione di sé, né, separate che siano dal corpo, percepirsi o conservarsi,
e se la mente, al contrario, soprattutto quando si separa dal corpo intuisce, torna
a sé e non si corrompe, è chiaro che le potenze sensibili diventano attive
grazie al corpo e la mente non nel corpo ma in sé acquista l'agire e l'essere.
SENTENZA XLII
L'anima possiede le ragioni di tutte le cose e secondo tali
ragioni agisce, o perché qualcos'altro la chiama a metterle in opera o perché
essa stessa si rivolge interiormente ad esse. E quand'è chiamata da altro e per
così dire verso l'esterno, produce sensazioni, quando invece si inoltra nel
profondo di sé e verso la mente, viene a trovarsi tra le intuizioni. Dunque le
sensazioni non vengono dall'esterno e l'intuizione non è estranea all'anima. E
ancora, come per il vivente non si danno sensazioni senza modificazioni
degli organi di senso, così non c'è intuizione senza
immaginazione. Per rispettare la proporzione: come l'impronta è una conseguenza
del [l'organo] sensibile del vivente, così l'immagine fantastica è nell'anima
del vivente una conseguenza dell'intuizione.
SENTENZA XLIII
Memoria non significa conservare le immaginazioni, ma proiettare
di nuovo cose di cui ci occupammo.
SENTENZA XLIV
Altro sono la mente e l'intuitivo, altro il senso e il sensibile.
L'intuitivo è congiunto alla mente, il sensibile al senso. Ma il senso di per
sé non può comprendersi e neppure il sensibile può; d'altra parte l'intuitivo
che è congiunto alla mente e da essa intuibile, non cade in alcun modo sotto il
senso. Ma la mente è un intuibile per la mente. E se la mente è un intuibile
per la mente, essa sarà per se stessa intuibile. Quindi da un lato, se la mente
è l'intuibile e non il sensibile, sarà oggetto intuìto; dall'altro, se è
l'intuibile per la mente e non per il senso, sarà il soggetto che intuisce.
Essa è appunto soggetto che tutto intero intuisce e oggetto che tutto intero è
intuìto: intuente e intuìta tutta intera in tutta se stessa, [e non come il
consumatore e il consumato]. Non v'è dunque una parte che venga intuìta e
un'altra che intuisca, perché la mente non ha parti, è tutta intera intuibile ed
è con tutta intera se stessa mente dappertutto, senza avere in sé nozione
alcuna di inintuibilità. Per questo non è vero neppure che intuisca un aspetto
di sé e un altro non lo intuisca, giacché, nella misura in cui non intuisse,
sarebbe inintuitiva.
Né si allontana da qualcosa per passare in qualcos'altro, dato che,
non intuendo ciò da cui si allontana, diverrebbe rispetto ad esso inintuitiva.
Se invece in essa l'una cosa non accade di seguito all'altra, allora intuirà
insieme tutte le cose; e dunque, poiché intuisce insieme tutte le cose, non ora
l'una e l'altra poi, essa è tutte le cose insieme, sia nel momento presente che
nell'eternità. Ma se in lei c'è il presente, sono sottratti il passato e il
futuro, in un presente inesteso e nel momento senza tempo. Vi è in lei pertanto
simultaneità sia riguardo al molteplice che all'estensione nel tempo. Perciò
tutte le cose saranno unitariamente in un'unità inestesa e atemporale. Se è
così, non v'è nella mente un "donde" o un "verso dove", né
dunque movimento; c'è un'attività unitaria nell'uno che dilegua l'incremento,
il mutamento, ogni specie di trapasso. Se poi la mente è molteplicità unitaria
e insieme attività, se è fuori dal tempo, è necessario che in funzione di
siffatta essenza esista quell'essere che ha la proprietà di rimanere perennemente
nell'uno. Tale essere è l'eternità. L'eternità esiste pertanto in funzione della
mente.
Il tempo esiste invece in funzione di ciò che non intuisce
unitariamente nell'uno, bensì mutevolmente e nel movimento, ossia intuisce nel
lasciare un oggetto e prenderne un altro, nel dividere in parti e passare di
cosa in cosa. Futuro e passato esistono appunto in funzione di un movimento del
genere. Ed è l'anima che passa da un oggetto all'altro, perché scambia
alternativamente le intuizioni: non nel senso che alcune svaniscano e altre
sopraggiungano da qualche parte, piuttosto in quanto alcune le intuisce come se
fossero passate, benché continuino a rimanere dentro di lei, altre come se
venissero da altrove, mentre non vengono da altrove ma da essa stessa e dal medesimo
punto, da essa cioè che si muove verso di sé e volge l'occhio sulle cose che ha
partitamente. Somiglia infatti a una fonte che non scorre, ma che circolarmente
fa zampillare in sé le cose che possiede.
Mentre il tempo esiste in funzione di tale movimento, l'eternità
esiste in funzione della permanenza della mente in se stessa, non divisa dalla
mente come il tempo non è diviso dall'anima, giacché anche le realtà funzionali
lassù sono unite.
Ciò che è in movimento si attribuisce ingannevolmente l'eternità,
perché concepisce l'eternità come un movimento infinito; d'altra parte ciò che
permane mentre l'altro si muove, si attribuisce ingannevolmente il tempo, come
se percorresse e moltiplicasse il suo "ora" secondo il transitare del
tempo. Per cui alcuni pensavano che il tempo si dia a vedere nella quiete non
meno che nel movimento e che l'eternità, come dicevamo, sia un tempo infinito.
Ognuno dei due aggiunge le sue proprietà a quelle dell'altro, e ciò che è in
perenne movimento imita dall'immobile l'eternità, per identità col proprio
perpetuo muoversi, mentre quel che rimane immobile nell'identità dell'azione
congiunge, con l'azione, il tempo al proprio permanere.
Del resto nelle cose sensibili il tempo diviso è diverso in
ciascuna di esse; per esempio diverso è il tempo del sole, diverso quello della
luna, diverso quello della stella del mattino, diverso quello di ciascuno degli
altri astri. Per cui ogni astro ha anche un anno diverso; e l'anno che li
include tutti fa capo al movimento dell'anima. Se poi gli astri si muovono a
imitazione dell'anima e il moto dell'una è diverso dal moto degli altri, diverso
è anche il tempo dell'anima da quello degli astri. Quest'ultimo a intervalli e
per movimenti e spostamenti spaziali ...
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