domingo, 18 de agosto de 2013

Discorso sulla felicità


Discorso sulla felicità.
Pietro Verri


Edizione di riferimento:
Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano preceduti da un saggio civile sopra l’autore per Vincenzo Salvagnoli, volume primo, Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1854.
§ I. — INTRODUZIONE.

Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (siccome nel discorso precedente [1] credo di aver provato), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più utile verità a cui ci conduce la filosofia, sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro utile reale, se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto dei nostri mali. In fatti, se fissataci una volta in mente l’idea d’una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione. Che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro retaggio, ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invincibili e felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente, ma realmente rosi da mille angosciose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche da noi soli dispoticamente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, e pel vuoto di non aver più desideri: allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli, o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi, e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità dell’edificio.
L’eccesso de’ nostri desideri sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera, è in uno stato di letargo; chi sommamente desidera, s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli, laddove la violenza de’ desiderj la prova ogni anima che sente con energia, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dall’infelicità sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.
Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri; siamo noi arbitri di accrescer il nostro potere? In tutto no certamente, perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico, è una conseguenza fìsica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche da’ soli errori di opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla fìsica stessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimento de’ desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella loro prima età un uso continuato e intero della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principj le proprie azioni. L’immaginazione d’ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo; e ognuno riflettendo sopra di sé medesimo, e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà meco d’accordo Dell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminuirà la somma. Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj.
§  II. — DELLA RICCHEZZA.

Le ricchezze sono lo scopo di uno de’più comuni desiderj; e certamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possiede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione, trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che evidentemente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diventano realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte di acquistarle; anzi l’avidità di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare una ricchezza importante, dovrà dire che sarebbe stato più felice, se avesse posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la sollecitudine, il sospetto sogli attentati altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere come sul teatro, rappresentando un personaggio in faccia del pubblico censore attento e difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchezza, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle affannata da un fascio di svariatissime sensazioni; tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possiedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desideri, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderala condizione, è il seme da cui ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza: se te ne rimane di più, donalo alla beneficenza, non mai al lusso; e sia certo che l’avaro egualmente che il prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti a’ venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi bisogni. Il primo sempre si apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene; l’altro divora tutto nel momento attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo avvenire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze, come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità. Ma dico che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’ nostri sforzi continuati per ottenerli, perché allora chi se ne trova al possedimento, può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e considerandole come mezzo di aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle, ripartirle, servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata gradatamente colle proprie azioni, deve aver già abituato il suo cuore all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso, e palpita e si angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’ Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori; nella sua prima età non si occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito. Conosce in un fanciullo la nascente passione per essere uno scultore, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta all’età venture un Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai: quindi non può l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio delle ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrifìcio frequente della loro probità; sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso? Forse i piaceri fisici? Questi sono destinati per l’uomo amabile: l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini, comprandoti delle condecorazioni? Gli uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccierà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecoratlo per nascita e per merito ti spregierà, se sarai cinto colla stessa fascia d’onore, da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sempre più progredendo.
Ma, per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza, è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente riparto de’ beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sé la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci conduce a un cocentissimo desiderio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti. La memoria del passato fasto, la vista dell’inopia attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo talvolta nell’avvilimento, e da quello, quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato primiero, siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui avevano diritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i mezzi vanno diminuendosi, scompaiono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi piaceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilanciano i lunghi rammarichi che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse, non accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità. Le passioni nacquero; il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di volo si getta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo dapprincipio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decidere, ad esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro? Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e col  fasto di rendere attoniti gli uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione accecherà te solo; alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno; i più ti dileggeranno. Le tue facoltà sono note; non sperare che i creditori sieno pitagoricamente taciturni: la città conosce che il tuo fasto non è durevole: la tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a mancare di fede se ti abbandoni alla profusione. Avrai alcuni scaltri parassiti: come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radici nel tronco, e alimentandosi coll’umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici non si comprano: le anime capaci di profittare della rovina altrui, non lo sono d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dall’uniformità del genio e da’ beneficj fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione; la quale evidentemente ci dice: Se tu spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi aver fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in quest’ anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento; e come questi basterebbero se in quest’ anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di ricchezza. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascinano, se è spensierato, all’infelicità.
§ III. — Dell’ambizione.

L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più benemerita; a lei dobbiamo la massima parte dei politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti la gloria, la stima, gli onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta maniera di pensare sentonsi angustiati da due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un piccolo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’ lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di lettere e di belle arti. Un monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza. Perciò nell’indice delle biblioteche gli autori coronati vi sono in assai maggior numero che non trovansi nella serie cronologica i sovrani conquistatori e legislatori. Ma per un uomo privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di condizione privata veramente illustre, per un ministro degno di memoria l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla posterità scegliendo il partito delle armi, rifletta che più due milioni d’uomini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteranno, i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per veder scritto il loro nome nel tempio brillante della gloria. E quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa via come l’unità a trecento e più mila, sorta di lotteria di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente. Quindi è che realmente siano mossi piuttosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le cariche del ministro, sono anch’ essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si muovono quasi sempre per una diagonale composta da più forze motrici: l’energia medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e limpida la sua morale, ne scosta gli elementi motori. Gli uomini si collegano meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascente. E siccome in questa carriera non si possono occultare i primi progressi, come si fa nelle lettere, volendo; così si deve combattere mentre che ti stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita. Quindi pochissimi ambiziosi di gloria fra i privati s’ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per ambizione, lo fanno per l’ambito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti; giacché, se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’ambizione degli onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innalzarti negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni. Chi s’innalza sopra di essi, è in gran pericolo al primo slanciarsi che fa a volo: quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo, è decisa la superiorità. Gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere oggetto di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono, e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di onorarlo; nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissimi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un Richelieu, si può dire lo stessa dei disgraziati che hanno ambito la gloria negli impieghi pabblici; e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ripongono nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi invece di combatterne il desiderio, saggiamente pensando alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla, meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti. Questa giovanile impazienza è da calmarsi; conviene aspettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere dagli uomini in un momento. Al primo comparire d’un’opera interessante, le opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la piccola invidia o l’ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudono un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni dell’immortal luce placidi ed eterni nella loro rivoluzione. Se, desiderando la gloria delle belle arti, conoscerai intimamente queste verità, non avrai desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll’annunziare le tue idee quegli uomini e que’ ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch’egli abbia alla pubblica luce il suo lavoro.
L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle persone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vivere nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di rendercegli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente. La rettitudine, la popolarità, la beneficenza, l’amorevolezza delle maniere bastano; ma so ti abbandoni al desiderio di ottenere la stima de’ tuoi eguali ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che non te la mostrino. I nostri pari sono nostri rivali nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo mediocre che li diverte e non gl’imbarazza, che ad un cittadino virtuoso che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non siano tali. Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale, hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della superiorità nostra già stabilita dalla fortuna, anzi ci sa buon grado che valutiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è superiore al popolo, ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima de’ popolari costringiamo gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri un’opinione instabilissima per natura, la quale, quand’anche si ottenga, porta sempre seco la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune, si propone d’acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle opinioni e sui pregiudizi di essi, per modo che rinunziando quasi all’esistenza propria, deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia mai fatto. Convien dunque cercar la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel piano più basso non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non senza errore. Quindi l’ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desideri che sia pareggiabile col potere, lo ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un animo capace di commettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni distruggitrici della stima pubblica; ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla superiorità de’ lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammirare ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa benevolenza e fiducia che porta con sé il sentimento di stima.
Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe, la quale nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Questa classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volle l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per una carica o per un titolo. Questi amari frizzi si moltiplicano; vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso; si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non perchè in sé stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, e provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco. Questa fatale incertezza li rattrista: sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini vani e non uomini ambiziosi. Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi; vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sé medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi; laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più rigido e meno docile per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli onori dipende e da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito de’ distributori. Sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola, chi può mai prevedere se sarà fatto console l’uomo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio monarca è meno difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e chiare, quelle dell’arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gli impieghi non sempre si danno a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore. La fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini, può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco; ma tanto più sono pregevoli, perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della forza d’animo. Queste qualità, vedute, producono maraviglia; sentite, producono timore; esercitate, producono o l’esterminio di chi le possiede, o l’ubbidienza degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sé medesimo, esaminerà gli uomini coi quali dovrebbe porsi ad agire per ottenerli loro concorso, e scemerà, coll’abbandonare una vana lusinga, la classe de’ desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse conoscere la ineseguibilità. E per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccioliscono e quasi svengono. Ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi lo abbia ottenuto, mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio. L’occhio vede più piccoli gli oggetti, a misura che sono più rimoti: l’ambizione, per lo contrario, quanto più sono da noi lontani gli ingrandisce, e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’annientano al contatto.
La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza: la stessa ragione ci può abituare a correggere l’illusione dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza in chi non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità.
La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione degli onori, è sicuramente Roma, perché ivi trovasi la possibilità de’ più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua patria; che sia creato re elettivo con una moderata autorità, non è questo uno spazio corso, pareggiabile a quello d’un poverissimo fraticello, senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova sovrano d’uno stato, padre dei monarchi e capo della religione. L’importanza di quella che noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per giugnere, e dal luogo in cui si è collocato. Un elettore che sia fatto capo dell’impero, un principe del sangue a cui passi una corona, hanno fatto un passo: un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta monarchia, come il cardinale Alberoni, ne ha fatti più; ma il padre Ganganelli, fatto cardinale e sommo pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nessuna altra parte d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto solo.
Francesca d’Aubignè, nata da un matrimonio contratto (da Costante d’Aubignè) per fuggire dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a servire il poeta Scarron, considerava come un onore il diventare la moglie di quell’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a servire i figli che Luigi XIV aveva avuti dalla marchesa di Montespan. Da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al re, e guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata marchesa di Maintenon, la confidente del re, l’arbitra della Francia, e la più desolata, triste ed annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza al padre Ganganelli solamente di un buon vescovato, si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovato ravvisato il colmo della felicità. A chi alla d’Aubignè, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito, sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui erano destinati, essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili racconti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambiti hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono, o li sentono con indifferenza, mentre l’uomo volgare che prova una voluttuosa sensazione, accostandosi ad essi, li crede circondati da una perenne deliziosa atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gli insigniti di onori, ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza; nel secondo non si cercano, perchè quello che gli uomini credono grande, è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del re di Spagna, che vivea contemporaneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna, cavalier del Toson d’oro, generale degli eserciti, ecc., ecc., ecc., circondato da una brillante caterva di schiavi, riceveva nel fasto e nel seno dell’opulenza le adorazioni dei grandi e del popolo; mentre credeva egli che tutto l’universo lo ammirasse, e le più remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes mal vestito, mal alloggiato, al lume d’ una lucerna scriveva il suo romanzo, il Don Chisciotte. Probabilmente si sarebbe trovato ardito Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola esistenza. La morte troncò l’illusione. S’ignora il nome del grande coperto di onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes, che pochi uomini viventi sono al dì d’oggi tanto conosciuti quanto lo è egli. Le avventure che Cervantes s’immaginava nella sua povera oscurità, sono il soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei re ed i gabinetti degli uomini di gusto. Il bel romanzo gira in più lingue nelle mani d’ognuno; da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che sconsigliatamente sei abbandonato ai crucciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro vacuo, ed anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti ed alle scienze. Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio, un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli, vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia, mentre l’obblivione ha per sempre cancellati i nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ricchezze, allra non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che onorificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a render te stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza e col buon ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta, che sta sulla base propria adamantina e non cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri d’uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, d’amico; sia la tua promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e dell’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sii giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu stesso un tesoro di onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano, e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l’oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co’ quali viene incautamente strascinato alla infelicità.
§ IV. — dell’accrescimento del nostro potere.

Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella de’ piaceri fisici; propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla immaginazione alla realità, perdono costantemente, e che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Perocché un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti desiderj figli dell’errore e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que’ fini. Ma l’amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione all’organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriverne. Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrirei tormentosi, e vani desiderj, de’ quali ho trattato; ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col tempo, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmente l’argomento è troppo difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d’Ovidio che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento. Perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di troppo cibo; annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola disavventura: vedrai il primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensibilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberali poi da taluno dei dolori innominati, dei quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto, molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mantenere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’ piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie; l’intemperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e sedentaria, l’abituazione a’ troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali possono mollo contribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più utile e più sicura degli incerti tentativi, che fannosi per lo più per ricuperare la perduta, è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respignere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacché anche alla gloria e ad altri beni non si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchinale che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario all’uomo per avere un’esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e questo sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver commesse azioni vili e indegne, sebbene nell’oscurità abbia tessute le insidie, sempre è angustiato dal timore che sieno svelate: un’occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano: ei porta nel cuore una malattia più disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi, e mille tristi pensieri abituali nel cuore di un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che obbedisce alla virtù. Vera è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare l’uomo giusto; ma qual peso il rappresentare ogni giorno tutt’altro ohe noi stessi! Questo sforzo non toglie l’interno avvilimento. Si può disputare qual de’ due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito, per non averla, l’altro fa sforzi per contraffarla. Sono due debitori; il primo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa: entrambi hanno l’avvilimento nel cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l’interno sentimento di noi sessi, che è il più giusto e inesorabile de’ nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini: l’errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità. Non pretendo io già che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato, trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento. Ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi fissate dall’Autore dell’Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli errori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito, che talvolta s’incentrano dubbj, e fa mestieri d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario insegna all’uomo la strada della giustizia religiosa: il mero ragionatore, che ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uomini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini al santuario istesso, partendo ancora da’ più meccanici principj; perchè una verità non può smentire un’altra verità, e da più principj fisici o morali, purché sien veri, concatenando una verità all’altra, si può giugnere alla stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia una legge universale sempre ubbidita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore de’ dolori e la maggiore somma de’ piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene finito. Un’infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessione, alla quale pochi uomini si addestrano, non pone dicontro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacere attuale a prezzo di un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà illuminato, tanto più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’ dolori: quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa, e si terrà lontano da’ rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie all’onestà, sono false: la vera religione è sempre offesa, quando sia violata la onestà. Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi dell’onestà, siccome tanti illustri Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma de’ dispiaceri che si ricevono dagli uomini, qualora si ha il concetto di essere malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità a’ nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col tradire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ecc., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del rimorso che scema il poter nostro, togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente concludo che la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici, quelle anime nobili e sublimi che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere, e se, per conservarcene tutta la porzione possibile, dobbiamo colla saggia moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj, ci fa bisogno d’avere in favor nostro i suffragi degli uomini o almeno non averli contrarj. Questi o si comprano o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura, ma conforme alle leggi. I Romani, daché la virtù repubblicana era svanita, si vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere, gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la loro tirannia anche i primi Cesari, e, fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta, impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano, ubbidendo così al timore, alla vendetta ed alla avidità propria col concedere alla fame particolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a Roma, ne’ tempi di sua grandezza: non è però abolito l’uso di comprare più in piccolo i suffragi del popolo anche a denaro; e ciò non potendo accadere nelle monarchie ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a suffragi pubblici si facciano le elezioni alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve periodo, a meno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l’avevano i primi imperadori; e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo de’ beni superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare, facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi: nemmeno in conseguenza possono essere gli uomini d’ingegno caldo o d’immaginazione violenta: la figura nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità, è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la compra dei suffragi pubblici o per denari o per maniere, è da considerarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a poterselo procurare, opera sapientemente nel farlo; e chi non ha i mezzi per comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi contrarj, come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamente della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro; così si legano a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme col pericolo cresce la forza dell’impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti, essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della moltitudine, ottenendo una carica, per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a pochissimi; e sebbene accrescano il potere, anche assai di più moltiplicano i desiderj, onde non sono i trascelti da’ veri saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie loro l’occasione di restringere il nostro potere, sottraendoci a’ loro sguardi con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell’aperta ingiustizia, se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso d’ogni altro e meno soggetto a’ capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente prescelto da’ saggi.
§  V. — DI ALCUNI CONTRASTI FRA  LE  LEGGI.

La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi. Abbiamo le immortali leggi prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate, che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda.
Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il supplizio e l’infamia. La vita del principe Stuardo pretendente alla corona della Gran-Brettagna era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo; il pretendente sconfitto, dispersi interamente i suoi partigiani; senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver passato un giorno appiattato in un cespuglio, intorno cui giravano i nemici per prenderlo, venuta la notte, si presenta alla casa d’un gentiluomo del contorno: — Vi porto, gli disse, un felice annunzio. Dieci mila lire sterline sono vostre: sol che il vogliate, potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: son io, senza difesa; disponete dell’ultimo infelice rampollo dei vostri re, ovvero, se le mie disgrazie v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscir dall’isola. — Che partito doveva prendere il gentiluomo? Egli ristorò l’infelice principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione. Fu processato; la legge era chiara, come chiara la contravvenzione: per tutta difesa chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbono essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azione giusta e virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso ad un generoso e nobile uomo di soggiogare e impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare la libertà ad un inimico del proprio re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi contravvenire ad un legittimo proclama? Hai data la tua parola d’onore di conservare un secreto; si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo. Altra pubblica legge ti offre una ricompensa, e con pubblico editto l’invita ad uccidere un uomo; ma la religione e l’onestà gridano: Non tradire, non uccidere: come condurrommi in questo orribile labirinto?
In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esalto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia; poiché sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un piacere che portain conseguenza un male più grande di lui. Si dà un apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni periodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il pericolo di abbandonare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente calma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse, siccome di sopra ho detto, d’ubbidire alle leggi dell’onestà, così evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.
Ciò posto, per conoscere, fra le contraddizioni angustiose delle leggi, cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta quale dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo, conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.
Formiamoci un’idea d’una società d’uomini tanto perfettamente organizzata, quanto ce la può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciulli da una tempesta sieno divenuti col tempo i patriarchi d’un nuovo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di poter formare una nazione. Questa moltitudine d’uomini mossa da’ bisogni, mancante d’idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite alle azioni altrui; e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è propria del maggior numero, così in quello stato la parte massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza. Quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti raccolti pel proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più accorto a proporre un’associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con certe leggi fattizie sicuro di conservare sé stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un diritta di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i regni d’Europa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile associazione primitiva? Quest’isola immaginata altro non è che una finzione la quale niente ha di comune colla realtà de’ nostri diritti. Così può chiedermisi ragione della genealogia degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni filosofi, di quello che alcuni antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo che della rimota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione della scrittura: arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente inventata in que’ tempi, ne’ quali la memoria dell’associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo di più che, forse indipendentemente da ogni convenzione, un uomo solo più ardito, più illuminato o più scaltro, può avere cominciato a dominare sopra i suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo potrebbe togliere. Perciò quell’origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un diritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così saggiamente adoperato, che equivalesse all’immaginata spontanea primitiva associazione.
Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i doveri e i diritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste; giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza. Ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità pubblica; e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è un’immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data, nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi. Poiché, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero d’uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all’errore alle passioni e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.
Una società traviata da’ principj costituenti la giustizia sociale e condotta alla corruzione, lascia per l’opposto incerti i doveri e i diritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo. La felicità condensata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo stato di miseria e di annientamento di molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto: si teme la verità, si fugge la vista d’una virtù più luminosa, il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere; e di questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra isolate dal timore e concentrale, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla. Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a’ non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde, per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perchè essendo l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa parte con liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose è nobili, ovvero abbiette e codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gli interessi di tutti. Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia un’azione più utile in generale agli uomini il rinforzare le leggi dell’onore, acciocché almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che si andrà accostando all’originaria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere maggiore, onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VI.—DELLA CONOSCENZA DI NOI E DEGLI UOMINI.

Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere gli uomini. Conosci te stesso, ò un antico e verissimo precetto della sapienza, il quale in poco indica la perfezione della grand’opera a cui debbono tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come deboli ammalati che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sé medesima: quindi l’abbonimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conversazione qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche di un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita de’ più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, a’ quali rarissime volte la riflessione contrappone l’immagine degli oggetti lontani: onde mutandosi pel moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore all’odio, dal disprezzo alla stima, con un’apparente contraddizione, ma che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio che cerca la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sé stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, e d’onde traggano questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e pone sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapienza, gli sta al fianco; separa le verità dalle opinioni; pone nella prima classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare se stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia dei passati tumulti, divisa i mezzi onde scemare le turbolenze cagionate dai desiderj di beni chimerici, ovvéro di beni non conseguibili, col passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia all’esame dei mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che possiamo sentire con una sorta d’amicizia di noi stessi la contentezza di esistere, di renderci conto de’ principi che ci movono: il che ci dà una ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiorità nostra, in ciò che noi possiamo essere con noi medesimi; laddove quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia, nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini m’innalza al disopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la fortuna; l’orgoglio e l’invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo meno di quello che è infatti se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune; gli onori mi ubriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale; una traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza; passerò la vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma. Se conservo la pace interna all’udire un’azione infame, dirò: Il mio cuore è disgraziatamente insensibile; il mio animo è sinora incapace di elevazione; sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba nel mio cuore; se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto; se rabbonii nazione e la viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora: Sono capace di virtù, sono un uomo, e posso innalzarmi alle belle azioni. L’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini di merito, e con ciò avrò la misura dell’elevazione della mia mente. Il contrasegno più sicuro di ogni altro per conoscere se vagliamo è la sensibilità e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui; questo pusillanime rannicchiamento del cuore è figlio dell’incertezza del nostro merito, e suppone un’anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere all’opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il riuscire dipende dalle opinioni, da’ tempi e da’ luoghi. Io non cercherò ad un altro uomo, se quello ch’io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dall’opinione d’uomini colti e onesti, se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda l’impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore, l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nella solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè dell’elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna dimostrazione.
Conosciuto ch’io sia a me medesimo; definita ch’io abbia la vera e nuda altezza in cui mi trovo riposto; spogliato ch’ io mi sia de’ titoli e di quant’ altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose che si muovono intorno di me, nè il favore d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che valgo, nè gli insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza sopra il destino e sta immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere all’infelicità; il che sta rinchiuso nel precetto: Conosci te stesso.
L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di sé medesimo per fare il miglior uso del proprio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della propria carriera, e quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte ed il proprio lato debole. La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità. Sarebbe un uomo di spirito amabile; disgraziatamente si è trascelto maniere gravi e sentenzioso discorso: è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che si è imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe di migliore riputazione. Questi sarebbe un elegante scrittore se non si ostinasse a comporre per il teatro, per cui manca di genio. Quegli è un esattissimo ragionatore, e non vuol scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi, ne’ quali l’uomo si presenta svantaggiosamente per non avere esaminato meglio so medesimo e trascelta l’occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne occuperà, esaminerà sé stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo contorno e riesce disgustoso, e che l’imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sé medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che ti muovono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo; fra l’occhio e il primo, il vetro è convesso; fra l’occhio e il secondo, è concavo il vetro; e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi; ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si fida de’ giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna, altrui, non sente cambiarsi internamente l’opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell’udito, nell’odorato e nel corso; vedilo viaggiare sicuramente sull’instabile superficie dell’immenso Oceano, attraversare gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci sì varie, col mezzo delle quali comunica a’ suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora; cerca di parlare a’ lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura e la perfeziona al ponto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo, ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi quest’industriosissimo essere creare a sé stesso nuovi organi per supplire alla debole sua vista: e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la picciolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l’eclisse e l’apparenza. Cava di mezzo ai monti i metalli, e ne forma stromenti per la difesa e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e difficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a teiajo, dal tintore ecc. Esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj di molti sogni e di alcune verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d’Europa miseramente sagrifichino ogni anno molte migliaja di vittime umane per possedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile stromento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver libero e facile il moto, e d’essere difesa dal nemico o dalla stagione. I pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad un uomo. I giurisperiti hanno posta l’incertezza nelle proprietà. I medici, poco conoscendo e molto affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi; la piccola è di quelli che ne impongono, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono: stanno confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male; e il commercio d’uomo a uomo comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in eguali porzioni. Nel conoscere queste tristi verità l’uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa misantropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l’uomo che ha trovato le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni pochissimi, i quali sono dolali di una forza d’ingegno e d’una costante passione per cercare la verità e la gloria, talché essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione una scienza; e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo. Fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che risguardano gli interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capace d’innalzarsi, viene o escluso o contrastato, a meno che quest’uomo non sia nato sul trono. Perciò i regolamenti politici essendo l’opera di più uomini sono come le strade delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì queste che quelle nascono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di ottenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme, il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sé, possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigiose e sublimi: le opere concertate da molti uomini insieme, che a forze eguali si uniscono, sempre saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo, un Newton. Nessun’accademia di pittura ha formato un Rafaello, un Correggio, un Tiziano. Nessuna accademia di poesia ha formato un Tasso, un Ariosto. Un ceto d’uomini non farà mai cosa che oltrepassi la mediocrità.
L’uomo comunemente è debole; anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre della gelosia, dell’invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il ragionare; pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitudine ha ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; loda le virtù facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azioni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, perchè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio, che cerchi la tua felicità, di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione, e in vece di affliggertene allorché non la trovi, rimira ciò come un regolare fenomeno della nostra specie. Se ami d’essere superiore colle forze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri tu trovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua sopra de’ volgari; essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una classe di impossibili desiderj, e si accresce il sentimento del tuo potere.
§ VII. — DEI MOVIMENTI  DEL  CUORE.

Le verità sinora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro cuore: la compassione e il bisogno di amicizia. La vista d’un animale morto eccita un’emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno. Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addoloralo patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I bambini fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta a’ mali altrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma l’uomo comune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista de’ mali, le fibre con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice criminale, che fa da’ sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col litotomo [2], che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui, se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro stoico consigliarci d’indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi altrui: ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa sensibilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consiglierà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati, anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre, azioni verso il bene sono sempre più energiche, quando parlano da una spinta di sentimento di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di compassione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del nostro animo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un nobile sentimento dalla coscienza nostra, che ci risponda dell’elevazione di noi medesimi (il che non può aversi se non a misura che siamo virtuosi), così questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimento altrui. Molti sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e liberare altri dal male, conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi, o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti, e più sicuri e brevi; ed occupato in questa ricerca industriosamente il saggio, distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose, e si renderà sempre più robusto per allontanare sé medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de’ mali altrui non si trova che languidissima, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibre perdono la loro sensibilità egualmente o nel letargo, o nell’abuso delle ripetute sensazioni. Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fra le ridenti dissipazioni, vedrà un pallido padre di una numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassionevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un remo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità, che rende le anime delicate e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro che avendo idea de’ mali e provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, nè assorbito da una passione violenta che annienti ogni altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vita, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli, e chi persino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati o smarriti in uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno di avere un amico è piccolo negli uomini d’un carattere duro e poco sensibile, è grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, negli avari, ne’ maligni e in tutti coloro i quali debbono temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esamineremo i beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amicizia, dubito che ne sarà per comparire una verità poco consolante. Sono tanto rari i caratteri meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo, che, cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar sempre coll’amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’essere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in agguato, sempre in guardia, avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sagrificando il più nobile sentimento che mi rende sopportabile la vita? Io stimo che sia men male l’avventurarsi talvolta anziché l’esistere così solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del sublime entusiasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecillità; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi. Perciò l’uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l’abbia, si abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente, ed osservalo in varie circostanze felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principi; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dall’avidità delle ricchezze, dalla briga e dall’affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tali passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’un’azione generosa faccia comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’un’infamia dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservalo inalterabilmente i loro tratti! Esamina se infatti sia compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il sublime coraggio di dare il torto a sé medesimo, quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padrone, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge a questo esame l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una scambievole uniformità di genio. Due onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico. Tanti uomini illustri e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei hanno scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne; nè questo discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò solamente che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne’ benefici medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi le riceve, e fa risguardare l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddisfare giammai. Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne’ proprj sentimenti, e che la riconoscenza istessa non sia tanto un dovere, quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazione di uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia; questa è più costante ed intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà; perchè sotto un governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s’avvicina al suo simile per rinforzo ed ajuto; e per lo contrario sotto un governo giusto e costante l’uomo ha un’esistenza propria all’ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza bisogno di soccorso.Sotto la sferza della scuola d’un pedagogo, fra i pericoli delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle società che chiamano di bel mondo, gli uomini passano la vita senza accostarsi all’amicizia. I caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte vi ha l’ingegno e meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizione che la ragione c’insegna, troverà il saggio di essersi ingannato, soffrirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa una sventura, come una febbre da riguardarsi come un appannaggio della nostra sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fra le braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano dell’ingratitudine degli uomini, soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza de’ principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno dell’amicizia invece d’indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicché per questi due sentimenti tu diverrai ancora più lontano dall’infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VIII. — SE I MEZZI PER VIVERE FELICI

CRESCANO OVVERO SCEMINSI IN QUESTO SECOLO.

Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si promove e dilata la felicità d’uno Stalo; sarebbe questo un argomento che da sé meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un si vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere, se gli uomini che attualmente vivono, abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel còrso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio de’ nostri simili che seppero sopportarne una più penosa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità. Il Muratori in cento luoghi si consolava della felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò un compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci animati da un violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti confini del loro paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa, soggiogando le genti attonite, che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore inalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte d’Europa. Passa la robusta virilità dall’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell’Orsa le generazioni d’uomini, che dall’Eusino e dalla Germania, invadendo il Romano Impero, tutto distruggono, niente sostituiscono: lottano con altri barbari; poi, indeboliti a poco, a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, nei quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore. Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti: quindi per molte generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate e l’educazione, comparve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della sicurezza della nazione si eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni, e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per loro stesse, e divennero un mero patrimonio de’ principi, i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per motivi personali de’ principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate: spettacolo ben diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti da’ loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armale di schiavi mercenari limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva a’ sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò nelle miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a partecipare di questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio; si conobbe che la pubblica sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso ed arbitrario ne è l’esterminatore. Quindi alcune nazioni per non deperire nella forza relativa adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui altre vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Europa; e i sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile e la felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto. L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti prepara ano stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il fisico ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto delle miniere, e a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacché la storia ci ha trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’pensaiori fa torto la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore negli animi, l’antica guerra di nazioni e non di principi; e per questo circolo passeranno in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in fatti i sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini: li vediamo rappresentare la maestà della nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro l’abuso del potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno dello Stato, e servire allo stipendio di quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della nazione forza è che sieno alimentati dal possessore di cui conservano la proprietà o combattendo, o dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i diritti di ciascuno e frenando i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli che servirono di modello al Segretario Fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV accadevano quando nella Lombardia il duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da ferocissimi mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per comando d’un sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le donne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante, che non si presterebbe credenza a un tal racconto, egli Stati suoi si spopolerebbero, correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di stato. Io non dirò che tutti gli Stati d’Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica: ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì disputare se l’uomo fra gli Urani e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società sia più misero dello stato di società celta e legittima. Nella vita selvaggia può dirsi che l’eccesso de’ desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli sono limitati quasi a’ soli bisogni fisici, e questo è grande coll’agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione. Nello stato di società i desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si scema da quello delle forze fisiche; ma  se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla fonte dell’equità e della giustizia sgorga il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è vacillante, e l’eccesso de’ desideri diventa sommo. Si è forse trovato un ingegnoso paradosso, piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che gli uomini sociali; perchè si è creduto che con ciò si facesse il progetto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il selvaggio abbia tutti i bisogni ch’ei sente, e mancando di mezzi per soddisfarli conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la quistione è un oggetto di semplice speculazione; nè mai da questa potrà dedursene, che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate, se non se quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’industria, ed affrettando i progressi della verità, fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune l’uso di essa a’ cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società: al mio intento basta soltanto di indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi nell’Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l’indole del clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i governi dispotici, antichissimamente istituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di generazioni; ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente confermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato somigliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.
Dal sin qui detto raccogliesi, che l’uomo ha più mezzi oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi dipendono da’ lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse dominano l’opinione, e questa il mondo. Il saggio le onora, e sopra di ogni altra coltiva la scienza di sé medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare sé stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
CONCLUSIONE.

La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma pure chimera, perché l’uomo senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi de’ venti dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmente ne soffre il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci da’ desiderj contrari a lei e procurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini colti e naturalmente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni, per non aver credulo abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti, agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbolenta condizione ch’ei penetra a conoscere nell’interno altrui. La felicità del saggio comincia da lui, e si estende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di sé medesimo, mentre la prima si estende al di fuori di sé lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni; l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente cresce, e muore al primo gelo. Un antico poeta desiderava che l’uomo malvagio vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei, che gli uomini la vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno, anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso ed illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d’invidia, e ti proverò che se fosse staio illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj, combina questi elementi; e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso de’ desideri sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de’ tuoi principi, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani da noi medesimi, quanto gli spettacoli e le rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noia di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la capacità di ripiegarsi in sé stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del proprio potere, per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.

Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a godere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all’opposto merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che quell’uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicché nè l’una degeneri in asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio resta egualmente distante e dall’inurbanità e da quella servile passività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principi costantemente seguiti e difesi. Fra le nazioni corrotte tu vedi il sorrìso sulla faccia dei cittadini. Fra le nazioni illuminate leggerai in fronte agli uomini l’onorata sicurezza e l’amore dell’ordine. In ogni nazione il saggia esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria felicità.

sábado, 17 de agosto de 2013

COMPRENSIÓN DE LA DIVINIDAD


COMPRENSIÓN DE LA DIVINIDAD

©Giuseppe Isgró C.



La Doctrina Universal denota que, a través de los tiempos han existidos seres que han tenido una percepción en grado muy elevado de la Divinidad, que se corresponde ampliamente con la realidad susceptible de ser captada en los actuales estados de conciencia.
Nosotros ignoramos el grado de percepción que cada uno de los seres de los otros tres reinos naturales posee de Dios.
El ser humano, muy engreído de sí mismo, estima que los seres de cada uno de esos reinos, carecen de espíritus, y capacidad de pensar, empero, la realidad es que ellos sí poseen el mismo Espíritu del Ser Universal, dotado con análogos atributos divinos, potencialmente infinitos, con una conciencia que constituye una réplica idéntica a la de Él.
Dado lo anterior, estando los seres de cada uno de esos reinos naturales libres del condicionamiento limitante de los seres humanos, su capacidad perceptiva trasciende la de los humanos, como lo demuestran incontables pruebas, percibiendo y, probablemente, comprendiendo la naturaleza de la Divinidad en mayor grado que los seres humanos.
La percepción de que todo es UNO, y de que cada uno de los seres, en los cuatro reinos naturales, es una emanación del Ser Universal, formando una unidad indisoluble con Él, es universal, y ha sido percibida en todas las épocas y culturas, desde la más remota antigüedad.
Las diversas doctrinas orientales, el Hinduismo, el Taoísmo, el Sufismo, el Yoga, y el Kriya Yoga, la Masonería Universal y  el Espiritismo, entre otras corrientes de pensamientos, constituyen un ejemplo claro de esta evidencia.
. Los pensadores más relevantes como Hermes Trismegisto, Tales de Mileto, Pitágoras, Moisés Maimónides, Al Gazzali, Ibn Arabi, Rumi, Kabir, Ramakrisna, Gandhi, Tagore, Paúl Brunton y Joaquín Trincado, entre otros incontables más, han tenido percepciones sobre la Divinidad de gran interés, con una constante coincidencia.
Esa es la razón por la cual se hace preciso conocer todas las corrientes de pensamiento que conforman la Doctrina Universal: todas constituyen una herencia espiritual de la humanidad, por encima de las cuales debe predominar, únicamente, la verdad universal.
Empero, por encima de todo, es preciso percibir por sí la realidad de todo lo existente, y de manera especial de la Divinidad. Ello se logra centrando la atención en la Divinidad.
Adquiriendo conciencia de la unidad cósmica, perfecta e indisoluble, que se conforma con Ella. Por el principio de que, donde se centra la atención se expande la conciencia perceptiva, y el poder creador, o de acción que le es inherente, se le comenzará a percibir, a la DIVINIDAD, gradualmente, en la medida en que se medita en mayor grado, tanto en Ella como en sus atributos divinos, o valores universales.
Aprender a ver por sí, por medio de la meditación, y de la conexión divina, es la clave. Pero, ello precisa preparación, estudio constante, y adquirir la capacidad de ver más allá de las apariencias.
 La vida es un libro abierto, y quien sea capaz de prestar la atención suficiente a las cosas antepuestas a su atención será capaz de percibir la Presencia de la Divinidad en todo, y en el Todo, incluyendo en sí, el propio ser.
Es preciso aprender a oír, en el silencio interior, mediante la abstracción del propio ego, la voz del Ser Universal, que se expresa en la propia conciencia mediante el lenguaje de los sentimientos de los valores universales, cuya expresión sintética es el amor, que engloba a los sentimientos de todos los valores universales. Esa es la razón de que el amor simbolice en grado supremo a la Ley Cósmica, como ley matriz del universo.
Mientras más se centre la atención en la Divinidad, en mayor grado se le percibirá en todos los instantes, en los actos de la vida, como guía pedagógica.
La Divinidad es la voluntad rectora del Universo, la fuerza que lo mueve todo, y orienta, que conduce lo existente a su meta suprema: La conciencia cósmica y la expansión de la Creación Universal.
 Es el eterno retorno del ser individual al Ser Universal. Un trabajo para el eterno presente, en el cual la Divinidad, cada vez, se expresará en un nivel más elevado de conciencia, de acuerdo al Estado y a las estaciones, por las que ha pasado cada ser, en los cuatro reinos naturales: Humano, animal, vegetal y mineral.
En todos los seres de los cuatro reinos naturales late la misma esencia: La Divinidad, sin separarse de sí misma, y sin dejar de ser Ella misma.
Es preciso aprender a ver más allá de las apariencias, y de las diferencias. La realidad es una, a través de la inmensidad de los Estados de conciencias, expresada en infinitos grados, o estaciones evolutivas, según el bagaje existencial de cada quien.
Aquí se denota la importancia de centrar la atención en lo único que realmente importa: La Divinidad. Dado lo cual, todo lo demás vendrá por añadidura, automáticamente, sin esfuerzo, sin necesidad de pedirlo, dejando que la voluntad de la Divinidad se exprese por sí misma, en cada pensamiento, sentimiento, deseo, anhelo, palabra, acto u omisión de actos.
El ejercicio del libre albedrío debe efectuarse para que la única voluntad que se exprese sea la de la Divinidad, en la propia conciencia, ya que no existe más que la Divinidad, expresada  en la propia conciencia, réplica exacta de la de Ella.
Es necesario que la Divinidad tome el control de la propia vida mediante el cumplimiento de la Ley Cósmica impresa en la propia conciencia. Cumpliendo con la Ley Cósmica impresa en nuestra propia conciencia, habremos cumplido, en cada instante, con la Voluntad de la Divinidad. Es la misma Divinidad la que deja oír su propia voz dentro de la conciencia, mediante el lenguaje de los sentimientos de los valores universales, a cada momento, cuando se percibe la verdad, lo justo, la belleza, lo equitativo, el equilibrio, la fortaleza, y el sentido de la vida, en todos los actos existenciales.
En el reconocimiento de la voluntad divina expresada en la propia conciencia, se habrá percibido, a cada instante, a la misma Divinidad, cada vez en un mayor grado de comprensión.
Entonces surge, en la propia conciencia, la comprensión y la confirmación de aquella percepción de que nada se le asemeja a lo que la Divinidad quiere.
Adelante.


domingo, 11 de agosto de 2013

SUMA EXISTENCIAL


SUMA EXISTENCIAL

©Giuseppe Isgró C.


Dentro de la conciencia de cada ser existe una hoja de vida que representa el equivalente a una hoja de cálculo electrónica, en la cual cada registro suma, resta, divide y multiplica cantidades que, en forma automática, afectan el saldo total.
 En cada persona, ese saldo representa la SUMA EXISTENCIAL, el gran total de vida. El programa que rige el proceso, desde cada asiento hasta el resultado final, está basado en las leyes de afinidad, de justicia, de igualdad y de compensación.
Es decir, cada acto es pesado en la balanza de la justicia, cuyos platillos son la ley de igualdad y la de compensación. Todos los seres son iguales en la ley y ante ella; cada acto es pesado, y compensado, en la respectiva polaridad positiva o negativa: o suma o resta, en el saldo existencial.

El resultado, es decir, la suma existencial, otorga un poder de acción o de pasividad, y de acuerdo al respectivo saldo es ubicado, o reubicado, cada ser, en el orden que le corresponda, del cero al infinito. De manera, que, es un proceso automático e instantáneo.

miércoles, 7 de agosto de 2013

DEJAR DE COMPARARSE...


DEJAR DE COMPARARSE...

©Giuseppe Isgró C.


Las comparaciones siempre constituyen un riesgo para la propia auto-estima, ya que unas veces resultan favorables, otras, las mayorías de las veces, no.
Las comparaciones denotan inseguridad personal y una auto-estima poco fuerte. Teniendo, la persona, un auto-concepto sólido y elevado en relación a su propio ser, no precisa de comparaciones para sentirse bien. Simplemente se acepta tal como es, y a los demás tal como son. No se siente inferior cuando observa cualidades superiores en las demás personas, ni superior a nadie porque vea cualidades insuficientemente potenciadas en los demás. De los primeros precisa aprender; a los segundos, enseñar con su ejemplo.
En la naturaleza nadie es superior ni inferior a ningún otro ser, incluyendo los demás integrantes de los cuatro reinos naturales. Te sientes tú superior a una hormiguita? Pues, no deberías. Esa hormiguita en el contexto universal pesa tanto como tú, aunque puedas no creerlo. Es la misma vida que late, la misma inteligencia que actúa, la misma esencia divina la que yace en su propio ser. Lo que varía es el rol que la naturaleza de las cosas asignó a cada quien. Te has preguntado, alguna vez, que harías, con toda la superioridad que pudieses pensar que tienes, si estuvieses en el cuerpo de una hormiga? Probablemente tendrías que aprender el trabajo que ella hace a la perfección, y desarrollar un sinnúmero de cualidades que ella ya tiene optimizadas.
Seguramente, la hormiga tiene un mejor control de todas sus facultades físicas, mentales y espirituales de la que tiene cualquier ser humano normal. Y, probablemente, percibe a la Divinidad sin barreras de ningún tipo, o por lo menos, en un grado más elevado que gran número de personas.
Entonces, si no se es superior a una hormiguita, tampoco se es inferior ni a una hormiguita, ni a ningún otro ser humano. Cada quien tiene su propia importancia y es preciso apreciarla y respetarla.
En el momento en que respetamos a los demás seres de los cuatro reinos naturales, sea quienes fueren, ellos, automáticamente, respetarán en igual grado.
En el momento en que se deje de hacer daño a los demás seres en los cuatro reinos naturales, a su vez se fortalece el escudo protector en contra de cualquier eventual daño, ya que el mismo orden cósmico se ocupa de proteger a cada quien.
Aprendamos de quienes sepan más, o tienen mayor experiencia. Enseñemos, generosamente, a quienes lo precisen. Si queremos un mundo mejor, debemos aprender de quienes nos aventajan, y enseñar a quienes aventajamos en experiencia y conocimientos. Esto es válido en la vida en general, en cada profesión o gremio, en todas las sociedades. Primero, segundo, tercero, cuarto y quinto mundo, son denominaciones que no se corresponden con la realidad. En los países denominados de tercer mundo, pueden existir algunos valores que en los denominados del primer mundo, ni siquiera se sueñan con poseer, salvo excepciones, por supuesto.
Las Constituciones de todos los países garantizan la no discriminación por lugar de nacimiento, por grupo étnico, por sexo, por profesión, por espiritualidad, y por un largo etcétera. Pero, las discriminaciones existen aún en aquellos países que dicen no tenerla. Denota esto que, aún, es preciso fortalecer la auto-estima, y la visión universal de la vida.
Al comprender que en todo ser vibra la misma Divinidad, sin dejar de ser la Divinidad ni separarse de la Divinidad, esto permite percibir que más allá de las apariencias lo que existe es la misma Divinidad animando toda vida, o existencia, en los cuatro reinos naturales. El proceso de auto-aprendizaje es idéntico en todos los seres hasta adquirir conciencia de las propias raíces o Esencia Divina.
Cada ser es poseedor de todos los atributos de la Divinidad, y del poder creador, y de una conciencia que es la réplica exacta de la Divinidad. Aceptemos la propia importancia, y la de cualquier otro ser sin sentirnos ni superiores ni inferiores.
Somos poseedores de todos los tesoros del universo, siempre y cuando sepamos percibirlos allí donde se encuentran. Pese a que son inagotables, es preciso no despilfarrar su uso. Son tesoros compartidos por todos los seres en los cuatro reinos naturales, en todo el universo.

Esos tesoros son los atributos divinos y el poder potencialmente infinito que se poseen, además de la eterna e inmortal vida del Espíritu, y una conciencia que es la réplica exacta de la del Creador Universal.

Cualquier cosa que se imprima en la conciencia como objetivo esencial, necesario y que implique un reto, y la satisfacción de una necesidad o un anhelo genuino, se hará realidad, si cree que puedes y ello no implica sino un bien para ti y para todos los seres involucrados. 

Observa y descubre todas las cosas buenas e importantes por las cuales puedas dar, sinceramente, las gracias a la Divinidad. Haz una lista de, por lo menos, cien de las numerosas razones por las cuales puedes expresar gratitud. 

Aun se precisa expresar gratitud por todas aquellas situaciones que se encuentran pendientes de solución: Agradece a la Divinidad porque, cualquier situación que debas resolver, ya está resuelta en sus planes cósmicos. 

El poder de la gratitud te conecta con la Divinidad de múltiples formas y transforma tu vida en un manantial de eterno amor, sabiduría potencialmente infinita, sin límites de ninguna naturaleza, y te pone al mando de la potencia creadora universal, en tu respectivo nivel de conciencia. 

Dejar de compararse y en su lugar apreciar la Divinidad que es la esencia de tu ser y de cualquier otro con quien te interrelacionas, te fortalece en la conciencia de tu propio valor. 

Adelante. 


lunes, 5 de agosto de 2013

LA CIENCIA DEL HOMBRE, Alexis Carrel

Obra del pintor Miguel J. Isgró B.

LA CIENCIA DEL HOMBRE

Dr. Alexis Carrel
Premio Nobel de Medicina


I


Necesidad de elección en la masa de datos heterogéneos que poseemos acerca de nosotros mismos.– El concepto operacional de Bridgman.– Su aplicación en el estudio de los seres vivos.– Conceptos biológicos.– La mezcla, de conceptos de las diferentes ciencias.– Eliminación de los sistemas filosóficos y científicos, de las ilusiones y de los errores – El papel de las conjeturas.

Nuestra ignorancia de nosotros mismos es de una naturaleza particular. No proviene ni de la dificultad de procurarnos las informaciones necesarias, ni de su inexactitud ni de su rareza. Es debida, al contrario, a la extrema abundancia y a la confusión de las nociones que la humanidad ha acumulado a su propio respecto, durante el curso de las edades. Y también a la división de nosotros mismos en un número casi infinito de fragmentos por las ciencias que se han dividido el estudio de nuestro cuerpo y de nuestra conciencia. Este conocimiento ha permanecido en gran parte inutilizado. De hecho, es difícilmente utilizable. Su esterilidad se traduce por la pobreza de los esquemas clásicos que son la base de la medicina, de la higiene, de la pedagogía y de la vida social. política y económica. Sin embargo, existe una realidad viviente y rica en el gigantesco conjunto de definiciones, observaciones, doctrinas, deseos y sueños que representa el esfuerzo de los hombres hacia el conocimiento de ellos mismos. Al lado de los sistemas y de las conjeturas de los sabios y de los filósofos, se encuentran los sistemas positivos de la experiencia, de las generaciones pasadas y una multitud de observaciones conducidas con el espíritu y a veces con la técnica de la ciencia. Se trata únicamente de hacer, en estas cosas disparatadas, una elección juiciosa.
Entre los numerosos conceptos que se refieren al ser humano los unos son construcciones lógicas de nuestro espíritu. No se aplican a ningún ser observable por nosotros en el mundo. Los otros son la expresión pura y simple de la experiencia. A tales conceptos, Bridgman ha dado el nombre de conceptos operacionales. Un concepto operacional equivale a la operación o a una serie de operaciones, que deben hacerse para adquirirlos. En efecto, todo conocimiento positivo depende del empleo de cierta técnica. Cuando se dice que un objeto tiene la longitud de un metro, ello significa que el objeto tiene la misma longitud que una varilla de madera, o de metal cuya extensión fuera igual a la medida del metro conservada en París en la Oficina Internacional de pesos y medidas. Es evidente que sólo sabemos lo que podernos observar. En el caso precedente, el concepto de longitud es sinónimo de la medida de esta longitud, los conceptos que se relacionan con objetos colocados fuera del campo de la experiencia están, según Bridgman, desprovistos de sentido. Igualmente una pregunta carece absolutamente de significación, si es imposible encontrar las operaciones como acontece una, pregunta no posee significación alguna, si es imposible encontrar las operaciones que permiten darle una respuesta.
La precisión de un concepto cualquiera, depende la exactitud de las operaciones que sirven para adquirirlo. Si se define al hombre como compuesto de materia y de conciencia, se emite una proposición vacía de sentido. Porque las relaciones de la materia corporal y de la conciencia no han sido, hasta el presente, conducidas al campo de la experiencia. Pero se puede dar del hombre una definición operacional considerándolo como un todo indivisible que manifiesta actividades físico-químicas, fisiológicas y psicológicas. En biología como en física, los conceptos sobre los cuales es preciso edificar la, ciencia, aquellos que permanecerán siempre verdaderos, están ligados a ciertos procesos de observación. Por ejemplo el concepto que tenemos hoy día respecto de las células de la corteza cerebral, con sus cuerpos piramidales, sus prolongamientos dentríticos y su lisa enjundia, es el resultado de las técnicas de Ramón y Cajal. Es, pues, un concepto operacional y no cambiará sino con el progreso futuro de la técnica. Pero decir que las células cerebrales son el asiento de los procesos mentales, es una afirmación sin valor, porque no existe medio de observar la presencia de un proceso mental en el interior de las células cerebrales. Únicamente el empleo de los conceptos operacionales nos permite construir sobre terreno sólido. En el cúmulo inmenso de observaciones que poseemos sobre nosotros mismos debemos elegir los hechos positivos que corresponden a lo que existe, no sólo en nuestro espíritu, sino también en la naturaleza.
Sabemos que los conceptos operacionales que se relacionan con el hombre, los unos le son propios, los otros pertenecen a todos los seres vivientes; los otros, en fin, son aquellos de la química, de la física y de la mecánica. Hay tantos sistemas diferentes como capas diferentes en la organización de la materia viva. Al nivel de los edificios electrónicos, atómicos y moleculares, que existen en los tejidos del hombre como en los árboles o en las nubes, es preciso emplear los conceptos de «continuum» espacio-tiempo, de energía, de fuerza, de masa, y también aquellos de tensión osmótica, de carga eléctrica, de iones, de capilaridad, de permeabilidad, de difusión. Al nivel de los agregados más grandes que las moléculas, aparecen los conceptos de “micelle", de dispersión, de absorción, de floculación. Cuando las moléculas y sus combinaciones han edificado las células, y las células se han asociado en órganos y en organismos, es preciso agregar a los conceptos precedentes, los de cromosoma, de génesis, de herencia, de adaptación, de tiempos fisiológicos, de reflejos, de instintos, etc. Se trata de los conceptos fisiológicos propiamente dichos. Estos coexisten con los conceptos físico-químicos, pero no le son reductibles. En el estado más alto de su organización, existen, aparte de las moléculas, las células y los tejidos, un conjunto compuesto de órganos, de humores y de conciencia., Los conceptos físico-químicos y fisiológicos se hacen insuficientes. Hay que agregar los conceptos psicológicos, que son específicos del ser humano. Tales son la inteligencia, el sentido moral, el sentido estético, el sentido social. A las leyes de la termo-dinámica, y a las de la adaptación, por ejemplo, nos vemos obligados a sustituir los principios del mínimo de esfuerzo, por el máximo de goce o de rendimiento, la persecución de la libertad, de la igualdad, etc.
Cada sistema de conceptos no puede emplearse de manera legítima sino en el dominio de la ciencia a la cual pertenece. Los conceptos de la física, de la química, de la fisiología, son aplicables a las capas superpuestas de la organización corporal. Pero no es permitido confundir los conceptos propios de una capa determinada, con los que son específicos de otra. Por ejemplo, la segunda ley de la termo-dinámica indispensable al nivel molecular es inútil al nivel psicológico donde se aplica el principio del menor esfuerzo para el máximo de goce. El concepto de la capilaridad y el de la tensión osmótica, no alumbran lo suficiente los problemas de la conciencia. La aplicación de un fenómeno psicológico en términos de fisiología celular, o de mecánica electrónica, no es más que un juego verbal. Sin embargo, los fisiólogos, del siglo XlX y sus sucesores, que se perpetúan entre nosotros, han cometido ese error, procurando reducir al hombre entero a la físico-química. Esta generalización injustificada de nociones exactas, ha sido la obra de sabios excesivamente especializados. Es indispensable que cada sistema de conceptos conserve su rango propio en la jerarquía de las ciencias.
La confusión de los conocimientos que poseemos sobre nosotros mismos, proviene sobre todo de la presencia, entre los hechos positivos, de residuos de sistemas científicos, filosóficos y religiosos. La adhesión de nuestro espíritu a un sistema cualquiera, cambia el aspecto y la significación de los fenómenos observados por nosotros. En todos los tiempos, la humanidad ha sido contemplada a través de cristales teñidos por las doctrinas, las creencias y las ilusiones. Son estas nociones falsas e inexactas las que importa suprimir. Como lo escribiera antes Claude Bernard, es preciso desembarazarse de los sistemas filosóficos y científicos, como podría arrancarse las cadenas a una esclavitud intelectual. Esta liberación no se ha realizado aun. Los biólogos, y sobre todo los educadores, los economistas y los sociólogos, se encuentran frente a problemas de una complicación extrema, cediendo a menudo a la tentación de construir hipótesis, para elaborar en seguida artículos de fe. Los sabios se han mantenido inmovilizados en fórmulas tan rígidas como los dogmas de una religión. En todas las ciencias encontramos el recuerdo embarazoso de semejantes errores. Uno de los más célebres, ha dado lugar a la gran querella de bis vitalistas y los mecanicistas cuya futilidad nos sorprende hoy día. Los vitalistas pensaban que el organismo era una máquina cuyas partes se integraban gracias a un factor no físico-químico. Después de ellos, los procesos responsables de la unidad del ser viviente, se dirigieron por un principio independiente, una entelequia, una idea análoga a la del ingeniero que construye una máquina. Este agente autónomo, no era una forma de energía y no creaba energía. No se ocupaba sino de la dirección del organismo. Evidentemente, la entelequia no es un concepto operacional. Es una pura construcción del espíritu. En suma, los vitalistas consideraban el cuerpo como una máquina dirigida por un ingeniero a quien llamaban entelequia. Y no se daban cuenta de que este ingeniero, esta entelequia, no era otra cosa que su propia inteligencia. En cuanto a los mecanicistas, creían que todos los fenómenos fisiológicos y psicológicos son explicables por las leyes de la física, de la química y de la mecánica. Construían también, de esa manera, una máquina de la cual ellos venían a ser el ingeniero. En seguida, como lo hace notar Woogger, olvidaban la existencia de este ingeniero. Este concepto no es operacional. Es evidente que el mecanicismo y el vitalismo deben ser dejados de lado por las mismas razones que debe dejarse de lado otro sistema cualquiera. Hace falta al mismo tiempo liberarnos de la masa de ilusiones, errores, observaciones mal hechas, falsos problemas perseguidos por los débiles de espíritu de la ciencia, los pseudo-descubrimientos de los charlatanes y los sabios celebrados por la prensa cotidiana. Y también, de aquellos trabajos tristemente inútiles, largos estudios de cosas sin significación, inextricable confusión que se levanta como una montaña, desde que la investigación científica se ha convertido en profesión, como la de los maestros de escuela, pastores y empleados de banco.
Hecha, ya esa eliminación, nos quedan los resultados de los pacientes esfuerzos de todas las ciencias que se ocupan del hombre, y el tesoro de observaciones y experiencias que ellas han acumulado. Basta con buscar en la historia de la humanidad, para encontrar la expresión más o menos neta de todas estas actividades fundamentales. Al lado de las observaciones positivas y de los hechos evidentes, hay una cantidad de cosas que no son ni positivas ni evidentes y que no deben ser, sin embargo, rechazadas. Ciertamente, los conceptos operacionales solos permiten colocar el conocimiento del hombre sobre una base sólida. Pero, únicamente también, la imaginación creadora puede inspirarnos las conjeturas y los ensueños de donde deberá nacer el plan de las construcciones futuras. Es preciso, pues, continuar haciéndonos preguntas que, desde el punto de vista de la sana crítica científica, no tienen sentido alguno. Por otra parte, aunque procuráramos prohibir a nuestro espíritu la investigación de lo imposible y de lo inconocible, no lo lograríamos. La curiosidad es una necesidad de nuestra naturaleza humana. Es un impulso ciego, que no obedece a regla alguna. Nuestro espíritu se infiltra en torno de las cosas del mundo exterior y en las profundidades de nosotros mismos, de manera tan irresistible y carente de razón, como explora un ratoncillo con ayuda, de sus patitas hábiles los menores detalles del sitio donde está encerrado. Es esta curiosidad quien nos fuerza a descubrir el universo. Nos arrastra irresistiblemente en su persecución por lo más desconocidos caminos. Y las montañas infranqueables se desvanecen ante ellas como el humo dispersado por el viento.

II
Es indispensable hacer un inventario completo.– Ningún aspecto del hombre debe parecernos privilegiado.– Evitar dar una importancia exagerada a alguna parte del mismo con perjuicio de las otras.– No limitarse a lo que es sencillo.– No suprimir lo que es inexplicable.– El método científico es aplicable a toda la extensión del ser humano.

Es indispensable hacer de nosotros mismos un examen completo. La pobreza de los esquemas clásicos proviene de que, a pesar de la extensión e nuestros conocimientos, jamás nos hemos observado de una manera general. En efecto, no se trata de coger el aspecto que presenta el hombre en cierta época o en ciertas condiciones de vida, sino de conocerlo en todas sus actividades, aquellas que se manifiestan ordinariamente y también aquellas que pueden permanecer virtuales. Una información tal no es obtenible sino por la investigación cuidadosa en el mundo presente y en el pasado, manifestaciones de nuestros poderes orgánicos y mentales, e igualmente, por un examen a la vez analítico y sintético de nuestra constitución y de nuestras relaciones físicas, químicas y psicológicas con el medio exterior. Es preciso seguir el sabio consejo de Descartes en el “Discurso del Método” dado a aquellos que buscan la verdad, y dividir nuestro sujeto en tantas partes corno sea necesario, para hacer de cada una de ellas un inventario completo. Pero debemos saber, al mismo tiempo, que esta división no es sino un artículo metodológico, que está creado por nosotros y que el hombre permanece siendo un todo indivisible.
No hay territorios privilegiados. En la inmensidad de nuestro mundo interior, todo tiene un significado. No podemos escoger únicamente lo que nos conviene a gusto de nuestros sentimientos; de nuestra fantasía, de la forma científica y filosófica de nuestro espíritu. La dificultad o la oscuridad de un objeto no es razón suficiente para abandonarle. Deben emplearse todos los métodos. Lo cualitativo es tan verdadero como lo cuantitativo. Las relaciones expresables en lenguaje matemático no poseen una realidad mayor que las que no lo son. Darwin, Claude Bernard y Pasteur que no pudieron describir sus descubrimientos con fórmulas algebraicas, fueron tan grandes sabios como Newton y Einstein. La realidad no es necesariamente clara, y sencilla. No podemos tener la seguridad de que sea siempre inteligible para nosotros. Por lo demás, se presenta bajo formas infinitamente variadas. Un estado de conciencia, el hueso húmero, una llaga, son cosas igualmente verdaderas. Un fenómeno no logra su interés por la facilidad con la cual nuestros técnicos se aplican a su estudio. Debe ser juzgado en función, no de observador y de sus métodos, sino de sujeto, de ser humano. El dolor de la madre que ha perdido a su hijo, la angustia del alma mística sumergida en la noche oscura, el sufrimiento del enfermo devorado por un cáncer, son de una evidente realidad, aunque no sean mensurables. No tenemos derecho mayor de abandonar el estudio de los fenómenos de clarividencia que los de la cronaxia de los nervios, bajo el pretexto de que la clarividencia no se produce a voluntad y no se mide, mientras que la cronaxia puede medirse con un método científico. Es preciso servirse en este inventario de todos los medios posibles y contentarse con observar, lo que no puede medirse.
Sucede a menudo que se da una importancia exagerada a cualquier parte a costa de las otras. Estamos obligados a considerar en el hombre sus . diferentes aspectos: físico-químico, anatómico, fisiológico, metapsíquico; intelectual, moral, artístico, espiritual, económico, social, etc. Cada sabio, gracias a una deformación social bien conocida, se imagina que conoce al ser humano mientras que, en realidad, no ha cogido de él sino una parte minúscula. Los aspectos más fragmentarios se consideran como capaces de expresar el todo. Y estos aspectos son tomados al azar de la moda que, de cuando en cuando, da más importancia, al individuo que a la sociedad, a los apetitos fisiológicos o a las actividades espirituales, a la potencia del músculo o a la del cerebro, a la, belleza o a la utilidad, etc. Es por ello que el hombre se nos aparece con múltiples facetas. Elegimos arbitrariamente entre éstas las que nos convienen y olvidamos a las otras.
Otros de los errores consiste en cercenar del inventario parte de la realidad. Y ello se debe a multitud de causas. Estudiamos con preferencia los sistemas fácilmente aislables, aquellos que son únicamente abordables por métodos sencillos. Abandonamos, en cambio, los más complejos. Nuestro espíritu gusta de la precisión y de la seguridad de las soluciones definitivas. Existe en él una tendencia casi irresistible a elegir los sujetos de estudio, más por su facilidad técnica y su claridad, que por su importancia. Por esta razón, los fisiólogos modernos se ocupan sobre todo de los fenómenos físico-químicos que se observan en los animales vivos y abandonan los procesos fisiológicos y la psicología. Lo mismo, los médicos se especializan en sujetos cuyas técnicas son sencillas y ya conocidas, mucho más que en el estudio de las enfermedades degenerativas, de las neurosis y las psicosis que exigirían la intervención de la imaginación y la creación de nuevos métodos. Cada cual sabe, sin embargo, que el descubrimiento de algunas leyes de la organización de la materia viva, sería más importante que, por ejemplo, la del ritmo de las pestañas vibrátiles de las células de la tráquea. Sin duda alguna valdría, mucho más emancipar a la humanidad del cáncer, de la tuberculosis, de la arterioesclerosis, de la sífilis y de los males innumerables aportados por las enfermedades mentales y nerviosas, que absorberse en el estudio minucioso de los fenómenos físico-químicos de importancia secundaria que se producen en el curso de las enfermedades. Las dificultades técnicas son las que nos conducen a veces a eliminar ciertos sujetos del dominio de la investigación científica y a rehusarles el derecho de hacerse conocer por nosotros.
A veces, los hechos más importantes son completamente suprimidos. Nuestro espíritu tiene una tendencia natural a arrojar a un lado, lo que no entra en el cuadro de las creencias científicas o filosóficas de nuestra época. Los sabios, después de todo, son hombres. Están impregnados, por lo tanto, por los prejuicios de su medio y de su tiempo. Creen de buena fe que lo que no es explicable por las teorías corrientes, no existe. Durante el período en que la fisiología se encontraba identificada a la físico-química, el período de Jacques Loeb y de Bayliss, el estudio de los fenómenos mentales se abandonó. Nadie se interesaba en la psicología y en las enfermedades del espíritu. Aun hoy día, la telepatía y los otros fenómenos metapsíquicos se consideran como ilusiones por los sabios que se interesan únicamente en el aspecto físico-químico de los procesos fisiológicos. Los hechos más evidentes son ignorados cuando tienen una apariencia heterodoxa. Por todas estas razones el inventario de las cosas capaces de conducirnos a una concepción mejor del ser humano ha permanecido incompleto. Es preciso, pues, volver a la observación ingenua de nosotros mismos bajo todos nuestros aspectos, no abandonar ningún detalle, y describir sencillamente lo que vemos.
En principio, el método científico no parece aplicable al estudio de la totalidad de nuestras actividades. Es evidente que nosotros, los observadores, no somos capaces de penetrar en todas la regiones en que se prolonga la persona humana. Nuestras técnicas no cogen lo que no tienen dimensiones ni peso. No alcanzan sino las cosas colocadas en el espacio y el tiempo. Son impotentes para medir la, vanidad, el odio, el amor, la belleza, la elevación hacia Dios del alma religiosa, el ensueño del sabio y el del artista. Pero registran con facilidad el aspecto fisiológico y los resultados materiales de esos estados psicológicos. El juego frecuente de las actividades mentales y espirituales, se expresa por cierto comportamiento, ciertos actos, cierta actitud hacia nuestros semejantes. De este modo es como las actividad moral, estética, mística, pueden ser exploradas por nosotros, Tenemos también a nuestra disposición los relatos de aquellos que han viajado en esas regiones desconocidas. Pero la expresión verbal de sus experiencias es, en general, desconcertante. Aparte del dominio intelectual, nada es definible de manera clara. Ciertamente, la imposibilidad de medir una cosa no significa su no existencia. Cuando se navega en la niebla, las rocas invisibles no están por ello menos presentes. De cuando en cuando, sus contornos amenazantes aparecen de súbito. En seguida la nube se cierra sobre ellas. Lo mismo ocurre con la realidad evanescente de las visiones de los artistas y sobre todo de los grandes místicos. Estas cosas, inasibles por medio de nuestras técnicas, dejan sin embargo sobre los iniciados una visible huella. De esta manera indirecta es como la ciencia conoce el mundo espiritual donde, por definición, no puede penetrar. El ser humano se encuentra, pues, entero, en la jurisdicción de las técnicas científicas.

III

Es preciso desarrollar una ciencia verdadera del hombre.– esta es más necesaria que las ciencias mecánicas, físicas y químicas.– Su carácter analítico y sintético.

En suma, la critica de los conocimientos que poseemos nos proporciona nociones positivas y numerosas. Gracias a estas nociones, podemos hacer un inventario completo de nuestras actividades. Este inventario nos permitirá construir esquemas más ricos que los esquemas clásicos.
Pero el progreso así obtenido no será muy grande. Es preciso ir más lejos y edificar una ciencia verdadera del hombre. Una ciencia que, con ayuda de todas las técnicas conocidas, haga una exploración más profunda de nuestro mundo interior, y realice también la necesidad de estudiar cada parte en función del conjunto. Para desarrollar una ciencia tal, sería necesario, durante algún tiempo, alejar nuestra atención de los progresos mecánicos, y aun en cierta medida, de la higiene clásica, de la medicina, y del aspecto puramente material de nuestra existencia. Cada cual se interesa en lo que aumenta la riqueza y el confort, pero nadie se da cuenta de que es indispensable mejorar la calidad estructural, funcional y mental de cada uno de nosotros. La salud de la inteligencia y de los sentimientos afectivos, la disciplina moral y el desarrollo espiritual son tan necesarios como la salud orgánica y la prevención de las enfermedades infecciosas.
No existe ninguna ventaja en aumentar el número de las invenciones mecánicas. Quizás, incluso. sería conveniente dar menos importancia a los descubrimientos de la física, d e la astronomía y de la química. Ciertamente, la ciencia pura no nos aporta jamás directamente el mal. Pero se torna peligrosa cuando, por su belleza fascinadora, encierra por completo nuestra inteligencia en la materia inanimada. La humanidad debe hoy día concentrar su atención sobre sí misma y sobre las causas de su incapacidad moral e intelectual. ¿A qué aumentar el confort, el lujo, la belleza, la grandeza y la complicación de nuestra civilización si nuestra, debilidad no nos permite dirigirla? – Es realmente inútil continuar la elaboración de un modo de existencia que trae consigo la desmoralización y la desaparición de los elementos más nobles de las grandes razas. Valdría más ocuparnos de nosotros mismos que construir enormes telescopios para explicar la estructura de las nebulosas, fabricar barcos rapidísimos, automóviles de un confort supremo, radios maravillosas. ¿Cuál será el progreso verdadero que lleguemos a obtener cuando los aviones nos transporten en escasas horas a Europa o a la China? ¿Es acaso necesario aumentar sin cesar la producción, a fin de que los hombres consuman una cantidad más y más grande de cosas inútiles? No son las ciencias mecánicas, físicas y químicas las que nos aportarán la moralidad, la inteligencia, la salud, el equilibrio nervioso, la, seguridad, la paz.
Hace falta que nuestra curiosidad se encamine por rutas diferentes a aquellas por donde hasta ahora ha marchado. Debe dirigirse de lo físico y de lo fisiológico hacia lo mental y lo espiritual. Hasta el presente, las ciencias de las cuales se, ocupan los seres humanos, han limitado su actividad sólo a, ciertos aspectos de ellas mismas. No han logrado sustraerse a la influencia del dualismo cartesiano. Han estado dominadas por el mecanicismo. En filosofía, en higiene, en medicina, lo mismo que en el estudio de la pedagogía o de la economía política y social, la atención de los investigadores ha sido atraída sobre todo por el aspecto orgánico, humoral o intelectual del hombre. No se ha detenido en su forma afectiva y moral, en su vida interior, en su carácter, en sus necesidades estéticas y religiosas, en el “substratum” común de los fenómenos orgánicos y psicológicos, en las relaciones profundas del individuo y de su medio mental y espiritual. Hace falta, pues, un cambio radical de orientación. Ese cambio exige, a la vez, especialistas dedicados a las ciencias particulares que se han dividido nuestro cuerpo y nuestro espíritu, y sabios capaces de reunir, en conjunto, los descubrimientos de los especialistas. La ciencia nueva debe progresar, por un doble esfuerzo de análisis y de síntesis, hacia una concepción del hombre bastante completa y simple para servir de base a nuestra acción.

IV
Para analizar al hombre hacen falta multitud de técnicas.– Son las técnicas las que han creado la división del hombre en partes.– Los especialistas.– Sus peligros.– Fragmentación indefinida del sujeto.– La necesidad de sabios no especializados.– Cómo mejorar los resultados de las investigaciones.– Disminución del número de sabios y establecimiento de condiciones propias a la creación intelectual.

El hombre no es divisible en partes. Si se aislasen sus órganos unos de otros, dejaría de existir. Aunque indivisible, presenta aspectos diversos. Sus aspectos son la manifestación heterogénea de su unidad a nuestros órganos de los sentidos. Puede compararse a una lámpara eléctrica que se muestra bajo formas diferentes a un termómetro, a un voltímetro y a una placa fotográfica. No somos capaces de tomarlo entero directamente en su sencillez. Le asimos por medio de nuestros sentidos y de nuestros aparatos científicos. Siguiendo. nuestros medios de investigación, su actividad nos aparece como física, química, fisiológica o psicológica. A causa de su propia riqueza, exige ser analizado por técnicas variadas. Al expresarse a nosotros por intermedió de estas técnicas adquiere naturalmente la apariencia de la multiplicidad.
La ciencia del hombre se sirve de todas las otras ciencias. Es una de las razones de su dificultad. Para estudiar, por ejemplo, la influencia de un factor psicológico sobre un individuo sensible, hace falta, emplear los procedimientos de la medicina, de la fisiología, de la física y de la química. Supongamos, por ejemplo, que una mala noticia se le anuncie a alguien. Este suceso psicológico puede traducirse a la vez por un sufrimiento moral, por trastornos nerviosos, por desórdenes de la circulación sanguínea, por modificaciones físico-químicas de la sangre, etc. En el hombre, la más sencilla de las experiencias exige el uso de métodos y de conceptos de muchas ciencias a la vez. Si se desea examinar el efecto de cierto alimento animal o vegetal sobre un grupo de individuos, es preciso conocer primero la composición química de este alimento. Y en seguida, el estado fisiológico y psicológico de los individuos sobre los cuales deben conducirse estos estudios, y sus caracteres ancestrales. En fin, en el curso de la experiencia se registran las modificaciones de peso, de la talla, de la forma del esqueleto, de la fuerza muscular, de la susceptibilidad a las enfermedades, de los caracteres físicos, químicos y anatómicos de la sangre, de equilibrio nervioso, de la inteligencia, del valor, de la fecundidad, de la longevidad, etc.
Es evidente que ningún sabio es capaz, por sí solo, de alcanzar la maestría en las técnicas necesarias para el estudio de un solo problema humano. Asimismo, el progreso del conocimiento de nosotros mismos exige especialistas variados. Cada, especialista se, absorbe en el estudio de una parte del cuerpo o de la conciencia, o de sus relaciones con el medio. Es anatomista, fisiólogo, químico, psicólogo, médico, higienista, educador, sacerdote, sociólogo, economista. Y cada especialidad se divide en trozos más y más pequeños. Existen especialistas para la fisiología de las glándulas, para las vitaminas, para las enfermedades del recto, para la educación de los niños pequeños, para la de los adultos, para la higiene de las fábrica, para la de las prisiones, para la psicología de todas las categorías de individuos, para la economía doméstica, para la economía rural, etc. etc. Y gracias a, la división del trabajo, se han desarrollado las ciencias particulares, la especialización de los sabios es indispensable. Le resulta imposible a un especialista, engolfado activamente en la prosecución de su propia tarea, conocer el conjunto del ser humano. Esta situación se ha hecho necesaria por la enorme extensión de cada ciencia. Pero ofrece ciertos peligros. Por ejemplo, Calmette, que se había, especializado en la bacteriología, quiso impedir la propagación de la tuberculosis entre la población de Francia. Naturalmente, prescribió el empleo de la vacuna que había inventado. Si, en lugar de ser un especialista, hubiese tenido conocimientos más generales de higiene y de medicina, habría aconsejado medidas que interesaran, a la vez, a la habitación, la alimentación, el modo de trabajo y los hábitos de vida de las gente. Un hecho análogo se produjo en Estados Unidos en la organización de las escuelas primarias. John Dewey, que es un filósofo, emprendió la tarea de mejorar la educación de los niños. Pero sus métodos se dirigieron únicamente al esquema, niño que su deformación profesional le representaba. ¿Cómo una educación tal podría convenir al niño concreto?
La especialización extrema de los médicos es más peligrosa aún. El ser humano enfermo, ha sido dividido en pequeñas regiones. Cada región tiene su especialista. Cuando aquél se dedica, desde el principio de su carrera, a una parte minúscula del cuerpo, permanece hasta tal punto ignorante del resto, que no es capaz de conocer bien esta parte. Fenómenos análogos se producen en los educadores, los sacerdotes, los economistas y los sociólogos que se niegan a iniciarse en un conocimiento general del hombre, antes de limitarse a su campo particular. La eminencia misma de un especialista lo vuelve más peligroso. A menudo los sabios que se han distinguido de modo extraordinario por grandes descubrimientos, o por invenciones útiles, llegan a creer que sus conocimientos acerca de un objeto, se extienden a todos los otros. Edison, por ejemplo, no dudaba en dar parte al público de sus puntos de vista sobre filosofía y religión. Y el público acogía su palabra con respeto, figurándose que tenía, sobre estos nuevos asuntos, la misma autoridad que sobre los antiguos. Y así es como, grandes hombres, al ponerse a enseñar cosas que ignoran, retardan en alguno de sus dominios el progreso humano, al cual han contribuido en otro. La prensa cotidiana nos obsequia a menudo con lucubraciones sociológicas, económicas y científicas, de industriales, banqueros, abogados, profesores, médicos, etc. cuyo espíritu demasiado especializado es incapaz de coger, en toda su amplitud, los grandes problemas de la hora presente. Ciertamente, los especialistas son necesarios. La ciencia no puede progresar sin ellos, pero la aplicación al hombre del resultado de sus esfuerzos, exige la síntesis previa de los conocimientos dispersos del análisis.
Tal síntesis no puede lograrse por la simple reunión de un grupo de especialistas en torno de una mesa. Reclama el esfuerzo, no de un grupo sino de un hombre. Jamás una obra de arte ha sido hecha por un comité de artistas, ni un gran descubrimiento por un comité de sabios. Las síntesis de que tenemos necesidad para el progreso del conocimiento de nosotros mismos deben elaborarse en un cerebro único. Hoy día, los conocimientos acumulados por los especialistas permanecen inutilizables. Porque nadie coordina las nociones adquiridas, ni se enfrenta con el ser humano en su conjunto total. Poseemos muchos trabajadores científicos pero pocos sabios verdaderos. Esta situación singular no proviene de la ausencia de individuos capaces de un gran esfuerzo intelectual. Ciertamente, las vastas síntesis exigen mucho poder mental y una resistencia física a toda prueba. Los espíritus amplios y fuertes son más raros que los precisos y estrechos. Es fácil llegar a ser un gran químico, un buen físico, un buen biólogo, o un buen psicólogo. Pero, exclusivamente, los hombres excepcionales son capaces de adquirir un conocimiento que se pueda utilizar en numerosas ciencias a la vez. Sin embargo, existen tales hombres. Entre los que nuestras instituciones científicas y universitarias han forzado a especializarse con excesiva estrechez, algunos serían capaces de asir un objeto importante en su conjunto al mismo tiempo que en sus partes. Hasta el presente, se ha favorecido siempre a los trabajadores científicos que se aíslan en estrecho campo, entregándose al estudio prolongado de un detalle, a veces insignificante. A un trabajo original sin importancia se lo considera de un valor superior al del conocimiento profundo de toda una ciencia. Los presidentes de universidades y sus consejeros, no comprenden que los espíritus sintéticos son tan indispensables como los espíritus analíticos. Si la superioridad de este tipo intelectual fuere reconocida y se favoreciese su desarrollo, los especialistas dejarían de ser peligrosos. Porque la significación de las partes en la construcción del conjunto podría ser evaluada justamente.
En los comienzos de su historia, más que en su apogeo, tiene una ciencia necesidad de espíritus superiores. Por ejemplo, hace falta más imaginación, juicio e inteligencia para convertirse en un gran médico que para llegar a ser un gran químico. En estos momentos, el conocimiento del hombre no puede progresar si no es atrayendo hacia su estudio una poderosa “élite” intelectual. Debemos exigir altas capacidades mentales a los jóvenes que desean consagrarse a la biología. Parece que el exceso de la especialización, el aumento del número de trabajadores científicos, y su disgregación en sociedades limitadas al estudio de un sujeto pequeño, han conducido a un retroceso de la inteligencia. Es verdad que la calidad de un grupo humano disminuye cuando su volumen aumenta más allá de ciertos límites. La Corte Suprema de los Estados Unidos so compone de nueve hombres verdaderamente eminentes por su habilidad profesional y por su carácter. Pero si se compusiera de novecientos juristas en lugar de nueve, el público perdería, en seguida y con razón, el respeto que siente por ella.
El mejor medio de aumentar la inteligencia de los sabios sería disminuir su número. Bastaría con un grupo muy pequeño de hombres de esta especie para desarrollar los conocimientos de los cuales tenemos necesidad, si estos hombres estuviesen dotados de imaginación, y dispusieran de potentes medios de trabajo. Cada año derrochamos grandes sumas de dinero en investigaciones científicas porque aquellos a quienes estas investigaciones les son confiadas no poseen en grado bastante alto las cualidades indispensables a los conquistadores de nuevos mundos. Y también, porque los raros hombres que poseen estas cualidades se encuentran situados en condiciones de vida en que la creación intelectual es imposible. Ni los laboratorios, ni los aparatos científicos, ni la excelencia de la organización del trabajo, procuran, ellos solos, al sabio el medio que le es necesario. La vida moderna se contrapone a la vida del espíritu. Los hombres de ciencia se encuentran sumidos en una muchedumbre cuyos apetitos son puramente materiales y cuyas costumbres son enteramente diferentes a las suyas. Desgastan sus fuerzas inútilmente y pierden gran parte de su tiempo en la persecución de las condiciones indispensables para el trabajo del pensamiento. Ninguno de ellos es bastante rico para procurarse el aislamiento y el silencio que cada cual podía obtener antes y de manera gratuita, aún en las grandes ciudades. No se ha ensayado hasta el presente crear, en medio de la agitación de la ciudad moderna, islotes de soledad donde sea posible la meditación. Sin embargo la innovación se impone. Las altas construcciones sintéticas están fuera del alcance de aquellos cuyo espíritu se dispersa cada día en la confusión de los modos de vida actuales. El desarrollo de la ciencia del hombre, más aun que el de otras ciencias, depende de un inmenso esfuerzo intelectual. Reclama una revisión, no sólo de nuestra concepción del sabio, sino también de las condiciones en las cuales se efectúa la investigación científica.

V
La observación y la experiencia en la ciencia del hombre.– La dificultad de las experiencias comparativas.– La lentitud de los resultados.– Utilización de los animales.– Las experiencias hechas sobre animales de inteligencia superior.– La organización de las experiencias de larga duración.

Los seres humanos se prestan mal a la observación y a la experiencia. No se encuentra fácilmente entre ellos testimonios idénticos a la materia a tratar y a quienes puedan referirse los resultados finales. Supongamos, por ejemplo, que se pretende comparar dos métodos de educación. Se elegirán, para este estudio, grupos de niños tan semejantes como sea posible. Si estos niños, aunque de la misma edad y de la misma talla, pertenecen a medios sociales diferentes, si no se alimentan de la misma manera, si no viven en la misma atmósfera psicológica, los resultados no serán comparables. De igual modo, el estudio de los efectos de dos formas de vida sobre los niños de una misma familia tiene escaso valor, porque no siendo puras las razas humanas, los productos de los mismos padres difieren a menudo los unos de los otros de una manera profunda. Por el contrario, los resultados serán convincentes si los niños, cuyo comportamiento se compara, bajo la influencia de condiciones diferentes, son gemelos que provienen del mismo huevo. Se está, pues, en general, obligado a contentarse con resultados vagos o relativos. Esta es una de las razones por lo cual la ciencia del hombre ha progresado tan lentamente.
En las investigaciones que se refieren a la física o a la química, y también a la fisiología, se procura siempre aislar sistemas relativamente sencillos cuyas condiciones se conocen con exactitud. Pero, cuando se procura estudiar al hombre en su conjunto, y en las relaciones con su medio, esto es imposible. También debe el observador estar provisto de gran sagacidad a fin de no perderse en la complejidad de los fenómenos. Las dificultades resultan casi infranqueables en los estudios retrospectivos. Estas investigaciones exigen un espíritu muy alerta. Por cierto, hace falta recurrir rara vez a la ciencia de la conjetura que es la historia. Pero han habido, en el pasado, ciertos sucesos q e revelan la existencia en el hombre de potencias extraordinarias. Sería importante conocer su génesis. ¿Cuáles son, por ejemplo, los factores que determinaron en la época de Pericles la aparición simultánea de tantos genios? Un fenómeno análogo se produjo durante el Renacimiento. ¿A qué causas es preciso atribuir el florecimiento inmenso, no sólo de la inteligencia, de la imaginación científica y de la intuición estética, sino también del vigor físico, de la audacia, y del espíritu de aventura, de los hombres de esa época? ¿Por qué nacieron dotados de tan poderosas actividades fisiológicas y mentales? Se concibe cuán útil resultaría conocer los detalles del modo de vivir, de la alimentación, de la educación, del medio intelectual, moral, estético y religioso de las épocas que precedieron inmediatamente a la aparición de pléyades de grandes hombres.
Otra de las dificultades de las experiencias hechas sobre seres humanos proviene de que el observador y el objeto observado viven al mismo ritmo. Los efectos de una clase de alimentación determinada, de una disciplina intelectual o moral, de un cambio político o social son tardíos. Sólo al cabo de treinta o cuarenta años se puede apreciar el valor de un método educacional. La influencia de un factor dado sobre las actividades fisiológicas y mentales de un grupo humano no se hacen manifiestas sino después del paso de una generación. Los éxitos atribuidos a su propia invención por los autores de sistemas de alimentación nuevas, de cultura física, de higiene, de educación, de moral, de economía social, se publican siempre con excesiva premura. Sólo hoy podrían analizarse con fruto los resultados del sistema Montessori, o de los procedimientos educacionales de John Dewey. Hay que esperar veinticinco años para conocer la significación de los “intelligence-tests”, hechos estos últimos años en las escuelas por los psicólogos. Solamente siguiendo a un gran número de individuos a través de las vicisitudes de su vida y hasta. su muerte podría conocerse, y aun de manera groseramente aproximada, el efecto ejercido sobre ellos por ciertos factores.
La marcha de la humanidad nos parece muy lenta puesto que nosotros, los observadores, formamos parte del rebaño. Cada uno de nosotros no puede hacer por sí mismo sino escasas observaciones. Nuestra vida es demasiado corta. Y existen experiencias que deberían ser prolongadas a lo menos durante un siglo. Sería necesario crear instituciones tales que las observaciones y experiencias no fueran interrumpidas por la muerte del sabio que los comenzó. Y tales organizaciones son desconocidas aun en el dominio científico. Sin embargo revisten ya para otro género de disciplinas. En el monasterio de Solesmes, tres generaciones sucesivas de monjes benedictinos, en el curso de más o menos cincuenta y cinco años, se han ocupado en reconstituir el canto gregoriano. Un método análogo podría ser aplicable al estudio de los problemas de la biología humana. Es preciso suplir la duración excesivamente corta de la vida de cada observador, por medio de instituciones, en cierta forma inmortales, que permitan la continuidad, tan prolongada como fuese necesario, de una experiencia. A la verdad, ciertas nociones de necesidad urgente pueden adquirirse con ayuda de animales cuya vida es corta. Para este objeto se han empleado particularmente ratas y cuyes. Colonias compuestas de muchos millares de estos animales han servido para el estudio de los alimentes, de su influencia sobre la rapidez del desarrollo, la talla, las enfermedades, la longevidad. Desgraciadamente, los cuyes y las ratas no presentan sino analogías lejanas con el hombre. Es peligroso, por ejemplo, aplicar a los niños las conclusiones de investigaciones hechas sobre otros animales cuya constitución es demasiado diferente a la suya. Por lo demás, no es posible estudiar de esta manera, las modificaciones fisiológicas que acompañan los cambios anatómicos y funcionales sufridos por el esqueleto, los tejidos y los humores bajo la influencia del alimento, del género de vida, etc. Al contrario, los animales más inteligentes, tales como los monos y los perros, nos permitirían analizar los factores de la formación mental.
Los monos, a despecho de su desarrollo cerebral, no resultan materia buena de experiencia. En efecto, no se conoce el “pedigree” de los individuos de los cuales se sirve. No se les puede educar fácilmente ni en número suficientemente grande. Son difíciles de manejar. Al contrario, es fácil procurarse perros muy inteligentes, cuyos caracteres ancestrales son exactamente conocidos. Estos animales se reproducen con rapidez. Son adultos al cabo de un año. La duración total de su vida no se prolonga, en general, más allá de quince años. Pueden hacerse en ellos observaciones psicológicas muy detalladas, sobre todo en los perros pastores, que son sensibles, inteligentes, alertas y atentos. Gracias a animales de este tipo, de pura raza y en suficiente número, sería posible dilucidar el problema tan complejo de la influencia del medio sobre el individuo. Por ejemplo, debemos buscar la manera de obtener el desarrollo óptimo de individuos que pertenezcan a una raza dada, averiguar cuál es su talla normal, qué aspecto es preciso imprimirles. Tenemos que descubrir cómo el modo de vida y la alimentación moderna operan sobre la resistencia nerviosa de los niños, sobre su inteligencia, su actividad, su audacia. Una vasta experiencia conducida durante veinte años con muchos centenares de perros pastores nos informaría sobre estas materias tan importantes. Esta experiencia nos indicaría, con más rapidez que la observación sobre seres humanos, en qué dirección es preciso modificar la alimentación y el género de vida. Reemplazaría de manera ventajosa las experiencias fragmentarias y de demasiado corta duración con que se contentan hoy día los especialistas de la nutrición. Seguramente no podría substituirse del todo a las observaciones hechas sobre los hombres. Para el desarrollo de un conocimiento definitivo, haría falta establecer sobre grupos humanos experiencias capaces de prolongarse durante muchas generaciones de sabios.

VI
Reconstitución del ser humano.– Cada fragmento debe ser considerado en sus relaciones con el todo.– Los caracteres de una síntesis utilizable.

Para adquirir un conocimiento mejor de nosotros mismos no basta con elegir en la masa de los conocimientos que ya poseemos aquellos que son positivos, y hacer con su ayuda un inventario completo de las actividades humanas. No basta tampoco con precisar de antemano por medio de nuevas observaciones y experiencias y edificar así una verdadera ciencia del hombre. Hace falta, sobre todo, gracias a estos documentos, construir una síntesis que pueda utilizarse.
En efecto, el fin de este conocimiento no es satisfacer nuestra curiosidad sino reconstruirnos a nosotros mismos y modificar nuestro medio en un sentido que nos sea favorable. Este fin es, en cierto modo, práctico. No nos serviría, pues, para nada, acumular una cantidad de conocimientos nuevos, si estos conocimientos habrían de permanecer dispersos en el cerebro y en los libros de los especialistas. La posesión de un diccionario, no da a su propietario la cultura literaria o filosófica. Es preciso que nuestras ideas se reúnan en un todo viviente en la inteligencia y la memoria de algunos individuos. Así, los esfuerzos que la humanidad ha hecho y hará todavía para conocerse mejor, resultarán fecundos. La ciencia de nosotros mismos vendrá a ser la ciencia del porvenir. Por e! momento, debemos contentarnos con una iniciación a la vez analítica y sintética en los caracteres del ser humano que la crítica científica nos da a conocer como reales. En las páginas siguientes, el hombre se nos presentará, tan ingenuamente como se presenta al observador y a sus técnicas. Le veremos en forma de fragmentos recortados por estas técnicas. Como sea posible, estos fragmentos volverán a ser colocados en el conjunto. Por supuesto, un conocimiento tal es muy insuficiente, pero es seguro. No contiene elementos metafísicos. Es igualmente empírico, porque la elección y el orden de las observaciones, no son guiadas por principio alguno. No tratamos de probar o negar ninguna teoría. Los diferentes aspectos del hombre están considerados tan ingenuamente como, en el curso de ascensión de una montaña, se miran las rocas, los torrentes, las praderas o los pinos, y aun desde el fondo del valle mismo, la claridad de las cimas. Al azar del camino en ambos casos, se hacen las observaciones. Sin embargo, estas observaciones son científicas. Constituyen un cuerpo más o menos sistematizado de conocimientos. Evidentemente no poseen la precisión de las de los astrónomos o de las de los físicos. Pero son tan exactas como lo permiten las técnicas empleadas y la naturaleza del objetivo al cual se aplican estas técnicas. Se sabe, por ejemplo, que los hombres están provistos de memoria y de sentido estético y también que el páncreas secreta insulina; que ciertas enfermedades dependen de lesiones del cerebro, que ciertos individuos manifiestas fenómenos de clarividencia. Se pueden medir la memoria y la actividad de la insulina, pero no la emoción estética y el sentido moral. Las relaciones de las enfermedades mentales y del cerebro, las características de la clarividencia, no son susceptibles de un estudio exacto. Sin embargo, todos estos conocimientos, aunque aproximados, son efectivos.
Se puede reprochar a este conocimiento el ser trivial e incompleto. Es trivial, porque el cuerpo y la conciencia, la duración, la adaptación, la individualidad, son bien conocidos por los especialistas de la anatomía, de la fisiología, de la psicología, de la metapsíquica, de la higiene, de la medicina, de la educación, de la religión y de la sociología. Es incompleto, porque en el número inmenso de los hechos estamos obligados a elegir, y esta elección es necesariamente arbitraria. Se limita a lo que nos parece más importante. Descuida el resto, porque la síntesis debe ser corta y susceptible de ser cogida con una sola mirada. Parece, pues, que, para ser útil, nuestro conocimiento debe ser incompleto. Por lo demás, es la seducción de los detalles, y no su número, lo que da a un retrato su parecido. El carácter de un individuo puede ser expresado con mucha más fuerza por un dibujo que por una fotografía. No trataremos de nosotros mismos, sino groseros bocetos, como esas figuras anatómicas trazadas con tiza en una pizarra. A pesar de la supresión intencional de los detalles, tales diseños resultarán exactos. Estarán inspirados en conocimientos positivos y no sólo en teorías y esperanzas. Ignorarán el vitalismo y el mecanicismo, el realismo y el nominalismo, el alma y el cuerpo, el espíritu y la materia. Pero contendrán, en cambio, todo lo que es observable y los hechos inexplicables que las concepciones clásicas dejan en la oscuridad. En efecto, no descuidaremos los fenómenos que rehúsan entrar en los límites de nuestro pensamiento habitual, pues nos conducirán tal vez a regiones hasta el momento ignoradas por nosotros. Comprenderemos en nuestro inventario todas las actividades manifestadas y manifestables por el individuo humano.


Nos iniciaremos así en el conocimiento de nosotros mismos que es únicamente descriptivo y aun muy próximo a lo concreto. Este conocimiento no tiene sino pretensiones modestas. Será por una parte empírico, aproximativo, trivial e incompleto, pero por otra parte, positivo e inteligible para, cada uno de nosotros.

EL ENCUENTRO EN LA VICTORIA



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UN ENCUENTRO EN LA VICTORIA

Autor: ©Giuseppe Isgró C.

Del libro: La Victoria

Capítulo I

Me encontraba un día, en una fuente de aguas tranquilas, cristalinas, cuando se me acercó un Venerable hombre, vestido a la antigua usanza, con bata blanca, larga, pelo y barba que alguna vez fueron de color pelirrojo y un báculo en la mano derecha.

Concentró sus ojos en los míos; su mirada era profunda, serena y apacible.

Con voz suave y afectiva, me dijo:

-“Hola, hijo, como estás”-.

–Bien, -le contesté-; y, ¿usted?

–Por aquí andamos; -fue su respuesta-, mientras me sonreía.

-¿Dónde estamos?, -le pregunté al Venerable hombre-.

-Este sitio es conocido como La Victoria; -me contestó-. –¿Qué haces por estos lados?

-Salí esta mañana, temprano, con el coche, a dar un paseo; luego, al llegar a esta zona, me paré a contemplar la belleza de los araguaneyes y decidí caminar un poco y la verdad que, absorto en mis reflexiones, caminé por lo menos durante dos horas, hasta llegar aquí. Desconocía este hermoso lugar. Y, usted, -¿vive por aquí cerca? -le pregunté-.

Un poco más arriba, en esa colina boscosa. Hace algunos años, -relata el Venerable hombre- decidí retirarme de la agitada vida ejecutiva en que me desenvolvía profesionalmente, como abogado, en la ciudad de Quebec, Canadá, aunque he viajado por diversos países asesorando a incontables líderes. Construí la casa, en esta zona tropical, con la idea de pasar aquí los meses de invierno. Me dedico al estudio de la vida, a la meditación y a cultivar mi jardín y de vez en cuando, a escribir mis reflexiones, las cuales, algún día, habrán de ser publicadas para esparcir un poco la luz que he podido vislumbrar en mis estudios metafísicos-espirituales.

-¿Quieres tomar un café? –Me preguntó el Venerable hombre-. Lo he traído de Caripe El Guácharo; es de los más exquisitos que he probado.

-Sí, con gusto se lo acepto; -le contesté-.

Nos fuimos caminando por un sendero rodeado de árboles cargados de mangos, aguacates, naranjas y una hilera de cayenas de diversos colores. A lo lejos, el ruido de la brisa se oía apaciblemente. Todo era quietud, armonía y paz. Pero, sobre todo, lo que más me impresionaba era la apacibilidad y el sosiego del Venerable hombre de La Victoria. Emanaba de él un flujo de fuerza que, en su presencia, me sentía con un poder y una seguridad nunca antes experimentados. Fuerzas bienhechoras se iban apoderando de mí y aquella paz y relax que buscaba en la mañana, al salir a dar un paseo, sin percatarme de ello, las estaba experimentando ya.

Después de unos quince minutos de caminar, llegamos a la casa del Venerable hombre. Su aspecto exterior humilde estaba lejos de dejar entrever lo que segundos después habría de asombrarme con lo que encontré en el interior.

Al entrar, en la casa, una joven de unos veinte años saludó al Venerable hombre.

-¡Hola, abuelo!, ¿cómo estás?

–Bien, hija, -contestó el Venerable hombre-. -Prepara un poco de café, Lucía, mientras conversamos un poco, adentro.

-Por cierto, te presento a Santiago, quien ha llegado paseando hasta La Victoria.

Después de la presentación, entramos en la biblioteca del Venerable hombre. Un salón grande, lleno de estantes de libros por todas partes, lo cual hacía inimaginable dicho cuadro desde el exterior. Algunos cuadros al óleo de morichales y de personajes históricos, presentaban un ambiente acogedor. En un rincón se encontraban diversos retratos de Tagore, Gandhi, Cicerón, Séneca, Ibn Arabi y un dibujo de Don Quijote y Sancho Panza. En un pequeño cuadro, podía leerse: -“Lo que Alá quiera. Nada se le asemeja”-.

-Le felicito por este inmenso tesoro que usted tiene aquí, -le dije al Venerable hombre-. -¿Cuáles son los temas de su interés?

A lo cual, me contestó: -Como usted puede ver, Santiago, -y me invitó a recorrer los estantes- aquí hay libros de variados temas: clásicos de todos los países y épocas, desde los Vedas, los Upanishads, el Mahabaratha, los libros de Confucio, El Tao te King, de Lao Tse, el Poema de Gilgamesh, el Código de Amurabí, autores griegos, como Homero y Hesiodo. Se encuentran las obras completas de Euclides, Platón, Aristóteles, Teofrasto, Demetrio de Falereo, de los Presocráticos, Epicteto, Plutarco, etcétera; de los latinos, autores como Séneca, Cicerón, -que son mis preferidos-, Julio César, Tito Livio, Dionisio de Halicarnaso, Marco Aurelio, así como libros de Psicología, Gerencia, Sufismo, Yoga, ensayos, filosofía, parapsicología, hermetismo, El Quijote, libros de economía, filosofía, etcétera, en fin, un poco de todo lo que es preciso conocer para poder entender el significado de la vida: de dónde venimos, por qué estamos aquí y hacía dónde vamos, sin lo cual, la vida no tendría sentido, sobre todo por el gran afán a que está sometido el ser humano en la agitada vida moderna.

Nos sentamos en sendas butacas y nos entretuvimos conversando de temas diversos. Al poco rato, entró Lucía con dos tazas de oloroso café y unos biscochos, que degustamos con agrado en una amena e interesante conversación. Al fondo, podía oírse una suave música de Beethoven.

Pasamos cerca de una hora conversando de sobre la Atlántida, Egipto, los griegos, de Homero, de los sufíes, del budismo zen, los poderes del espíritu, meditación, etcétera, después de lo cual, le hice una pregunta directa.

-Seguramente, usted ha desarrollado alguna técnica de meditación y algún método de resolución de situaciones, en la vida, que me quisiera explicar, ya que, según observo, para tener usted una serenidad tan acentuada y una fortaleza física a la edad que imagino que usted debe tener, -cerca de noventa años- es porque ha encontrado en su larga experiencia algún secreto que quizás quisiera compartir conmigo.

Santiago, -me dijo el Venerable hombre, si vuelves a visitarme otro día, quizá te cuente algo que te pueda servir. Empero, antes de que te vayas, te haré entrega de unos apuntes que hace ya muchos años, en una época en que yo andaba a la búsqueda de sosiego y tratando de encontrarle sentido a la vida, un Venerable hombre que, en una edad similar a la mía, a su vez me entregara y cuya práctica asidua me permitió domar la mente, encarrilar mi vida y poner bajo control los hilos del destino. Son veintidós manuscritos, y una meditación diaria, –continuó diciendo el Venerable hombre, que si bien son ya un poco antiguos, podrás copiarlos de nuevo y si pones en práctica las técnicas que contienen, darás a tu vida un esplendor que habrá de sorprenderte agradablemente.

-Una vez que los hayas probado con total y absoluta satisfacción de tu parte, -me dijo, ponlos en limpio, en forma de libro y publícalo para que su mensaje llegue a mayor número de personas. Hacía tiempo que esperaba a alguien a quien confiarle este legado y creo que hoy, al llegar aquí, en la forma en que lo has hecho, tus pasos han sido dirigidos por Aquel que todo lo sabe y puede, por la Ley Cósmica, y en cuyos planes universales, todos somos sus instrumentos.

Me despedí del Venerable hombre y de su adorable nieta, sintiendo dentro de mí fuerzas desconocidas hasta entonces que preanunciaban grandes cambios en mi vida.

En los días siguientes, aparté una hora diaria, antes de dormirme, y leí y releí, todos los manuscritos, de la siguiente manera: En primer lugar copié la Meditación diaria en un cuaderno, el cual leí durante veintidós noches y mañanas seguidas, tal como lo indicaban las instrucciones de la misma.

Una nota al pie de página mencionaba que si yo la transcribía en un cuaderno, el hecho de hacerlo, grabaría en mi ordenador mental las instrucciones y me sería más fácil desarrollar, en mi personalidad, las cualidades y condiciones que formaban parte de los objetivos implícitos en la misma.

De los veintidós manuscritos, cada lunes, a las once en punto de la noche, copiaba uno en el cuaderno, y durante el resto de la semana, a la misma hora, lo leía y meditaba, siguiendo las fáciles y efectivas técnicas e indicaciones al inicio del mismo.

Cuatro semanas después de leer durante veintidós días seguidos, en la noche y en la mañana, la meditación diaria, comenzaron a manifestarse en mi vida una serie de cambios positivos que me dejaban asombrado a mi mismo, pero, también, los miembros de mi familia y a mis amistades; sobre todo mi semblante comenzó a ser más apacible; volví a sonreír desde el interior; mi estado anímico era de contento; me sentía más seguro de mi mismo; comencé a confiar más en la gente, en la vida y a vislumbrar el sentido de mi misión en la vida –percibía cosas que antes me pasaban desapercibidas, a pesar de haber estado siempre allí. Sentía fluir en mí una nueva corriente vivificadora de prosperidad, de felicidad, de alegría de vivir. Mi entusiasmo y amor por la vida y por mi familia, por mi trabajo y por las personas, crecía día a día. En aproximadamente dos meses había logrado muchas de las cosas en las cuales había soñado desde hacía años. Había dado un paso sorprendente en el camino de la autorrealización.

Efectivamente, pude comprobar que me fue relativamente muy fácil desarrollar las aptitudes y actitudes a nivel físico, mental, emocional, espiritual y en diversos aspectos de mi vida, como el financiero, que comenzó a mejorar casi inmediatamente, así como, surgieron nuevas oportunidades que comencé a aprovechar, casi sin esfuerzo de mi parte.

Transcurría el año de 1967 y mi vida había encontrado un sendero que habría de conducirme a cooperar en forma más efectiva en el plan divino que el Supremo Hacedor, en algún momento, había diseñado para mí.

Tres meses después volví a aquel lugar donde había encontrado al Venerable hombre de La Victoria y allí estaba la fuente que él dijo llamarse La Victoria; empero, cuando traté de encontrar el camino para llegar a la casa donde amablemente me ofreció un delicioso café, preparado por su nieta Lucía, no logré encontrarlo, pese a haber recorrido durante un par de horas por los alrededores. Pregunté a varias personas para ver si podían indicarme como llegar a la casa del Venerable hombre y cual fue mi sorpresa, nadie lo conocía.

Empero, después de tanto buscar, volví a encontrar la casa donde vivía el Venerable hombre de La Victoria, pero se encontraba abandonada. Su aspecto indicaba que debía encontrarse en ese estado un lapso mayor del que mediaba con el encuentro de aquel ser extraordinario. Es sorprendente como los inmuebles solos acusan el paso del tiempo en mayor grado que los que son habitados. Si no fuera por los manuscritos pensaría que el encuentro no fue más que un simple sueño. -¿O se trata, acaso de un sueño combinado con un fenómeno de aporte? Personalmente, no lo creo. El encuentro fue muy vívido y real. El aromático café servido por Lucía estaba exquisito. Durante varios años volví al lugar varias veces, la casa seguía sola. La última vez que volví, no la pude ubicar y sin tener tiempo suficiente para seguir buscándola, me fui. Ahora, vivo muy lejos de aquella zona, en otro continente; han transcurrido muchos años y después de tanto tiempo es poco probable que vuelva allí; pero, los manuscritos y la meditación diaria obran en mi poder, me han transformado y han enriquecido mi vida.

Durante más de treinta y cinco años he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen los manuscritos y la meditación diaria y cada vez que los pongo en práctica, experimentos los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para mí.

Su contenido es eminentemente práctico; no hay teorías superfluas. Si lleva a cabo los ejercicios que contienen, es probable que, gradualmente, se vaya efectuando la transmutación alquímica de su ser sintonizándose con los elevados resultados existenciales, los cuales, por añadidura, al ser creados a nivel mental, se van manifestando en su propia vida, oportunamente.

Sobre todo, con estos ejercicios, me percaté, cuando el Venerable hombre me entregó los manuscritos, de que se dispone de un método para domar la mente y ejercer un pleno dominio sobre la vida en general y, por ende, sobre el destino y controlar, cuando eventualmente se presenten, todas las situaciones, manteniendo un perfecto equilibrio físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

El Venerable hombre de La Victoria me comentaba que todo se puede lograr en la vida si se siembra la respectiva semilla por medio de correctas decisiones acordes con la propia y elevada auto-estima y dignidad personal, desarrollando el convencimiento de que sí se puede hacer, por medio de las afirmaciones, las visualizaciones y meditaciones, la experimentación de un estado emocional acorde al momento de ser logrados los respectivos resultados y la practica del desapego, es decir, dejar encargada a la mente psiconsciente del logro, y además, se espera el tiempo necesario haciendo, mientras tanto, todo lo que se requiere, según el caso o los objetivos por alcanzar.

Estas técnicas funcionan, me decía una y otra vez el Venerable hombre de La Victoria; luego, agregaba: -las he probado por más de cincuenta años y quien, a su vez me las entregó, habría hecho otro tanto, aseverando que eran efectivas, si yo seguía fielmente las instrucciones y las ponía en práctica con expectativas positivas.

Desde que en 1967, el Venerable hombre me hiciera entrega de los manuscritos, han transcurrido un poco más de de treinta y cinco años, durante los cuales yo también he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen, y cada vez que me ejercito con ellos, experimento los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para todos los que hemos aplicado las enseñanzas del Venerable hombre de La Victoria.

Él me repetía constantemente: -“¡Tú puedes si crees que puedes hacerlo! ¡Hazlo y tendrás el poder!

Recuerdo que ese día el Venerable hombre me dijo: -ejercer el poder con que la naturaleza de las cosas ha dotado a cada ser, cultivando los dones inherentes y aprendiendo todo lo que se pueda de sí y del vasto universo del que se forma parte, es una manera efectiva de ser cada día más feliz. Luego, cuando me despedí de él, expresó: -“¡Que cada día brille más y mejor tu luz interior!”.- Adelante.

Capítulo 2

Meditación diaria

Es lunes en la noche, son las once en punto.

Me dispongo a copiar textualmente, en el cuaderno que he dispuesto para ello, el manuscrito identificado con el título:

Meditación diaria

Dice así:

Afirme, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desee, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubra cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en su vida:

MEDITACIÓN DIARIA

Afirma, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desees, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubre cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en tu vida. Al encender la luz en la mente se ilumina la propia existencia y todo en derredor vibra al unísono y con el mismo sentimiento de felicidad y bienestar, interrelacionándose por la ley de afinidad.

1. -Entro en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, contando de tres a uno: Tres, dos, uno.

Ø Ahora, estoy ya en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre.

Ø Voy a permanecer en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, durante quince minutos y voy a programar los siguientes efectos positivos, los cuales perduran, cada vez mejor, hasta que vuelva a realizar este acceso y programación mental:

Ø Todo va bien, siempre, en todos los aspectos de mi vida, cada día mejor. (Tres veces). –Imagínalo-.

Ø Todo va bien en mi trabajo; cada día logro mejores niveles de efectividad, prosperidad, riqueza, abundancia y bienestar. (Imagínalo).

2. Formo una unidad cósmica perfecta con el Creador Universal, -ELOÍ. (Diez veces, con los ojos cerrados). Hoy se expresa en mí la Perfección universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión en todos los aspectos de mi vida.

3. -Cada día, en todas formas y condiciones, mi cuerpo y mi mente funcionan mejor y mejor. La consciencia de mi conexión permanente e indisoluble con el Creador Universal, -ELOÍ-, restablece y mantiene en mí, diariamente, durante las veinticuatro horas del día, un perfecto estado de salud a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Creador Universal, por darme un cuerpo perfecto, saludable, lleno de energía. Aquí y ahora, me siento en perfecto equilibrio de salud, a nivel físico, mental, emocional y espiritual.

4. Afronto y resuelvo bien toda situación que me compete, siempre.

5. Todo tiene solución, en todas las situaciones de mi vida.

6. El Creador Universal, -ELOÍ-, es en mí, cada día mejor, en todos los aspectos de mi vida, fuente de amor, luz, sabiduría, éxito, riqueza, prosperidad, abundancia y armonía.

7. Permito que las leyes universales de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión actúen bien en el plan de mi vida.

8. Tengo prosperidad y poder. Cada día enriquezco mejor mi vida a través del servicio efectivo, del amor y de la práctica de todas las virtudes.

9. Mi dignidad personal me lleva a realizar las cosas que me competen con la máxima perfección posible.

10. Cada día, en todas formas y condiciones, en todos los aspectos de mi vida, estoy mejor y mejor a nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

11. Actúo con templanza, serenidad, autodominio y perfecto equilibrio en todo. Conservo plena autonomía y control sobre todas mis facultades físicas, mentales, emocionales, intelectuales y espirituales. Hecho está. (Visualizar un escudo protector de luz que te envuelve y protege; -una pirámide-).

12. Tengo fortaleza, valor, confianza y fe suficiente para triunfar y alcanzar todas mis metas, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y en armonía con sus planes cósmicos. Soy inmune e invulnerable a las influencias y sugestiones del medio ambiente y de cualquier persona a nivel físico, mental, emocional y espiritual, en las dimensiones objetivas y subjetivas y en cualesquiera otras en que sea requerido.

13. El orden universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión se establece en mi vida, en todos mis asuntos y en las personas interrelacionadas, aquí y ahora. Hecho está.

14. Asumo la responsabilidad de mis actos y cumplo bien todos mis compromisos, siempre oportunamente, de acuerdo con el orden cósmico.

15. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos da abundancia y armonía en el eterno presente. Vivo en abundancia y en armonía perfectas, aquí, ahora y siempre.

16. El Creador Universal, -ELOÍ-, se está ocupando de todo, en todos los aspectos de mi vida, y se expresa en mí conciencia intuitiva por medio de los sentimientos en correspondencia con los valores universales.

17. Gracias, Creador Universal, -ELOÍ-, por esta vida maravillosa. Que Tu Inteligencia Infinita, Amor, Sabiduría, Justicia, Luz, y Poder Creador guíen, adecuadamente, todas mis decisiones y acciones, ahora y siempre. Gracias, Eloí, por este día maravilloso.

18. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos proteja, aquí y en cualquier lugar, ahora y siempre. (Tres veces).

19. Siempre espero lo mejor, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y la Ley Cósmica, en armonía con todos.

20. Gracias, Creador Universal; todo va bien en todos los aspectos de mi vida, a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Eloí, todo va bien en mis practicas espirituales y en mi relación Contigo; Tú y yo formamos una unidad perfecta, armónica, aquí y ahora, en el eterno presente. Yo soy Tú, Tú eres yo. Te amo.

21. Voy a realizar –obtener o resolver- (mencionar), antes del: (fecha), de acuerdo al orden divino y en armonía con todos. (Si se trata de varios objetivos, anótelos y haga la afirmación y visualización con cada uno de ellos. Imagínelo concluido satisfactoriamente sin imponer canal alguno de manifestación.)

22. Tengo serenidad y calma imperturbable. Soy impasible frente a todo y a todos. No tengo temor a nada, a nadie ni de nadie en ningún nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero. Dentro de mí vibra la seguridad total. Tengo completa confianza en la vida y en mi propia capacidad de resolver situaciones y alcanzar los resultados satisfactorios que preciso, en cada caso, siempre.

A continuación anoté la fecha: Lunes 12 de agosto de 1967. Luego, tal como me lo indicó el Venerable hombre, anoté la fecha que correspondía veintidós días después: 03 de septiembre de 1967.

Acto seguido, me senté cómodamente, tomé tres respiraciones profundas y realicé la meditación.

Luego, cada noche, durante veintidós días, a las once en punto, me iba a mi cuarto, daba indicaciones de no ser interrumpido durante veinte minutos y realizaba la meditación del día, la cual, siempre complementaba con la lectura breve de uno de los libros de cabecera que siempre suelo tener en mi mesa de noche.

Iba notando, día a día como emergía de mi interior una nueva y desconocida fortaleza, seguridad, estado de ánimo contento, actitud más decidida, optimismo frente a la vida y a las situaciones; comencé a llevarme mejor en las relaciones con las demás personas, a ser más comedido en todo y sobre todo comenzaba a tener conciencia de cosas que antes me solían pasar desapercibidas.

Cabe destacar que, en el punto número veintiuno de la meditación, había anotado siete objetivos que desde hacía tiempo quería realizar y para mi sorpresa, treinta días después de haber terminado de efectuar la meditación del manuscrito número veintidós comencé a observar como, en forma aparentemente casual se iban manifestando la resultados de cada uno de ellos hasta que, algunos meses después, antes de la fechas previstas, los había realizado todos, menos dos, por lo cual, me senté y volví a anotar, en una hoja de mi cuaderno, otros diez objetivos, encabezados por los dos pendientes de la lista anterior, les puse la fecha tope a cada uno, antes de la cual debían ser logrados, para seguir visualizando, su logro, periódicamente.

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domingo, 18 de agosto de 2013

Discorso sulla felicità


Discorso sulla felicità.
Pietro Verri


Edizione di riferimento:
Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano preceduti da un saggio civile sopra l’autore per Vincenzo Salvagnoli, volume primo, Ed. Felice Le Monnier, Firenze, 1854.
§ I. — INTRODUZIONE.

Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensazioni piacevoli (siccome nel discorso precedente [1] credo di aver provato), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e l’infelicità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più utile verità a cui ci conduce la filosofia, sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro utile reale, se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto dei nostri mali. In fatti, se fissataci una volta in mente l’idea d’una assoluta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo troveremo distante da quella sognata beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione. Che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro retaggio, ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo formati; se conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invincibili e felici, sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente, ma realmente rosi da mille angosciose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche da noi soli dispoticamente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, e pel vuoto di non aver più desideri: allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli, o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi, e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità dell’edificio.
L’eccesso de’ nostri desideri sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera, è in uno stato di letargo; chi sommamente desidera, s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli, laddove la violenza de’ desiderj la prova ogni anima che sente con energia, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dall’infelicità sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.
Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri; siamo noi arbitri di accrescer il nostro potere? In tutto no certamente, perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico, è una conseguenza fìsica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche da’ soli errori di opinione non è compatibile colla imperfezione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla fìsica stessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo dell’immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimento de’ desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volontà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varj mezzi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero singolarmente nella loro prima età un uso continuato e intero della loro ragione per esaminare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema ed a principj le proprie azioni. L’immaginazione d’ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo; e ognuno riflettendo sopra di sé medesimo, e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà meco d’accordo Dell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj nostri tutta la porzione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminuirà la somma. Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj.
§  II. — DELLA RICCHEZZA.

Le ricchezze sono lo scopo di uno de’più comuni desiderj; e certamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possiede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione, trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che evidentemente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diventano realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte di acquistarle; anzi l’avidità di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare una ricchezza importante, dovrà dire che sarebbe stato più felice, se avesse posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placare la non mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la sollecitudine, il sospetto sogli attentati altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere come sul teatro, rappresentando un personaggio in faccia del pubblico censore attento e difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchezza, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle affannata da un fascio di svariatissime sensazioni; tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possiedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa l’infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabilisci i confini a’ tuoi desideri, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderala condizione, è il seme da cui ripulluleranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capricciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza: se te ne rimane di più, donalo alla beneficenza, non mai al lusso; e sia certo che l’avaro egualmente che il prodigo sacrificano i bisogni reali ai bisogni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti a’ venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi bisogni. Il primo sempre si apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene; l’altro divora tutto nel momento attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo avvenire.
Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ricchezze, come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità. Ma dico che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’ nostri sforzi continuati per ottenerli, perché allora chi se ne trova al possedimento, può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e considerandole come mezzo di aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle, ripartirle, servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata gradatamente colle proprie azioni, deve aver già abituato il suo cuore all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso, e palpita e si angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’ Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori; nella sua prima età non si occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito. Conosce in un fanciullo la nascente passione per essere uno scultore, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta all’età venture un Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai: quindi non può l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio delle ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrifìcio frequente della loro probità; sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quali corrono dietro; e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di ottenere col tuo ammasso? Forse i piaceri fisici? Questi sono destinati per l’uomo amabile: l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini, comprandoti delle condecorazioni? Gli uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccierà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecoratlo per nascita e per merito ti spregierà, se sarai cinto colla stessa fascia d’onore, da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sempre più progredendo.
Ma, per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza, è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente riparto de’ beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sé la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci conduce a un cocentissimo desiderio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti. La memoria del passato fasto, la vista dell’inopia attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo talvolta nell’avvilimento, e da quello, quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato primiero, siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui avevano diritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i mezzi vanno diminuendosi, scompaiono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi piaceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilanciano i lunghi rammarichi che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse, non accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità. Le passioni nacquero; il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di volo si getta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo dapprincipio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decidere, ad esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro? Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusione, colla pompa, e col  fasto di rendere attoniti gli uomini, e farti credere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione accecherà te solo; alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno; i più ti dileggeranno. Le tue facoltà sono note; non sperare che i creditori sieno pitagoricamente taciturni: la città conosce che il tuo fasto non è durevole: la tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a mancare di fede se ti abbandoni alla profusione. Avrai alcuni scaltri parassiti: come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radici nel tronco, e alimentandosi coll’umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici non si comprano: le anime capaci di profittare della rovina altrui, non lo sono d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dall’uniformità del genio e da’ beneficj fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione; la quale evidentemente ci dice: Se tu spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi aver fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in quest’ anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento; e come questi basterebbero se in quest’ anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di ricchezza. L’uomo adunque facendo buon uso della ragione datagli dall’Essere Eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj tormentosi di ricchezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascinano, se è spensierato, all’infelicità.
§ III. — Dell’ambizione.

L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più benemerita; a lei dobbiamo la massima parte dei politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti la gloria, la stima, gli onori.
Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta maniera di pensare sentonsi angustiati da due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un piccolo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bisogno di estenderla a più lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’ lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di lettere e di belle arti. Un monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza. Perciò nell’indice delle biblioteche gli autori coronati vi sono in assai maggior numero che non trovansi nella serie cronologica i sovrani conquistatori e legislatori. Ma per un uomo privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di condizione privata veramente illustre, per un ministro degno di memoria l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla posterità scegliendo il partito delle armi, rifletta che più due milioni d’uomini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteranno, i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per veder scritto il loro nome nel tempio brillante della gloria. E quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa via come l’unità a trecento e più mila, sorta di lotteria di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente. Quindi è che realmente siano mossi piuttosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le cariche del ministro, sono anch’ essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si muovono quasi sempre per una diagonale composta da più forze motrici: l’energia medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e limpida la sua morale, ne scosta gli elementi motori. Gli uomini si collegano meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascente. E siccome in questa carriera non si possono occultare i primi progressi, come si fa nelle lettere, volendo; così si deve combattere mentre che ti stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita. Quindi pochissimi ambiziosi di gloria fra i privati s’ingolfano a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per ambizione, lo fanno per l’ambito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu sceglierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere e delle belle arti; giacché, se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’ambizione degli onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innalzarti negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni. Chi s’innalza sopra di essi, è in gran pericolo al primo slanciarsi che fa a volo: quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo, è decisa la superiorità. Gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere oggetto di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono, e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano, e insegnano ai figli loro di onorarlo; nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da spegnersi; dirò bensì che per un Alessandro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissimi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un Richelieu, si può dire lo stessa dei disgraziati che hanno ambito la gloria negli impieghi pabblici; e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla contemplazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ripongono nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi invece di combatterne il desiderio, saggiamente pensando alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria conviene invitarla, meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti. Questa giovanile impazienza è da calmarsi; conviene aspettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere dagli uomini in un momento. Al primo comparire d’un’opera interessante, le opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discendere a confutare le censure che la piccola invidia o l’ignoranza fanno sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudono un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni dell’immortal luce placidi ed eterni nella loro rivoluzione. Se, desiderando la gloria delle belle arti, conoscerai intimamente queste verità, non avrai desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll’annunziare le tue idee quegli uomini e que’ ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la gloria, esposto ch’egli abbia alla pubblica luce il suo lavoro.
L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle persone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vivere nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di rendercegli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente. La rettitudine, la popolarità, la beneficenza, l’amorevolezza delle maniere bastano; ma so ti abbandoni al desiderio di ottenere la stima de’ tuoi eguali ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità, farà che non te la mostrino. I nostri pari sono nostri rivali nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo mediocre che li diverte e non gl’imbarazza, che ad un cittadino virtuoso che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non siano tali. Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale, hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della superiorità nostra già stabilita dalla fortuna, anzi ci sa buon grado che valutiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è superiore al popolo, ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima de’ popolari costringiamo gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri un’opinione instabilissima per natura, la quale, quand’anche si ottenga, porta sempre seco la maggiore probabilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune, si propone d’acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle opinioni e sui pregiudizi di essi, per modo che rinunziando quasi all’esistenza propria, deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una chimera pronta a scomparirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia mai fatto. Convien dunque cercar la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corrono nel piano più basso non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non senza errore. Quindi l’ambizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desideri che sia pareggiabile col potere, lo ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo desiderio sarebbe una contraddizione se si supponesse in un animo capace di commettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni distruggitrici della stima pubblica; ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla superiorità de’ lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammirare ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa benevolenza e fiducia che porta con sé il sentimento di stima.
Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe, la quale nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Questa classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volle l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per una carica o per un titolo. Questi amari frizzi si moltiplicano; vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso; si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non perchè in sé stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, e provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco. Questa fatale incertezza li rattrista: sembra loro di uscirne acquistando degli onori: costoro sono uomini vani e non uomini ambiziosi. Ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi; vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sé medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi; laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più rigido e meno docile per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli onori dipende e da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito de’ distributori. Sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola, chi può mai prevedere se sarà fatto console l’uomo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio monarca è meno difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e chiare, quelle dell’arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gli impieghi non sempre si danno a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore. La fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini, può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco; ma tanto più sono pregevoli, perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della forza d’animo. Queste qualità, vedute, producono maraviglia; sentite, producono timore; esercitate, producono o l’esterminio di chi le possiede, o l’ubbidienza degli uomini.
Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sé medesimo, esaminerà gli uomini coi quali dovrebbe porsi ad agire per ottenerli loro concorso, e scemerà, coll’abbandonare una vana lusinga, la classe de’ desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminasse e ne facesse conoscere la ineseguibilità. E per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccioliscono e quasi svengono. Ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi lo abbia ottenuto, mi farà sicuro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio. L’occhio vede più piccoli gli oggetti, a misura che sono più rimoti: l’ambizione, per lo contrario, quanto più sono da noi lontani gli ingrandisce, e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’annientano al contatto.
La ragione ci ha abituati a correggere la illusione ottica e giudicare dell’estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza: la stessa ragione ci può abituare a correggere l’illusione dell’ambizione e preservarci dall’ingannevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono; ma la differenza in chi non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità.
La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione degli onori, è sicuramente Roma, perché ivi trovasi la possibilità de’ più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua patria; che sia creato re elettivo con una moderata autorità, non è questo uno spazio corso, pareggiabile a quello d’un poverissimo fraticello, senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova sovrano d’uno stato, padre dei monarchi e capo della religione. L’importanza di quella che noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per giugnere, e dal luogo in cui si è collocato. Un elettore che sia fatto capo dell’impero, un principe del sangue a cui passi una corona, hanno fatto un passo: un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta monarchia, come il cardinale Alberoni, ne ha fatti più; ma il padre Ganganelli, fatto cardinale e sommo pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nessuna altra parte d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto solo.
Francesca d’Aubignè, nata da un matrimonio contratto (da Costante d’Aubignè) per fuggire dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a servire il poeta Scarron, considerava come un onore il diventare la moglie di quell’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a servire i figli che Luigi XIV aveva avuti dalla marchesa di Montespan. Da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al re, e guadagnarselo al punto di essere sposata da lui e dichiarata marchesa di Maintenon, la confidente del re, l’arbitra della Francia, e la più desolata, triste ed annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza al padre Ganganelli solamente di un buon vescovato, si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovato ravvisato il colmo della felicità. A chi alla d’Aubignè, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito, sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse pronosticata la somma altezza a cui erano destinati, essi avrebbero creduto di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili racconti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambiti hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono, o li sentono con indifferenza, mentre l’uomo volgare che prova una voluttuosa sensazione, accostandosi ad essi, li crede circondati da una perenne deliziosa atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gli insigniti di onori, ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza; nel secondo non si cercano, perchè quello che gli uomini credono grande, è un piccolo oggetto per noi.
Chi era mai il primo favorito del re di Spagna, che vivea contemporaneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito grande di Spagna, cavalier del Toson d’oro, generale degli eserciti, ecc., ecc., ecc., circondato da una brillante caterva di schiavi, riceveva nel fasto e nel seno dell’opulenza le adorazioni dei grandi e del popolo; mentre credeva egli che tutto l’universo lo ammirasse, e le più remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes mal vestito, mal alloggiato, al lume d’ una lucerna scriveva il suo romanzo, il Don Chisciotte. Probabilmente si sarebbe trovato ardito Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola esistenza. La morte troncò l’illusione. S’ignora il nome del grande coperto di onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes, che pochi uomini viventi sono al dì d’oggi tanto conosciuti quanto lo è egli. Le avventure che Cervantes s’immaginava nella sua povera oscurità, sono il soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei re ed i gabinetti degli uomini di gusto. Il bel romanzo gira in più lingue nelle mani d’ognuno; da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che sconsigliatamente sei abbandonato ai crucciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro vacuo, ed anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti ed alle scienze. Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio, un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli, vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia, mentre l’obblivione ha per sempre cancellati i nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ricchezze, allra non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che onorificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a render te stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla importanza e col buon ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta, che sta sulla base propria adamantina e non cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri d’uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, d’amico; sia la tua promessa infallibile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e dell’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sii giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu stesso un tesoro di onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano, e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l’oggetto della riverenza degli uomini.
Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co’ quali viene incautamente strascinato alla infelicità.
§ IV. — dell’accrescimento del nostro potere.

Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella de’ piaceri fisici; propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potuto provare che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla immaginazione alla realità, perdono costantemente, e che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione, o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Perocché un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti desiderj figli dell’errore e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que’ fini. Ma l’amore, la gola, e simili desiderj hanno più adesione all’organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriverne. Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrirei tormentosi, e vani desiderj, de’ quali ho trattato; ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col tempo, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmente l’argomento è troppo difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d’Ovidio che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento. Perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi desiderj nostri, conosciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a divisare i mezzi onde accrescere il nostro potere.
Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di troppo cibo; annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola disavventura: vedrai il primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensibilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberali poi da taluno dei dolori innominati, dei quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto, molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mantenere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’ piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie; l’intemperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e sedentaria, l’abituazione a’ troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali possono mollo contribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più utile e più sicura degli incerti tentativi, che fannosi per lo più per ricuperare la perduta, è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respignere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacché anche alla gloria e ad altri beni non si cammina se non con passo fermo e giocondo.
Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchinale che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario all’uomo per avere un’esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e questo sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver commesse azioni vili e indegne, sebbene nell’oscurità abbia tessute le insidie, sempre è angustiato dal timore che sieno svelate: un’occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano: ei porta nel cuore una malattia più disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa di meritare, il loro allontanamento che può aspettarsi, e mille tristi pensieri abituali nel cuore di un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che obbedisce alla virtù. Vera è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare l’uomo giusto; ma qual peso il rappresentare ogni giorno tutt’altro ohe noi stessi! Questo sforzo non toglie l’interno avvilimento. Si può disputare qual de’ due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito, per non averla, l’altro fa sforzi per contraffarla. Sono due debitori; il primo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa: entrambi hanno l’avvilimento nel cuore.
Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l’interno sentimento di noi sessi, che è il più giusto e inesorabile de’ nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini: l’errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della verità. Non pretendo io già che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato, trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento. Ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni nostre colla giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza alle leggi. Le leggi fissate dall’Autore dell’Universo sono semplici e invariabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli errori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito, che talvolta s’incentrano dubbj, e fa mestieri d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario insegna all’uomo la strada della giustizia religiosa: il mero ragionatore, che ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uomini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini al santuario istesso, partendo ancora da’ più meccanici principj; perchè una verità non può smentire un’altra verità, e da più principj fisici o morali, purché sien veri, concatenando una verità all’altra, si può giugnere alla stessa dimostrazione.
Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia una legge universale sempre ubbidita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore de’ dolori e la maggiore somma de’ piaceri. Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene finito. Un’infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazioni degli oggetti presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessione, alla quale pochi uomini si addestrano, non pone dicontro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacere attuale a prezzo di un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà illuminato, tanto più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’ dolori: quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezione del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia religiosa, e si terrà lontano da’ rimorsi.
Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie all’onestà, sono false: la vera religione è sempre offesa, quando sia violata la onestà. Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi dell’onestà, siccome tanti illustri Greci e Romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma de’ dispiaceri che si ricevono dagli uomini, qualora si ha il concetto di essere malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità a’ nostri mali sono i sentimenti che legge scritti in faccia degli uomini colui che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col tradire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ecc., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compagna del rimorso che scema il poter nostro, togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente concludo che la mera ragione può contenere l’uomo nella strada della giustizia morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici, quelle anime nobili e sublimi che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima voluttà che provano in quello stato!
Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere, e se, per conservarcene tutta la porzione possibile, dobbiamo colla saggia moderazione non meno che colla frequente riflessione mantenerci lo stato fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj, ci fa bisogno d’avere in favor nostro i suffragi degli uomini o almeno non averli contrarj. Questi o si comprano o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura, ma conforme alle leggi. I Romani, daché la virtù repubblicana era svanita, si vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene pubbliche, largizioni, spettacoli, combattimenti di fiere, gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la loro tirannia anche i primi Cesari, e, fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta, impunemente annientavano gli ottimati e li depredavano, ubbidendo così al timore, alla vendetta ed alla avidità propria col concedere alla fame particolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a Roma, ne’ tempi di sua grandezza: non è però abolito l’uso di comprare più in piccolo i suffragi del popolo anche a denaro; e ciò non potendo accadere nelle monarchie ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a suffragi pubblici si facciano le elezioni alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di breve periodo, a meno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l’avevano i primi imperadori; e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo de’ beni superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare, facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare questa generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi: nemmeno in conseguenza possono essere gli uomini d’ingegno caldo o d’immaginazione violenta: la figura nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità, è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la compra dei suffragi pubblici o per denari o per maniere, è da considerarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a poterselo procurare, opera sapientemente nel farlo; e chi non ha i mezzi per comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi contrarj, come poi dirò.
Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamente della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro; così si legano a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa o interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme col pericolo cresce la forza dell’impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzione d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti, essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della moltitudine, ottenendo una carica, per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a pochissimi; e sebbene accrescano il potere, anche assai di più moltiplicano i desiderj, onde non sono i trascelti da’ veri saggi che ricercano la propria felicità.
Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie loro l’occasione di restringere il nostro potere, sottraendoci a’ loro sguardi con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimento di superiorità, che gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell’aperta ingiustizia, se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso d’ogni altro e meno soggetto a’ capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente prescelto da’ saggi.
§  V. — DI ALCUNI CONTRASTI FRA  LE  LEGGI.

La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti, talvolta trovansi degli inviluppi così intralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci da’ rimorsi. Abbiamo le immortali leggi prescritteci dalla divinità. Abbiamo le leggi civili; abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate, che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda.
Ho ricevuto un’offesa; la religione mi ordina di perdonarla; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra il peccato, il supplizio e l’infamia. La vita del principe Stuardo pretendente alla corona della Gran-Brettagna era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo; il pretendente sconfitto, dispersi interamente i suoi partigiani; senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver passato un giorno appiattato in un cespuglio, intorno cui giravano i nemici per prenderlo, venuta la notte, si presenta alla casa d’un gentiluomo del contorno: — Vi porto, gli disse, un felice annunzio. Dieci mila lire sterline sono vostre: sol che il vogliate, potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: son io, senza difesa; disponete dell’ultimo infelice rampollo dei vostri re, ovvero, se le mie disgrazie v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscir dall’isola. — Che partito doveva prendere il gentiluomo? Egli ristorò l’infelice principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicura occasione. Fu processato; la legge era chiara, come chiara la contravvenzione: per tutta difesa chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbono essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azione giusta e virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso ad un generoso e nobile uomo di soggiogare e impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero giudicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare la libertà ad un inimico del proprio re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi contravvenire ad un legittimo proclama? Hai data la tua parola d’onore di conservare un secreto; si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo. Altra pubblica legge ti offre una ricompensa, e con pubblico editto l’invita ad uccidere un uomo; ma la religione e l’onestà gridano: Non tradire, non uccidere: come condurrommi in questo orribile labirinto?
In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esalto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò, quand’anche si voglia renderla un’emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azioni che ci sono utili, e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi; il primo sia il genere, l’altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia; poiché sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un piacere che portain conseguenza un male più grande di lui. Si dà un apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni periodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il pericolo di abbandonare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente calma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella classe di azioni che per consenso generale degli uomini in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdonare generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, valorosi, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’esercitare gli atti utili in generale agli uomini.
Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse, siccome di sopra ho detto, d’ubbidire alle leggi dell’onestà, così evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.
Ciò posto, per conoscere, fra le contraddizioni angustiose delle leggi, cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta quale dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo, conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.
Formiamoci un’idea d’una società d’uomini tanto perfettamente organizzata, quanto ce la può somministrare la nostra immaginazione. Suppongasi un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciulli da una tempesta sieno divenuti col tempo i patriarchi d’un nuovo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di poter formare una nazione. Questa moltitudine d’uomini mossa da’ bisogni, mancante d’idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro che la robustezza diversa o la diversa scaltrezza che potesse mettere limite alle azioni altrui; e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è propria del maggior numero, così in quello stato la parte massima della nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza. Quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti raccolti pel proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più accorto a proporre un’associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrivere il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con certe leggi fattizie sicuro di conservare sé stesso, i frutti della sua industria, la donna sua e i suoi figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un diritta di proprietà.
Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i regni d’Europa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile associazione primitiva? Quest’isola immaginata altro non è che una finzione la quale niente ha di comune colla realtà de’ nostri diritti. Così può chiedermisi ragione della genealogia degli Stati immaginata non meno a piacere da alcuni filosofi, di quello che alcuni antiquarj lo facciano nelle famiglie. Io accordo che della rimota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione della scrittura: arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente inventata in que’ tempi, ne’ quali la memoria dell’associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo di più che, forse indipendentemente da ogni convenzione, un uomo solo più ardito, più illuminato o più scaltro, può avere cominciato a dominare sopra i suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo potrebbe togliere. Perciò quell’origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un diritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così saggiamente adoperato, che equivalesse all’immaginata spontanea primitiva associazione.
Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società; il che si risolve nella felicità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Ovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i doveri e i diritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste; giacché violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe la libertà, risorgerebbe la selvaggia indipendenza. Ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla felicità pubblica; e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è un’immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data, nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella classe d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi. Poiché, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero d’uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all’errore alle passioni e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.
Una società traviata da’ principj costituenti la giustizia sociale e condotta alla corruzione, lascia per l’opposto incerti i doveri e i diritti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo. La felicità condensata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo stato di miseria e di annientamento di molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto: si teme la verità, si fugge la vista d’una virtù più luminosa, il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere; e di questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra isolate dal timore e concentrale, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla. Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a’ non essere autore della dissoluzione.
Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde, per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare, se facciamo più male agli uomini, indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale, quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverrebbero superflue, quanto più le seconde si accostassero allo scopo della istituzione sociale; perchè essendo l’onore la legge dell’opinione universale degli uomini, ed opinando in questa parte con liberi suffragi tutti i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose è nobili, ovvero abbiette e codarde, non potrebbe mai l’opinione universale libera degli uomini disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla maggior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gli interessi di tutti. Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela, sembra che sia un’azione più utile in generale agli uomini il rinforzare le leggi dell’onore, acciocché almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che si andrà accostando all’originaria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere maggiore, onde pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VI.—DELLA CONOSCENZA DI NOI E DEGLI UOMINI.

Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e conoscere gli uomini. Conosci te stesso, ò un antico e verissimo precetto della sapienza, il quale in poco indica la perfezione della grand’opera a cui debbono tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad un tranquillo e continuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come deboli ammalati che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sé medesima: quindi l’abbonimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conversazione qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche di un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita de’ più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli oggetti presenti, a’ quali rarissime volte la riflessione contrappone l’immagine degli oggetti lontani: onde mutandosi pel moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore all’odio, dal disprezzo alla stima, con un’apparente contraddizione, ma che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio che cerca la propria felicità, conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sé stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, e d’onde traggano questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini, e pone sulla esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapienza, gli sta al fianco; separa le verità dalle opinioni; pone nella prima classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornando spesse volte a rimirare se stesso nella tranquillità, ed ivi richiamandosi le vestigia dei passati tumulti, divisa i mezzi onde scemare le turbolenze cagionate dai desiderj di beni chimerici, ovvéro di beni non conseguibili, col passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia all’esame dei mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che possiamo sentire con una sorta d’amicizia di noi stessi la contentezza di esistere, di renderci conto de’ principi che ci movono: il che ci dà una ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiorità nostra, in ciò che noi possiamo essere con noi medesimi; laddove quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo sentimento accresce il vigore del nostro animo e il nostro potere.
Per conoscere me medesimo io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia, nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini m’innalza al disopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la fortuna; l’orgoglio e l’invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo meno di quello che è infatti se mi abbandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune; gli onori mi ubriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale; una traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza; passerò la vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma. Se conservo la pace interna all’udire un’azione infame, dirò: Il mio cuore è disgraziatamente insensibile; il mio animo è sinora incapace di elevazione; sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba nel mio cuore; se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto; se rabbonii nazione e la viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora: Sono capace di virtù, sono un uomo, e posso innalzarmi alle belle azioni. L’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini di merito, e con ciò avrò la misura dell’elevazione della mia mente. Il contrasegno più sicuro di ogni altro per conoscere se vagliamo è la sensibilità e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui; questo pusillanime rannicchiamento del cuore è figlio dell’incertezza del nostro merito, e suppone un’anima volgare.
Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere all’opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il riuscire dipende dalle opinioni, da’ tempi e da’ luoghi. Io non cercherò ad un altro uomo, se quello ch’io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dall’opinione d’uomini colti e onesti, se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda l’impressione che deve fare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore, l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nella solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tronco maestro, dirò così, cioè dell’elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna dimostrazione.
Conosciuto ch’io sia a me medesimo; definita ch’io abbia la vera e nuda altezza in cui mi trovo riposto; spogliato ch’ io mi sia de’ titoli e di quant’ altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose che si muovono intorno di me, nè il favore d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che valgo, nè gli insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza sopra il destino e sta immobile nelle vicende, è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere all’infelicità; il che sta rinchiuso nel precetto: Conosci te stesso.
L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di sé medesimo per fare il miglior uso del proprio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della propria carriera, e quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte ed il proprio lato debole. La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità. Sarebbe un uomo di spirito amabile; disgraziatamente si è trascelto maniere gravi e sentenzioso discorso: è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che si è imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe di migliore riputazione. Questi sarebbe un elegante scrittore se non si ostinasse a comporre per il teatro, per cui manca di genio. Quegli è un esattissimo ragionatore, e non vuol scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi, ne’ quali l’uomo si presenta svantaggiosamente per non avere esaminato meglio so medesimo e trascelta l’occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne occuperà, esaminerà sé stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incautamente, colla riflessione e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo contorno e riesce disgustoso, e che l’imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sé medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per la propria felicità.
Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che ti muovono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo; fra l’occhio e il primo, il vetro è convesso; fra l’occhio e il secondo, è concavo il vetro; e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi; ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione tanto più forte quanto sempre attiva, e si fida de’ giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna, altrui, non sente cambiarsi internamente l’opinione.
Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell’udito, nell’odorato e nel corso; vedilo viaggiare sicuramente sull’instabile superficie dell’immenso Oceano, attraversare gli antipodi, e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci sì varie, col mezzo delle quali comunica a’ suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora; cerca di parlare a’ lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura e la perfeziona al ponto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo animo, ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi quest’industriosissimo essere creare a sé stesso nuovi organi per supplire alla debole sua vista: e con essi è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la picciolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l’eclisse e l’apparenza. Cava di mezzo ai monti i metalli, e ne forma stromenti per la difesa e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e difficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a teiajo, dal tintore ecc. Esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj di molti sogni e di alcune verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d’Europa miseramente sagrifichino ogni anno molte migliaja di vittime umane per possedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente meno pregevole, e conseguentemente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile stromento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver libero e facile il moto, e d’essere difesa dal nemico o dalla stagione. I pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla nazione, ovvero la nazione ad un uomo. I giurisperiti hanno posta l’incertezza nelle proprietà. I medici, poco conoscendo e molto affermando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi; la piccola è di quelli che ne impongono, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono: stanno confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male; e il commercio d’uomo a uomo comunemente si riduce alla creazione di qualche infelicità che si divide in eguali porzioni. Nel conoscere queste tristi verità l’uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa misantropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.
Come mai l’uomo che ha trovato le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni pochissimi, i quali sono dolali di una forza d’ingegno e d’una costante passione per cercare la verità e la gloria, talché essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione una scienza; e questo edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine non attraversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo. Fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro i quali non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli oggetti che risguardano gli interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capace d’innalzarsi, viene o escluso o contrastato, a meno che quest’uomo non sia nato sul trono. Perciò i regolamenti politici essendo l’opera di più uomini sono come le strade delle grandi città fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì queste che quelle nascono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di ottenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme, il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sé, possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigiose e sublimi: le opere concertate da molti uomini insieme, che a forze eguali si uniscono, sempre saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo, un Newton. Nessun’accademia di pittura ha formato un Rafaello, un Correggio, un Tiziano. Nessuna accademia di poesia ha formato un Tasso, un Ariosto. Un ceto d’uomini non farà mai cosa che oltrepassi la mediocrità.
L’uomo comunemente è debole; anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre della gelosia, dell’invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il ragionare; pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitudine ha ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; loda le virtù facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azioni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, perchè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio, che cerchi la tua felicità, di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione, e in vece di affliggertene allorché non la trovi, rimira ciò come un regolare fenomeno della nostra specie. Se ami d’essere superiore colle forze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri tu trovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua sopra de’ volgari; essi camminano ad occhi bendati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una classe di impossibili desiderj, e si accresce il sentimento del tuo potere.
§ VII. — DEI MOVIMENTI  DEL  CUORE.

Le verità sinora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro cuore: la compassione e il bisogno di amicizia. La vista d’un animale morto eccita un’emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno. Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addoloralo patisca, e da questo patire come per simpatia ne deriva la voce compassione. I bambini fanno ridendo delle azioni crudeli, e sono insensibili talvolta a’ mali altrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma l’uomo comune ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista de’ mali, le fibre con un intimo fremito lo portano anche macchinalmente a desiderare il fine del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice criminale, che fa da’ sgherri slogare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col litotomo [2], che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui, se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro stoico consigliarci d’indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi altrui: ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa sensibilità del nostro animo come la benefica sorgente delle umane virtù, se a questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consiglierà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati, anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre, azioni verso il bene sono sempre più energiche, quando parlano da una spinta di sentimento di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di compassione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del nostro animo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un nobile sentimento dalla coscienza nostra, che ci risponda dell’elevazione di noi medesimi (il che non può aversi se non a misura che siamo virtuosi), così questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento, ci fa essere generosi, affettuosi, benefici: la prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene.
Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimento altrui. Molti sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e liberare altri dal male, conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi, o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti, e più sicuri e brevi; ed occupato in questa ricerca industriosamente il saggio, distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose, e si renderà sempre più robusto per allontanare sé medesimo dalla infelicità.
Questa compassione de’ mali altrui non si trova che languidissima, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibre perdono la loro sensibilità egualmente o nel letargo, o nell’abuso delle ripetute sensazioni. Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fra le ridenti dissipazioni, vedrà un pallido padre di una numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassionevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un remo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità, che rende le anime delicate e raffinate nel sentimento, sarà massima in coloro che avendo idea de’ mali e provatili per qualche tempo, innamorati delle attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, nè assorbito da una passione violenta che annienti ogni altro movimento.
Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vita, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli, e chi persino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e come isolati o smarriti in uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno di avere un amico è piccolo negli uomini d’un carattere duro e poco sensibile, è grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli uomini posti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, negli avari, ne’ maligni e in tutti coloro i quali debbono temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esamineremo i beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amicizia, dubito che ne sarà per comparire una verità poco consolante. Sono tanto rari i caratteri meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo, che, cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli antichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar sempre coll’amico, come se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che questa sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita sarebbe mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’essere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in agguato, sempre in guardia, avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sagrificando il più nobile sentimento che mi rende sopportabile la vita? Io stimo che sia men male l’avventurarsi talvolta anziché l’esistere così solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del sublime entusiasmo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecillità; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uomini vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi. Perciò l’uomo che cerca la felicità non soffocherà nel suo animo il dolce bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l’abbia, si abbandonerà al suo cuore.
Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente, ed osservalo in varie circostanze felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principi; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dall’avidità delle ricchezze, dalla briga e dall’affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tali passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’un’azione generosa faccia comparire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’un’infamia dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservalo inalterabilmente i loro tratti! Esamina se infatti sia compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca a incensare il vizio armato di potere; se sia fedele alle promesse; se abbia il sublime coraggio di dare il torto a sé medesimo, quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padrone, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge a questo esame l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.
L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una scambievole uniformità di genio. Due onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico. Tanti uomini illustri e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei hanno scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne; nè questo discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lungo su questo delizioso argomento. Osserverò solamente che vi vuole moderazione per conservarci gli amici anche ne’ benefici medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi le riceve, e fa risguardare l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddisfare giammai. Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo di cuore vuol sempre che siavi la spontaneità ne’ proprj sentimenti, e che la riconoscenza istessa non sia tanto un dovere, quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazione di uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia; questa è più costante ed intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà; perchè sotto un governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s’avvicina al suo simile per rinforzo ed ajuto; e per lo contrario sotto un governo giusto e costante l’uomo ha un’esistenza propria all’ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza bisogno di soccorso.Sotto la sferza della scuola d’un pedagogo, fra i pericoli delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle società che chiamano di bel mondo, gli uomini passano la vita senza accostarsi all’amicizia. I caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e scontenti, perchè poca parte vi ha l’ingegno e meno il sentimento.
Se poi dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizione che la ragione c’insegna, troverà il saggio di essersi ingannato, soffrirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa una sventura, come una febbre da riguardarsi come un appannaggio della nostra sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fra le braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano dell’ingratitudine degli uomini, soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza de’ principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno dell’amicizia invece d’indebolire il tuo potere lo accrescano, cosicché per questi due sentimenti tu diverrai ancora più lontano dall’infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.
§ VIII. — SE I MEZZI PER VIVERE FELICI

CRESCANO OVVERO SCEMINSI IN QUESTO SECOLO.

Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si promove e dilata la felicità d’uno Stalo; sarebbe questo un argomento che da sé meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un si vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere, se gli uomini che attualmente vivono, abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla felicità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se da principio si è osservato dovere ogni uomo nel còrso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità; almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio de’ nostri simili che seppero sopportarne una più penosa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità. Il Muratori in cento luoghi si consolava della felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò un compendiosissimo prospetto.
Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci animati da un violento amore della gloria nazionale uscire dagli stretti confini del loro paese, e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa, soggiogando le genti attonite, che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore inalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte d’Europa. Passa la robusta virilità dall’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell’Orsa le generazioni d’uomini, che dall’Eusino e dalla Germania, invadendo il Romano Impero, tutto distruggono, niente sostituiscono: lottano con altri barbari; poi, indeboliti a poco, a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, nei quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti grandi e turbolenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore. Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti: quindi per molte generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate e l’educazione, comparve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della sicurezza della nazione si eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni, e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per loro stesse, e divennero un mero patrimonio de’ principi, i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per motivi personali de’ principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate: spettacolo ben diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti da’ loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armale di schiavi mercenari limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva a’ sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spagna li ritrovò nelle miniere del Potosi; tutte le Potenze si riscossero, si pensò a partecipare di questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricoltura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio; si conobbe che la pubblica sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso ed arbitrario ne è l’esterminatore. Quindi alcune nazioni per non deperire nella forza relativa adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui altre vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito, ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Europa; e i sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile e la felicità del popolo.
La repubblica delle lettere sparsa per tutta l’Europa, se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto. L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti prepara ano stromento con cui tu vedi oggetti lontani perfettamente. Il fisico ti perfeziona il magnetismo, e ti addita anche fra le tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto delle miniere, e a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacché la storia ci ha trasmesso i racconti, conosciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto de’pensaiori fa torto la ciarlataneria di alcuni che abusano di un misterioso linguaggio per arrogarsi una considerazione non meritata, i principi attenti ai veri loro interessi, e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più torbidi d’Europa si scuotano, a meno che l’estrema loro decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore negli animi, l’antica guerra di nazioni e non di principi; e per questo circolo passeranno in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in fatti i sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini: li vediamo rappresentare la maestà della nazione, e vegliare sulla felicità di essa, in guardia contro l’abuso del potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la beneficenza; i tributi ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno dello Stato, e servire allo stipendio di quella parte di sudditi, i quali per consecrarsi alla difesa della nazione forza è che sieno alimentati dal possessore di cui conservano la proprietà o combattendo, o dirigendo le cose pubbliche, o rischiarando i diritti di ciascuno e frenando i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli che servirono di modello al Segretario Fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV accadevano quando nella Lombardia il duca Giammaria Visconti passeggiava per le città scortato da ferocissimi mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per comando d’un sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le donne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante, che non si presterebbe credenza a un tal racconto, egli Stati suoi si spopolerebbero, correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di stato. Io non dirò che tutti gli Stati d’Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica: ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa l’infelicità: giacché si può bensì disputare se l’uomo fra gli Urani e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato di incivilimento, ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società sia più misero dello stato di società celta e legittima. Nella vita selvaggia può dirsi che l’eccesso de’ desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli sono limitati quasi a’ soli bisogni fisici, e questo è grande coll’agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione. Nello stato di società i desiderj sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione sovrana degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si scema da quello delle forze fisiche; ma  se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla fonte dell’equità e della giustizia sgorga il terrore e la devastazione, il potere di ogni uomo è vacillante, e l’eccesso de’ desideri diventa sommo. Si è forse trovato un ingegnoso paradosso, piuttosto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che gli uomini sociali; perchè si è creduto che con ciò si facesse il progetto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il selvaggio abbia tutti i bisogni ch’ei sente, e mancando di mezzi per soddisfarli conseguentemente rimanga disperato come ei lo sarebbe; ma la quistione è un oggetto di semplice speculazione; nè mai da questa potrà dedursene, che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate, se non se quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’industria, ed affrettando i progressi della verità, fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune l’uso di essa a’ cittadini in quante azioni della vita si può.
Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società: al mio intento basta soltanto di indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi nell’Asia, che forse in origine fu la patria antica anche di noi, l’indole del clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per periodi più brevi; se ivi i governi dispotici, antichissimamente istituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di generazioni; ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente confermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato somigliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.
Dal sin qui detto raccogliesi, che l’uomo ha più mezzi oggigiorno per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi dipendono da’ lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse dominano l’opinione, e questa il mondo. Il saggio le onora, e sopra di ogni altra coltiva la scienza di sé medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare sé stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.
CONCLUSIONE.

La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al destino sopra di noi; chimera rispettabile, ma pure chimera, perché l’uomo senza alcun desiderio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi de’ venti dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmente ne soffre il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci da’ desiderj contrari a lei e procurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere che è il nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini colti e naturalmente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni, per non aver credulo abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti, agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbolenta condizione ch’ei penetra a conoscere nell’interno altrui. La felicità del saggio comincia da lui, e si estende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di sé medesimo, mentre la prima si estende al di fuori di sé lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni; l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente cresce, e muore al primo gelo. Un antico poeta desiderava che l’uomo malvagio vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei, che gli uomini la vedessero, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno, anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso ed illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per oggetto d’invidia, e ti proverò che se fosse staio illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj, combina questi elementi; e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso de’ desideri sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicuro di te medesimo, de’ tuoi principi, della tua virtù.
Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani da noi medesimi, quanto gli spettacoli e le rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noia di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la capacità di ripiegarsi in sé stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del proprio potere, per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.

Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a godere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all’opposto merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che quell’uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicché nè l’una degeneri in asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemente stimato presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio resta egualmente distante e dall’inurbanità e da quella servile passività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principi costantemente seguiti e difesi. Fra le nazioni corrotte tu vedi il sorrìso sulla faccia dei cittadini. Fra le nazioni illuminate leggerai in fronte agli uomini l’onorata sicurezza e l’amore dell’ordine. In ogni nazione il saggia esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di sviluppare i primi elementi delle proprie idee affine di preservarsi dall’errore; e fra le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte è, che deve cercare la propria felicità.

sábado, 17 de agosto de 2013

COMPRENSIÓN DE LA DIVINIDAD


COMPRENSIÓN DE LA DIVINIDAD

©Giuseppe Isgró C.



La Doctrina Universal denota que, a través de los tiempos han existidos seres que han tenido una percepción en grado muy elevado de la Divinidad, que se corresponde ampliamente con la realidad susceptible de ser captada en los actuales estados de conciencia.
Nosotros ignoramos el grado de percepción que cada uno de los seres de los otros tres reinos naturales posee de Dios.
El ser humano, muy engreído de sí mismo, estima que los seres de cada uno de esos reinos, carecen de espíritus, y capacidad de pensar, empero, la realidad es que ellos sí poseen el mismo Espíritu del Ser Universal, dotado con análogos atributos divinos, potencialmente infinitos, con una conciencia que constituye una réplica idéntica a la de Él.
Dado lo anterior, estando los seres de cada uno de esos reinos naturales libres del condicionamiento limitante de los seres humanos, su capacidad perceptiva trasciende la de los humanos, como lo demuestran incontables pruebas, percibiendo y, probablemente, comprendiendo la naturaleza de la Divinidad en mayor grado que los seres humanos.
La percepción de que todo es UNO, y de que cada uno de los seres, en los cuatro reinos naturales, es una emanación del Ser Universal, formando una unidad indisoluble con Él, es universal, y ha sido percibida en todas las épocas y culturas, desde la más remota antigüedad.
Las diversas doctrinas orientales, el Hinduismo, el Taoísmo, el Sufismo, el Yoga, y el Kriya Yoga, la Masonería Universal y  el Espiritismo, entre otras corrientes de pensamientos, constituyen un ejemplo claro de esta evidencia.
. Los pensadores más relevantes como Hermes Trismegisto, Tales de Mileto, Pitágoras, Moisés Maimónides, Al Gazzali, Ibn Arabi, Rumi, Kabir, Ramakrisna, Gandhi, Tagore, Paúl Brunton y Joaquín Trincado, entre otros incontables más, han tenido percepciones sobre la Divinidad de gran interés, con una constante coincidencia.
Esa es la razón por la cual se hace preciso conocer todas las corrientes de pensamiento que conforman la Doctrina Universal: todas constituyen una herencia espiritual de la humanidad, por encima de las cuales debe predominar, únicamente, la verdad universal.
Empero, por encima de todo, es preciso percibir por sí la realidad de todo lo existente, y de manera especial de la Divinidad. Ello se logra centrando la atención en la Divinidad.
Adquiriendo conciencia de la unidad cósmica, perfecta e indisoluble, que se conforma con Ella. Por el principio de que, donde se centra la atención se expande la conciencia perceptiva, y el poder creador, o de acción que le es inherente, se le comenzará a percibir, a la DIVINIDAD, gradualmente, en la medida en que se medita en mayor grado, tanto en Ella como en sus atributos divinos, o valores universales.
Aprender a ver por sí, por medio de la meditación, y de la conexión divina, es la clave. Pero, ello precisa preparación, estudio constante, y adquirir la capacidad de ver más allá de las apariencias.
 La vida es un libro abierto, y quien sea capaz de prestar la atención suficiente a las cosas antepuestas a su atención será capaz de percibir la Presencia de la Divinidad en todo, y en el Todo, incluyendo en sí, el propio ser.
Es preciso aprender a oír, en el silencio interior, mediante la abstracción del propio ego, la voz del Ser Universal, que se expresa en la propia conciencia mediante el lenguaje de los sentimientos de los valores universales, cuya expresión sintética es el amor, que engloba a los sentimientos de todos los valores universales. Esa es la razón de que el amor simbolice en grado supremo a la Ley Cósmica, como ley matriz del universo.
Mientras más se centre la atención en la Divinidad, en mayor grado se le percibirá en todos los instantes, en los actos de la vida, como guía pedagógica.
La Divinidad es la voluntad rectora del Universo, la fuerza que lo mueve todo, y orienta, que conduce lo existente a su meta suprema: La conciencia cósmica y la expansión de la Creación Universal.
 Es el eterno retorno del ser individual al Ser Universal. Un trabajo para el eterno presente, en el cual la Divinidad, cada vez, se expresará en un nivel más elevado de conciencia, de acuerdo al Estado y a las estaciones, por las que ha pasado cada ser, en los cuatro reinos naturales: Humano, animal, vegetal y mineral.
En todos los seres de los cuatro reinos naturales late la misma esencia: La Divinidad, sin separarse de sí misma, y sin dejar de ser Ella misma.
Es preciso aprender a ver más allá de las apariencias, y de las diferencias. La realidad es una, a través de la inmensidad de los Estados de conciencias, expresada en infinitos grados, o estaciones evolutivas, según el bagaje existencial de cada quien.
Aquí se denota la importancia de centrar la atención en lo único que realmente importa: La Divinidad. Dado lo cual, todo lo demás vendrá por añadidura, automáticamente, sin esfuerzo, sin necesidad de pedirlo, dejando que la voluntad de la Divinidad se exprese por sí misma, en cada pensamiento, sentimiento, deseo, anhelo, palabra, acto u omisión de actos.
El ejercicio del libre albedrío debe efectuarse para que la única voluntad que se exprese sea la de la Divinidad, en la propia conciencia, ya que no existe más que la Divinidad, expresada  en la propia conciencia, réplica exacta de la de Ella.
Es necesario que la Divinidad tome el control de la propia vida mediante el cumplimiento de la Ley Cósmica impresa en la propia conciencia. Cumpliendo con la Ley Cósmica impresa en nuestra propia conciencia, habremos cumplido, en cada instante, con la Voluntad de la Divinidad. Es la misma Divinidad la que deja oír su propia voz dentro de la conciencia, mediante el lenguaje de los sentimientos de los valores universales, a cada momento, cuando se percibe la verdad, lo justo, la belleza, lo equitativo, el equilibrio, la fortaleza, y el sentido de la vida, en todos los actos existenciales.
En el reconocimiento de la voluntad divina expresada en la propia conciencia, se habrá percibido, a cada instante, a la misma Divinidad, cada vez en un mayor grado de comprensión.
Entonces surge, en la propia conciencia, la comprensión y la confirmación de aquella percepción de que nada se le asemeja a lo que la Divinidad quiere.
Adelante.


domingo, 11 de agosto de 2013

SUMA EXISTENCIAL


SUMA EXISTENCIAL

©Giuseppe Isgró C.


Dentro de la conciencia de cada ser existe una hoja de vida que representa el equivalente a una hoja de cálculo electrónica, en la cual cada registro suma, resta, divide y multiplica cantidades que, en forma automática, afectan el saldo total.
 En cada persona, ese saldo representa la SUMA EXISTENCIAL, el gran total de vida. El programa que rige el proceso, desde cada asiento hasta el resultado final, está basado en las leyes de afinidad, de justicia, de igualdad y de compensación.
Es decir, cada acto es pesado en la balanza de la justicia, cuyos platillos son la ley de igualdad y la de compensación. Todos los seres son iguales en la ley y ante ella; cada acto es pesado, y compensado, en la respectiva polaridad positiva o negativa: o suma o resta, en el saldo existencial.

El resultado, es decir, la suma existencial, otorga un poder de acción o de pasividad, y de acuerdo al respectivo saldo es ubicado, o reubicado, cada ser, en el orden que le corresponda, del cero al infinito. De manera, que, es un proceso automático e instantáneo.

miércoles, 7 de agosto de 2013

DEJAR DE COMPARARSE...


DEJAR DE COMPARARSE...

©Giuseppe Isgró C.


Las comparaciones siempre constituyen un riesgo para la propia auto-estima, ya que unas veces resultan favorables, otras, las mayorías de las veces, no.
Las comparaciones denotan inseguridad personal y una auto-estima poco fuerte. Teniendo, la persona, un auto-concepto sólido y elevado en relación a su propio ser, no precisa de comparaciones para sentirse bien. Simplemente se acepta tal como es, y a los demás tal como son. No se siente inferior cuando observa cualidades superiores en las demás personas, ni superior a nadie porque vea cualidades insuficientemente potenciadas en los demás. De los primeros precisa aprender; a los segundos, enseñar con su ejemplo.
En la naturaleza nadie es superior ni inferior a ningún otro ser, incluyendo los demás integrantes de los cuatro reinos naturales. Te sientes tú superior a una hormiguita? Pues, no deberías. Esa hormiguita en el contexto universal pesa tanto como tú, aunque puedas no creerlo. Es la misma vida que late, la misma inteligencia que actúa, la misma esencia divina la que yace en su propio ser. Lo que varía es el rol que la naturaleza de las cosas asignó a cada quien. Te has preguntado, alguna vez, que harías, con toda la superioridad que pudieses pensar que tienes, si estuvieses en el cuerpo de una hormiga? Probablemente tendrías que aprender el trabajo que ella hace a la perfección, y desarrollar un sinnúmero de cualidades que ella ya tiene optimizadas.
Seguramente, la hormiga tiene un mejor control de todas sus facultades físicas, mentales y espirituales de la que tiene cualquier ser humano normal. Y, probablemente, percibe a la Divinidad sin barreras de ningún tipo, o por lo menos, en un grado más elevado que gran número de personas.
Entonces, si no se es superior a una hormiguita, tampoco se es inferior ni a una hormiguita, ni a ningún otro ser humano. Cada quien tiene su propia importancia y es preciso apreciarla y respetarla.
En el momento en que respetamos a los demás seres de los cuatro reinos naturales, sea quienes fueren, ellos, automáticamente, respetarán en igual grado.
En el momento en que se deje de hacer daño a los demás seres en los cuatro reinos naturales, a su vez se fortalece el escudo protector en contra de cualquier eventual daño, ya que el mismo orden cósmico se ocupa de proteger a cada quien.
Aprendamos de quienes sepan más, o tienen mayor experiencia. Enseñemos, generosamente, a quienes lo precisen. Si queremos un mundo mejor, debemos aprender de quienes nos aventajan, y enseñar a quienes aventajamos en experiencia y conocimientos. Esto es válido en la vida en general, en cada profesión o gremio, en todas las sociedades. Primero, segundo, tercero, cuarto y quinto mundo, son denominaciones que no se corresponden con la realidad. En los países denominados de tercer mundo, pueden existir algunos valores que en los denominados del primer mundo, ni siquiera se sueñan con poseer, salvo excepciones, por supuesto.
Las Constituciones de todos los países garantizan la no discriminación por lugar de nacimiento, por grupo étnico, por sexo, por profesión, por espiritualidad, y por un largo etcétera. Pero, las discriminaciones existen aún en aquellos países que dicen no tenerla. Denota esto que, aún, es preciso fortalecer la auto-estima, y la visión universal de la vida.
Al comprender que en todo ser vibra la misma Divinidad, sin dejar de ser la Divinidad ni separarse de la Divinidad, esto permite percibir que más allá de las apariencias lo que existe es la misma Divinidad animando toda vida, o existencia, en los cuatro reinos naturales. El proceso de auto-aprendizaje es idéntico en todos los seres hasta adquirir conciencia de las propias raíces o Esencia Divina.
Cada ser es poseedor de todos los atributos de la Divinidad, y del poder creador, y de una conciencia que es la réplica exacta de la Divinidad. Aceptemos la propia importancia, y la de cualquier otro ser sin sentirnos ni superiores ni inferiores.
Somos poseedores de todos los tesoros del universo, siempre y cuando sepamos percibirlos allí donde se encuentran. Pese a que son inagotables, es preciso no despilfarrar su uso. Son tesoros compartidos por todos los seres en los cuatro reinos naturales, en todo el universo.

Esos tesoros son los atributos divinos y el poder potencialmente infinito que se poseen, además de la eterna e inmortal vida del Espíritu, y una conciencia que es la réplica exacta de la del Creador Universal.

Cualquier cosa que se imprima en la conciencia como objetivo esencial, necesario y que implique un reto, y la satisfacción de una necesidad o un anhelo genuino, se hará realidad, si cree que puedes y ello no implica sino un bien para ti y para todos los seres involucrados. 

Observa y descubre todas las cosas buenas e importantes por las cuales puedas dar, sinceramente, las gracias a la Divinidad. Haz una lista de, por lo menos, cien de las numerosas razones por las cuales puedes expresar gratitud. 

Aun se precisa expresar gratitud por todas aquellas situaciones que se encuentran pendientes de solución: Agradece a la Divinidad porque, cualquier situación que debas resolver, ya está resuelta en sus planes cósmicos. 

El poder de la gratitud te conecta con la Divinidad de múltiples formas y transforma tu vida en un manantial de eterno amor, sabiduría potencialmente infinita, sin límites de ninguna naturaleza, y te pone al mando de la potencia creadora universal, en tu respectivo nivel de conciencia. 

Dejar de compararse y en su lugar apreciar la Divinidad que es la esencia de tu ser y de cualquier otro con quien te interrelacionas, te fortalece en la conciencia de tu propio valor. 

Adelante. 


lunes, 5 de agosto de 2013

LA CIENCIA DEL HOMBRE, Alexis Carrel

Obra del pintor Miguel J. Isgró B.

LA CIENCIA DEL HOMBRE

Dr. Alexis Carrel
Premio Nobel de Medicina


I


Necesidad de elección en la masa de datos heterogéneos que poseemos acerca de nosotros mismos.– El concepto operacional de Bridgman.– Su aplicación en el estudio de los seres vivos.– Conceptos biológicos.– La mezcla, de conceptos de las diferentes ciencias.– Eliminación de los sistemas filosóficos y científicos, de las ilusiones y de los errores – El papel de las conjeturas.

Nuestra ignorancia de nosotros mismos es de una naturaleza particular. No proviene ni de la dificultad de procurarnos las informaciones necesarias, ni de su inexactitud ni de su rareza. Es debida, al contrario, a la extrema abundancia y a la confusión de las nociones que la humanidad ha acumulado a su propio respecto, durante el curso de las edades. Y también a la división de nosotros mismos en un número casi infinito de fragmentos por las ciencias que se han dividido el estudio de nuestro cuerpo y de nuestra conciencia. Este conocimiento ha permanecido en gran parte inutilizado. De hecho, es difícilmente utilizable. Su esterilidad se traduce por la pobreza de los esquemas clásicos que son la base de la medicina, de la higiene, de la pedagogía y de la vida social. política y económica. Sin embargo, existe una realidad viviente y rica en el gigantesco conjunto de definiciones, observaciones, doctrinas, deseos y sueños que representa el esfuerzo de los hombres hacia el conocimiento de ellos mismos. Al lado de los sistemas y de las conjeturas de los sabios y de los filósofos, se encuentran los sistemas positivos de la experiencia, de las generaciones pasadas y una multitud de observaciones conducidas con el espíritu y a veces con la técnica de la ciencia. Se trata únicamente de hacer, en estas cosas disparatadas, una elección juiciosa.
Entre los numerosos conceptos que se refieren al ser humano los unos son construcciones lógicas de nuestro espíritu. No se aplican a ningún ser observable por nosotros en el mundo. Los otros son la expresión pura y simple de la experiencia. A tales conceptos, Bridgman ha dado el nombre de conceptos operacionales. Un concepto operacional equivale a la operación o a una serie de operaciones, que deben hacerse para adquirirlos. En efecto, todo conocimiento positivo depende del empleo de cierta técnica. Cuando se dice que un objeto tiene la longitud de un metro, ello significa que el objeto tiene la misma longitud que una varilla de madera, o de metal cuya extensión fuera igual a la medida del metro conservada en París en la Oficina Internacional de pesos y medidas. Es evidente que sólo sabemos lo que podernos observar. En el caso precedente, el concepto de longitud es sinónimo de la medida de esta longitud, los conceptos que se relacionan con objetos colocados fuera del campo de la experiencia están, según Bridgman, desprovistos de sentido. Igualmente una pregunta carece absolutamente de significación, si es imposible encontrar las operaciones como acontece una, pregunta no posee significación alguna, si es imposible encontrar las operaciones que permiten darle una respuesta.
La precisión de un concepto cualquiera, depende la exactitud de las operaciones que sirven para adquirirlo. Si se define al hombre como compuesto de materia y de conciencia, se emite una proposición vacía de sentido. Porque las relaciones de la materia corporal y de la conciencia no han sido, hasta el presente, conducidas al campo de la experiencia. Pero se puede dar del hombre una definición operacional considerándolo como un todo indivisible que manifiesta actividades físico-químicas, fisiológicas y psicológicas. En biología como en física, los conceptos sobre los cuales es preciso edificar la, ciencia, aquellos que permanecerán siempre verdaderos, están ligados a ciertos procesos de observación. Por ejemplo el concepto que tenemos hoy día respecto de las células de la corteza cerebral, con sus cuerpos piramidales, sus prolongamientos dentríticos y su lisa enjundia, es el resultado de las técnicas de Ramón y Cajal. Es, pues, un concepto operacional y no cambiará sino con el progreso futuro de la técnica. Pero decir que las células cerebrales son el asiento de los procesos mentales, es una afirmación sin valor, porque no existe medio de observar la presencia de un proceso mental en el interior de las células cerebrales. Únicamente el empleo de los conceptos operacionales nos permite construir sobre terreno sólido. En el cúmulo inmenso de observaciones que poseemos sobre nosotros mismos debemos elegir los hechos positivos que corresponden a lo que existe, no sólo en nuestro espíritu, sino también en la naturaleza.
Sabemos que los conceptos operacionales que se relacionan con el hombre, los unos le son propios, los otros pertenecen a todos los seres vivientes; los otros, en fin, son aquellos de la química, de la física y de la mecánica. Hay tantos sistemas diferentes como capas diferentes en la organización de la materia viva. Al nivel de los edificios electrónicos, atómicos y moleculares, que existen en los tejidos del hombre como en los árboles o en las nubes, es preciso emplear los conceptos de «continuum» espacio-tiempo, de energía, de fuerza, de masa, y también aquellos de tensión osmótica, de carga eléctrica, de iones, de capilaridad, de permeabilidad, de difusión. Al nivel de los agregados más grandes que las moléculas, aparecen los conceptos de “micelle", de dispersión, de absorción, de floculación. Cuando las moléculas y sus combinaciones han edificado las células, y las células se han asociado en órganos y en organismos, es preciso agregar a los conceptos precedentes, los de cromosoma, de génesis, de herencia, de adaptación, de tiempos fisiológicos, de reflejos, de instintos, etc. Se trata de los conceptos fisiológicos propiamente dichos. Estos coexisten con los conceptos físico-químicos, pero no le son reductibles. En el estado más alto de su organización, existen, aparte de las moléculas, las células y los tejidos, un conjunto compuesto de órganos, de humores y de conciencia., Los conceptos físico-químicos y fisiológicos se hacen insuficientes. Hay que agregar los conceptos psicológicos, que son específicos del ser humano. Tales son la inteligencia, el sentido moral, el sentido estético, el sentido social. A las leyes de la termo-dinámica, y a las de la adaptación, por ejemplo, nos vemos obligados a sustituir los principios del mínimo de esfuerzo, por el máximo de goce o de rendimiento, la persecución de la libertad, de la igualdad, etc.
Cada sistema de conceptos no puede emplearse de manera legítima sino en el dominio de la ciencia a la cual pertenece. Los conceptos de la física, de la química, de la fisiología, son aplicables a las capas superpuestas de la organización corporal. Pero no es permitido confundir los conceptos propios de una capa determinada, con los que son específicos de otra. Por ejemplo, la segunda ley de la termo-dinámica indispensable al nivel molecular es inútil al nivel psicológico donde se aplica el principio del menor esfuerzo para el máximo de goce. El concepto de la capilaridad y el de la tensión osmótica, no alumbran lo suficiente los problemas de la conciencia. La aplicación de un fenómeno psicológico en términos de fisiología celular, o de mecánica electrónica, no es más que un juego verbal. Sin embargo, los fisiólogos, del siglo XlX y sus sucesores, que se perpetúan entre nosotros, han cometido ese error, procurando reducir al hombre entero a la físico-química. Esta generalización injustificada de nociones exactas, ha sido la obra de sabios excesivamente especializados. Es indispensable que cada sistema de conceptos conserve su rango propio en la jerarquía de las ciencias.
La confusión de los conocimientos que poseemos sobre nosotros mismos, proviene sobre todo de la presencia, entre los hechos positivos, de residuos de sistemas científicos, filosóficos y religiosos. La adhesión de nuestro espíritu a un sistema cualquiera, cambia el aspecto y la significación de los fenómenos observados por nosotros. En todos los tiempos, la humanidad ha sido contemplada a través de cristales teñidos por las doctrinas, las creencias y las ilusiones. Son estas nociones falsas e inexactas las que importa suprimir. Como lo escribiera antes Claude Bernard, es preciso desembarazarse de los sistemas filosóficos y científicos, como podría arrancarse las cadenas a una esclavitud intelectual. Esta liberación no se ha realizado aun. Los biólogos, y sobre todo los educadores, los economistas y los sociólogos, se encuentran frente a problemas de una complicación extrema, cediendo a menudo a la tentación de construir hipótesis, para elaborar en seguida artículos de fe. Los sabios se han mantenido inmovilizados en fórmulas tan rígidas como los dogmas de una religión. En todas las ciencias encontramos el recuerdo embarazoso de semejantes errores. Uno de los más célebres, ha dado lugar a la gran querella de bis vitalistas y los mecanicistas cuya futilidad nos sorprende hoy día. Los vitalistas pensaban que el organismo era una máquina cuyas partes se integraban gracias a un factor no físico-químico. Después de ellos, los procesos responsables de la unidad del ser viviente, se dirigieron por un principio independiente, una entelequia, una idea análoga a la del ingeniero que construye una máquina. Este agente autónomo, no era una forma de energía y no creaba energía. No se ocupaba sino de la dirección del organismo. Evidentemente, la entelequia no es un concepto operacional. Es una pura construcción del espíritu. En suma, los vitalistas consideraban el cuerpo como una máquina dirigida por un ingeniero a quien llamaban entelequia. Y no se daban cuenta de que este ingeniero, esta entelequia, no era otra cosa que su propia inteligencia. En cuanto a los mecanicistas, creían que todos los fenómenos fisiológicos y psicológicos son explicables por las leyes de la física, de la química y de la mecánica. Construían también, de esa manera, una máquina de la cual ellos venían a ser el ingeniero. En seguida, como lo hace notar Woogger, olvidaban la existencia de este ingeniero. Este concepto no es operacional. Es evidente que el mecanicismo y el vitalismo deben ser dejados de lado por las mismas razones que debe dejarse de lado otro sistema cualquiera. Hace falta al mismo tiempo liberarnos de la masa de ilusiones, errores, observaciones mal hechas, falsos problemas perseguidos por los débiles de espíritu de la ciencia, los pseudo-descubrimientos de los charlatanes y los sabios celebrados por la prensa cotidiana. Y también, de aquellos trabajos tristemente inútiles, largos estudios de cosas sin significación, inextricable confusión que se levanta como una montaña, desde que la investigación científica se ha convertido en profesión, como la de los maestros de escuela, pastores y empleados de banco.
Hecha, ya esa eliminación, nos quedan los resultados de los pacientes esfuerzos de todas las ciencias que se ocupan del hombre, y el tesoro de observaciones y experiencias que ellas han acumulado. Basta con buscar en la historia de la humanidad, para encontrar la expresión más o menos neta de todas estas actividades fundamentales. Al lado de las observaciones positivas y de los hechos evidentes, hay una cantidad de cosas que no son ni positivas ni evidentes y que no deben ser, sin embargo, rechazadas. Ciertamente, los conceptos operacionales solos permiten colocar el conocimiento del hombre sobre una base sólida. Pero, únicamente también, la imaginación creadora puede inspirarnos las conjeturas y los ensueños de donde deberá nacer el plan de las construcciones futuras. Es preciso, pues, continuar haciéndonos preguntas que, desde el punto de vista de la sana crítica científica, no tienen sentido alguno. Por otra parte, aunque procuráramos prohibir a nuestro espíritu la investigación de lo imposible y de lo inconocible, no lo lograríamos. La curiosidad es una necesidad de nuestra naturaleza humana. Es un impulso ciego, que no obedece a regla alguna. Nuestro espíritu se infiltra en torno de las cosas del mundo exterior y en las profundidades de nosotros mismos, de manera tan irresistible y carente de razón, como explora un ratoncillo con ayuda, de sus patitas hábiles los menores detalles del sitio donde está encerrado. Es esta curiosidad quien nos fuerza a descubrir el universo. Nos arrastra irresistiblemente en su persecución por lo más desconocidos caminos. Y las montañas infranqueables se desvanecen ante ellas como el humo dispersado por el viento.

II
Es indispensable hacer un inventario completo.– Ningún aspecto del hombre debe parecernos privilegiado.– Evitar dar una importancia exagerada a alguna parte del mismo con perjuicio de las otras.– No limitarse a lo que es sencillo.– No suprimir lo que es inexplicable.– El método científico es aplicable a toda la extensión del ser humano.

Es indispensable hacer de nosotros mismos un examen completo. La pobreza de los esquemas clásicos proviene de que, a pesar de la extensión e nuestros conocimientos, jamás nos hemos observado de una manera general. En efecto, no se trata de coger el aspecto que presenta el hombre en cierta época o en ciertas condiciones de vida, sino de conocerlo en todas sus actividades, aquellas que se manifiestan ordinariamente y también aquellas que pueden permanecer virtuales. Una información tal no es obtenible sino por la investigación cuidadosa en el mundo presente y en el pasado, manifestaciones de nuestros poderes orgánicos y mentales, e igualmente, por un examen a la vez analítico y sintético de nuestra constitución y de nuestras relaciones físicas, químicas y psicológicas con el medio exterior. Es preciso seguir el sabio consejo de Descartes en el “Discurso del Método” dado a aquellos que buscan la verdad, y dividir nuestro sujeto en tantas partes corno sea necesario, para hacer de cada una de ellas un inventario completo. Pero debemos saber, al mismo tiempo, que esta división no es sino un artículo metodológico, que está creado por nosotros y que el hombre permanece siendo un todo indivisible.
No hay territorios privilegiados. En la inmensidad de nuestro mundo interior, todo tiene un significado. No podemos escoger únicamente lo que nos conviene a gusto de nuestros sentimientos; de nuestra fantasía, de la forma científica y filosófica de nuestro espíritu. La dificultad o la oscuridad de un objeto no es razón suficiente para abandonarle. Deben emplearse todos los métodos. Lo cualitativo es tan verdadero como lo cuantitativo. Las relaciones expresables en lenguaje matemático no poseen una realidad mayor que las que no lo son. Darwin, Claude Bernard y Pasteur que no pudieron describir sus descubrimientos con fórmulas algebraicas, fueron tan grandes sabios como Newton y Einstein. La realidad no es necesariamente clara, y sencilla. No podemos tener la seguridad de que sea siempre inteligible para nosotros. Por lo demás, se presenta bajo formas infinitamente variadas. Un estado de conciencia, el hueso húmero, una llaga, son cosas igualmente verdaderas. Un fenómeno no logra su interés por la facilidad con la cual nuestros técnicos se aplican a su estudio. Debe ser juzgado en función, no de observador y de sus métodos, sino de sujeto, de ser humano. El dolor de la madre que ha perdido a su hijo, la angustia del alma mística sumergida en la noche oscura, el sufrimiento del enfermo devorado por un cáncer, son de una evidente realidad, aunque no sean mensurables. No tenemos derecho mayor de abandonar el estudio de los fenómenos de clarividencia que los de la cronaxia de los nervios, bajo el pretexto de que la clarividencia no se produce a voluntad y no se mide, mientras que la cronaxia puede medirse con un método científico. Es preciso servirse en este inventario de todos los medios posibles y contentarse con observar, lo que no puede medirse.
Sucede a menudo que se da una importancia exagerada a cualquier parte a costa de las otras. Estamos obligados a considerar en el hombre sus . diferentes aspectos: físico-químico, anatómico, fisiológico, metapsíquico; intelectual, moral, artístico, espiritual, económico, social, etc. Cada sabio, gracias a una deformación social bien conocida, se imagina que conoce al ser humano mientras que, en realidad, no ha cogido de él sino una parte minúscula. Los aspectos más fragmentarios se consideran como capaces de expresar el todo. Y estos aspectos son tomados al azar de la moda que, de cuando en cuando, da más importancia, al individuo que a la sociedad, a los apetitos fisiológicos o a las actividades espirituales, a la potencia del músculo o a la del cerebro, a la, belleza o a la utilidad, etc. Es por ello que el hombre se nos aparece con múltiples facetas. Elegimos arbitrariamente entre éstas las que nos convienen y olvidamos a las otras.
Otros de los errores consiste en cercenar del inventario parte de la realidad. Y ello se debe a multitud de causas. Estudiamos con preferencia los sistemas fácilmente aislables, aquellos que son únicamente abordables por métodos sencillos. Abandonamos, en cambio, los más complejos. Nuestro espíritu gusta de la precisión y de la seguridad de las soluciones definitivas. Existe en él una tendencia casi irresistible a elegir los sujetos de estudio, más por su facilidad técnica y su claridad, que por su importancia. Por esta razón, los fisiólogos modernos se ocupan sobre todo de los fenómenos físico-químicos que se observan en los animales vivos y abandonan los procesos fisiológicos y la psicología. Lo mismo, los médicos se especializan en sujetos cuyas técnicas son sencillas y ya conocidas, mucho más que en el estudio de las enfermedades degenerativas, de las neurosis y las psicosis que exigirían la intervención de la imaginación y la creación de nuevos métodos. Cada cual sabe, sin embargo, que el descubrimiento de algunas leyes de la organización de la materia viva, sería más importante que, por ejemplo, la del ritmo de las pestañas vibrátiles de las células de la tráquea. Sin duda alguna valdría, mucho más emancipar a la humanidad del cáncer, de la tuberculosis, de la arterioesclerosis, de la sífilis y de los males innumerables aportados por las enfermedades mentales y nerviosas, que absorberse en el estudio minucioso de los fenómenos físico-químicos de importancia secundaria que se producen en el curso de las enfermedades. Las dificultades técnicas son las que nos conducen a veces a eliminar ciertos sujetos del dominio de la investigación científica y a rehusarles el derecho de hacerse conocer por nosotros.
A veces, los hechos más importantes son completamente suprimidos. Nuestro espíritu tiene una tendencia natural a arrojar a un lado, lo que no entra en el cuadro de las creencias científicas o filosóficas de nuestra época. Los sabios, después de todo, son hombres. Están impregnados, por lo tanto, por los prejuicios de su medio y de su tiempo. Creen de buena fe que lo que no es explicable por las teorías corrientes, no existe. Durante el período en que la fisiología se encontraba identificada a la físico-química, el período de Jacques Loeb y de Bayliss, el estudio de los fenómenos mentales se abandonó. Nadie se interesaba en la psicología y en las enfermedades del espíritu. Aun hoy día, la telepatía y los otros fenómenos metapsíquicos se consideran como ilusiones por los sabios que se interesan únicamente en el aspecto físico-químico de los procesos fisiológicos. Los hechos más evidentes son ignorados cuando tienen una apariencia heterodoxa. Por todas estas razones el inventario de las cosas capaces de conducirnos a una concepción mejor del ser humano ha permanecido incompleto. Es preciso, pues, volver a la observación ingenua de nosotros mismos bajo todos nuestros aspectos, no abandonar ningún detalle, y describir sencillamente lo que vemos.
En principio, el método científico no parece aplicable al estudio de la totalidad de nuestras actividades. Es evidente que nosotros, los observadores, no somos capaces de penetrar en todas la regiones en que se prolonga la persona humana. Nuestras técnicas no cogen lo que no tienen dimensiones ni peso. No alcanzan sino las cosas colocadas en el espacio y el tiempo. Son impotentes para medir la, vanidad, el odio, el amor, la belleza, la elevación hacia Dios del alma religiosa, el ensueño del sabio y el del artista. Pero registran con facilidad el aspecto fisiológico y los resultados materiales de esos estados psicológicos. El juego frecuente de las actividades mentales y espirituales, se expresa por cierto comportamiento, ciertos actos, cierta actitud hacia nuestros semejantes. De este modo es como las actividad moral, estética, mística, pueden ser exploradas por nosotros, Tenemos también a nuestra disposición los relatos de aquellos que han viajado en esas regiones desconocidas. Pero la expresión verbal de sus experiencias es, en general, desconcertante. Aparte del dominio intelectual, nada es definible de manera clara. Ciertamente, la imposibilidad de medir una cosa no significa su no existencia. Cuando se navega en la niebla, las rocas invisibles no están por ello menos presentes. De cuando en cuando, sus contornos amenazantes aparecen de súbito. En seguida la nube se cierra sobre ellas. Lo mismo ocurre con la realidad evanescente de las visiones de los artistas y sobre todo de los grandes místicos. Estas cosas, inasibles por medio de nuestras técnicas, dejan sin embargo sobre los iniciados una visible huella. De esta manera indirecta es como la ciencia conoce el mundo espiritual donde, por definición, no puede penetrar. El ser humano se encuentra, pues, entero, en la jurisdicción de las técnicas científicas.

III

Es preciso desarrollar una ciencia verdadera del hombre.– esta es más necesaria que las ciencias mecánicas, físicas y químicas.– Su carácter analítico y sintético.

En suma, la critica de los conocimientos que poseemos nos proporciona nociones positivas y numerosas. Gracias a estas nociones, podemos hacer un inventario completo de nuestras actividades. Este inventario nos permitirá construir esquemas más ricos que los esquemas clásicos.
Pero el progreso así obtenido no será muy grande. Es preciso ir más lejos y edificar una ciencia verdadera del hombre. Una ciencia que, con ayuda de todas las técnicas conocidas, haga una exploración más profunda de nuestro mundo interior, y realice también la necesidad de estudiar cada parte en función del conjunto. Para desarrollar una ciencia tal, sería necesario, durante algún tiempo, alejar nuestra atención de los progresos mecánicos, y aun en cierta medida, de la higiene clásica, de la medicina, y del aspecto puramente material de nuestra existencia. Cada cual se interesa en lo que aumenta la riqueza y el confort, pero nadie se da cuenta de que es indispensable mejorar la calidad estructural, funcional y mental de cada uno de nosotros. La salud de la inteligencia y de los sentimientos afectivos, la disciplina moral y el desarrollo espiritual son tan necesarios como la salud orgánica y la prevención de las enfermedades infecciosas.
No existe ninguna ventaja en aumentar el número de las invenciones mecánicas. Quizás, incluso. sería conveniente dar menos importancia a los descubrimientos de la física, d e la astronomía y de la química. Ciertamente, la ciencia pura no nos aporta jamás directamente el mal. Pero se torna peligrosa cuando, por su belleza fascinadora, encierra por completo nuestra inteligencia en la materia inanimada. La humanidad debe hoy día concentrar su atención sobre sí misma y sobre las causas de su incapacidad moral e intelectual. ¿A qué aumentar el confort, el lujo, la belleza, la grandeza y la complicación de nuestra civilización si nuestra, debilidad no nos permite dirigirla? – Es realmente inútil continuar la elaboración de un modo de existencia que trae consigo la desmoralización y la desaparición de los elementos más nobles de las grandes razas. Valdría más ocuparnos de nosotros mismos que construir enormes telescopios para explicar la estructura de las nebulosas, fabricar barcos rapidísimos, automóviles de un confort supremo, radios maravillosas. ¿Cuál será el progreso verdadero que lleguemos a obtener cuando los aviones nos transporten en escasas horas a Europa o a la China? ¿Es acaso necesario aumentar sin cesar la producción, a fin de que los hombres consuman una cantidad más y más grande de cosas inútiles? No son las ciencias mecánicas, físicas y químicas las que nos aportarán la moralidad, la inteligencia, la salud, el equilibrio nervioso, la, seguridad, la paz.
Hace falta que nuestra curiosidad se encamine por rutas diferentes a aquellas por donde hasta ahora ha marchado. Debe dirigirse de lo físico y de lo fisiológico hacia lo mental y lo espiritual. Hasta el presente, las ciencias de las cuales se, ocupan los seres humanos, han limitado su actividad sólo a, ciertos aspectos de ellas mismas. No han logrado sustraerse a la influencia del dualismo cartesiano. Han estado dominadas por el mecanicismo. En filosofía, en higiene, en medicina, lo mismo que en el estudio de la pedagogía o de la economía política y social, la atención de los investigadores ha sido atraída sobre todo por el aspecto orgánico, humoral o intelectual del hombre. No se ha detenido en su forma afectiva y moral, en su vida interior, en su carácter, en sus necesidades estéticas y religiosas, en el “substratum” común de los fenómenos orgánicos y psicológicos, en las relaciones profundas del individuo y de su medio mental y espiritual. Hace falta, pues, un cambio radical de orientación. Ese cambio exige, a la vez, especialistas dedicados a las ciencias particulares que se han dividido nuestro cuerpo y nuestro espíritu, y sabios capaces de reunir, en conjunto, los descubrimientos de los especialistas. La ciencia nueva debe progresar, por un doble esfuerzo de análisis y de síntesis, hacia una concepción del hombre bastante completa y simple para servir de base a nuestra acción.

IV
Para analizar al hombre hacen falta multitud de técnicas.– Son las técnicas las que han creado la división del hombre en partes.– Los especialistas.– Sus peligros.– Fragmentación indefinida del sujeto.– La necesidad de sabios no especializados.– Cómo mejorar los resultados de las investigaciones.– Disminución del número de sabios y establecimiento de condiciones propias a la creación intelectual.

El hombre no es divisible en partes. Si se aislasen sus órganos unos de otros, dejaría de existir. Aunque indivisible, presenta aspectos diversos. Sus aspectos son la manifestación heterogénea de su unidad a nuestros órganos de los sentidos. Puede compararse a una lámpara eléctrica que se muestra bajo formas diferentes a un termómetro, a un voltímetro y a una placa fotográfica. No somos capaces de tomarlo entero directamente en su sencillez. Le asimos por medio de nuestros sentidos y de nuestros aparatos científicos. Siguiendo. nuestros medios de investigación, su actividad nos aparece como física, química, fisiológica o psicológica. A causa de su propia riqueza, exige ser analizado por técnicas variadas. Al expresarse a nosotros por intermedió de estas técnicas adquiere naturalmente la apariencia de la multiplicidad.
La ciencia del hombre se sirve de todas las otras ciencias. Es una de las razones de su dificultad. Para estudiar, por ejemplo, la influencia de un factor psicológico sobre un individuo sensible, hace falta, emplear los procedimientos de la medicina, de la fisiología, de la física y de la química. Supongamos, por ejemplo, que una mala noticia se le anuncie a alguien. Este suceso psicológico puede traducirse a la vez por un sufrimiento moral, por trastornos nerviosos, por desórdenes de la circulación sanguínea, por modificaciones físico-químicas de la sangre, etc. En el hombre, la más sencilla de las experiencias exige el uso de métodos y de conceptos de muchas ciencias a la vez. Si se desea examinar el efecto de cierto alimento animal o vegetal sobre un grupo de individuos, es preciso conocer primero la composición química de este alimento. Y en seguida, el estado fisiológico y psicológico de los individuos sobre los cuales deben conducirse estos estudios, y sus caracteres ancestrales. En fin, en el curso de la experiencia se registran las modificaciones de peso, de la talla, de la forma del esqueleto, de la fuerza muscular, de la susceptibilidad a las enfermedades, de los caracteres físicos, químicos y anatómicos de la sangre, de equilibrio nervioso, de la inteligencia, del valor, de la fecundidad, de la longevidad, etc.
Es evidente que ningún sabio es capaz, por sí solo, de alcanzar la maestría en las técnicas necesarias para el estudio de un solo problema humano. Asimismo, el progreso del conocimiento de nosotros mismos exige especialistas variados. Cada, especialista se, absorbe en el estudio de una parte del cuerpo o de la conciencia, o de sus relaciones con el medio. Es anatomista, fisiólogo, químico, psicólogo, médico, higienista, educador, sacerdote, sociólogo, economista. Y cada especialidad se divide en trozos más y más pequeños. Existen especialistas para la fisiología de las glándulas, para las vitaminas, para las enfermedades del recto, para la educación de los niños pequeños, para la de los adultos, para la higiene de las fábrica, para la de las prisiones, para la psicología de todas las categorías de individuos, para la economía doméstica, para la economía rural, etc. etc. Y gracias a, la división del trabajo, se han desarrollado las ciencias particulares, la especialización de los sabios es indispensable. Le resulta imposible a un especialista, engolfado activamente en la prosecución de su propia tarea, conocer el conjunto del ser humano. Esta situación se ha hecho necesaria por la enorme extensión de cada ciencia. Pero ofrece ciertos peligros. Por ejemplo, Calmette, que se había, especializado en la bacteriología, quiso impedir la propagación de la tuberculosis entre la población de Francia. Naturalmente, prescribió el empleo de la vacuna que había inventado. Si, en lugar de ser un especialista, hubiese tenido conocimientos más generales de higiene y de medicina, habría aconsejado medidas que interesaran, a la vez, a la habitación, la alimentación, el modo de trabajo y los hábitos de vida de las gente. Un hecho análogo se produjo en Estados Unidos en la organización de las escuelas primarias. John Dewey, que es un filósofo, emprendió la tarea de mejorar la educación de los niños. Pero sus métodos se dirigieron únicamente al esquema, niño que su deformación profesional le representaba. ¿Cómo una educación tal podría convenir al niño concreto?
La especialización extrema de los médicos es más peligrosa aún. El ser humano enfermo, ha sido dividido en pequeñas regiones. Cada región tiene su especialista. Cuando aquél se dedica, desde el principio de su carrera, a una parte minúscula del cuerpo, permanece hasta tal punto ignorante del resto, que no es capaz de conocer bien esta parte. Fenómenos análogos se producen en los educadores, los sacerdotes, los economistas y los sociólogos que se niegan a iniciarse en un conocimiento general del hombre, antes de limitarse a su campo particular. La eminencia misma de un especialista lo vuelve más peligroso. A menudo los sabios que se han distinguido de modo extraordinario por grandes descubrimientos, o por invenciones útiles, llegan a creer que sus conocimientos acerca de un objeto, se extienden a todos los otros. Edison, por ejemplo, no dudaba en dar parte al público de sus puntos de vista sobre filosofía y religión. Y el público acogía su palabra con respeto, figurándose que tenía, sobre estos nuevos asuntos, la misma autoridad que sobre los antiguos. Y así es como, grandes hombres, al ponerse a enseñar cosas que ignoran, retardan en alguno de sus dominios el progreso humano, al cual han contribuido en otro. La prensa cotidiana nos obsequia a menudo con lucubraciones sociológicas, económicas y científicas, de industriales, banqueros, abogados, profesores, médicos, etc. cuyo espíritu demasiado especializado es incapaz de coger, en toda su amplitud, los grandes problemas de la hora presente. Ciertamente, los especialistas son necesarios. La ciencia no puede progresar sin ellos, pero la aplicación al hombre del resultado de sus esfuerzos, exige la síntesis previa de los conocimientos dispersos del análisis.
Tal síntesis no puede lograrse por la simple reunión de un grupo de especialistas en torno de una mesa. Reclama el esfuerzo, no de un grupo sino de un hombre. Jamás una obra de arte ha sido hecha por un comité de artistas, ni un gran descubrimiento por un comité de sabios. Las síntesis de que tenemos necesidad para el progreso del conocimiento de nosotros mismos deben elaborarse en un cerebro único. Hoy día, los conocimientos acumulados por los especialistas permanecen inutilizables. Porque nadie coordina las nociones adquiridas, ni se enfrenta con el ser humano en su conjunto total. Poseemos muchos trabajadores científicos pero pocos sabios verdaderos. Esta situación singular no proviene de la ausencia de individuos capaces de un gran esfuerzo intelectual. Ciertamente, las vastas síntesis exigen mucho poder mental y una resistencia física a toda prueba. Los espíritus amplios y fuertes son más raros que los precisos y estrechos. Es fácil llegar a ser un gran químico, un buen físico, un buen biólogo, o un buen psicólogo. Pero, exclusivamente, los hombres excepcionales son capaces de adquirir un conocimiento que se pueda utilizar en numerosas ciencias a la vez. Sin embargo, existen tales hombres. Entre los que nuestras instituciones científicas y universitarias han forzado a especializarse con excesiva estrechez, algunos serían capaces de asir un objeto importante en su conjunto al mismo tiempo que en sus partes. Hasta el presente, se ha favorecido siempre a los trabajadores científicos que se aíslan en estrecho campo, entregándose al estudio prolongado de un detalle, a veces insignificante. A un trabajo original sin importancia se lo considera de un valor superior al del conocimiento profundo de toda una ciencia. Los presidentes de universidades y sus consejeros, no comprenden que los espíritus sintéticos son tan indispensables como los espíritus analíticos. Si la superioridad de este tipo intelectual fuere reconocida y se favoreciese su desarrollo, los especialistas dejarían de ser peligrosos. Porque la significación de las partes en la construcción del conjunto podría ser evaluada justamente.
En los comienzos de su historia, más que en su apogeo, tiene una ciencia necesidad de espíritus superiores. Por ejemplo, hace falta más imaginación, juicio e inteligencia para convertirse en un gran médico que para llegar a ser un gran químico. En estos momentos, el conocimiento del hombre no puede progresar si no es atrayendo hacia su estudio una poderosa “élite” intelectual. Debemos exigir altas capacidades mentales a los jóvenes que desean consagrarse a la biología. Parece que el exceso de la especialización, el aumento del número de trabajadores científicos, y su disgregación en sociedades limitadas al estudio de un sujeto pequeño, han conducido a un retroceso de la inteligencia. Es verdad que la calidad de un grupo humano disminuye cuando su volumen aumenta más allá de ciertos límites. La Corte Suprema de los Estados Unidos so compone de nueve hombres verdaderamente eminentes por su habilidad profesional y por su carácter. Pero si se compusiera de novecientos juristas en lugar de nueve, el público perdería, en seguida y con razón, el respeto que siente por ella.
El mejor medio de aumentar la inteligencia de los sabios sería disminuir su número. Bastaría con un grupo muy pequeño de hombres de esta especie para desarrollar los conocimientos de los cuales tenemos necesidad, si estos hombres estuviesen dotados de imaginación, y dispusieran de potentes medios de trabajo. Cada año derrochamos grandes sumas de dinero en investigaciones científicas porque aquellos a quienes estas investigaciones les son confiadas no poseen en grado bastante alto las cualidades indispensables a los conquistadores de nuevos mundos. Y también, porque los raros hombres que poseen estas cualidades se encuentran situados en condiciones de vida en que la creación intelectual es imposible. Ni los laboratorios, ni los aparatos científicos, ni la excelencia de la organización del trabajo, procuran, ellos solos, al sabio el medio que le es necesario. La vida moderna se contrapone a la vida del espíritu. Los hombres de ciencia se encuentran sumidos en una muchedumbre cuyos apetitos son puramente materiales y cuyas costumbres son enteramente diferentes a las suyas. Desgastan sus fuerzas inútilmente y pierden gran parte de su tiempo en la persecución de las condiciones indispensables para el trabajo del pensamiento. Ninguno de ellos es bastante rico para procurarse el aislamiento y el silencio que cada cual podía obtener antes y de manera gratuita, aún en las grandes ciudades. No se ha ensayado hasta el presente crear, en medio de la agitación de la ciudad moderna, islotes de soledad donde sea posible la meditación. Sin embargo la innovación se impone. Las altas construcciones sintéticas están fuera del alcance de aquellos cuyo espíritu se dispersa cada día en la confusión de los modos de vida actuales. El desarrollo de la ciencia del hombre, más aun que el de otras ciencias, depende de un inmenso esfuerzo intelectual. Reclama una revisión, no sólo de nuestra concepción del sabio, sino también de las condiciones en las cuales se efectúa la investigación científica.

V
La observación y la experiencia en la ciencia del hombre.– La dificultad de las experiencias comparativas.– La lentitud de los resultados.– Utilización de los animales.– Las experiencias hechas sobre animales de inteligencia superior.– La organización de las experiencias de larga duración.

Los seres humanos se prestan mal a la observación y a la experiencia. No se encuentra fácilmente entre ellos testimonios idénticos a la materia a tratar y a quienes puedan referirse los resultados finales. Supongamos, por ejemplo, que se pretende comparar dos métodos de educación. Se elegirán, para este estudio, grupos de niños tan semejantes como sea posible. Si estos niños, aunque de la misma edad y de la misma talla, pertenecen a medios sociales diferentes, si no se alimentan de la misma manera, si no viven en la misma atmósfera psicológica, los resultados no serán comparables. De igual modo, el estudio de los efectos de dos formas de vida sobre los niños de una misma familia tiene escaso valor, porque no siendo puras las razas humanas, los productos de los mismos padres difieren a menudo los unos de los otros de una manera profunda. Por el contrario, los resultados serán convincentes si los niños, cuyo comportamiento se compara, bajo la influencia de condiciones diferentes, son gemelos que provienen del mismo huevo. Se está, pues, en general, obligado a contentarse con resultados vagos o relativos. Esta es una de las razones por lo cual la ciencia del hombre ha progresado tan lentamente.
En las investigaciones que se refieren a la física o a la química, y también a la fisiología, se procura siempre aislar sistemas relativamente sencillos cuyas condiciones se conocen con exactitud. Pero, cuando se procura estudiar al hombre en su conjunto, y en las relaciones con su medio, esto es imposible. También debe el observador estar provisto de gran sagacidad a fin de no perderse en la complejidad de los fenómenos. Las dificultades resultan casi infranqueables en los estudios retrospectivos. Estas investigaciones exigen un espíritu muy alerta. Por cierto, hace falta recurrir rara vez a la ciencia de la conjetura que es la historia. Pero han habido, en el pasado, ciertos sucesos q e revelan la existencia en el hombre de potencias extraordinarias. Sería importante conocer su génesis. ¿Cuáles son, por ejemplo, los factores que determinaron en la época de Pericles la aparición simultánea de tantos genios? Un fenómeno análogo se produjo durante el Renacimiento. ¿A qué causas es preciso atribuir el florecimiento inmenso, no sólo de la inteligencia, de la imaginación científica y de la intuición estética, sino también del vigor físico, de la audacia, y del espíritu de aventura, de los hombres de esa época? ¿Por qué nacieron dotados de tan poderosas actividades fisiológicas y mentales? Se concibe cuán útil resultaría conocer los detalles del modo de vivir, de la alimentación, de la educación, del medio intelectual, moral, estético y religioso de las épocas que precedieron inmediatamente a la aparición de pléyades de grandes hombres.
Otra de las dificultades de las experiencias hechas sobre seres humanos proviene de que el observador y el objeto observado viven al mismo ritmo. Los efectos de una clase de alimentación determinada, de una disciplina intelectual o moral, de un cambio político o social son tardíos. Sólo al cabo de treinta o cuarenta años se puede apreciar el valor de un método educacional. La influencia de un factor dado sobre las actividades fisiológicas y mentales de un grupo humano no se hacen manifiestas sino después del paso de una generación. Los éxitos atribuidos a su propia invención por los autores de sistemas de alimentación nuevas, de cultura física, de higiene, de educación, de moral, de economía social, se publican siempre con excesiva premura. Sólo hoy podrían analizarse con fruto los resultados del sistema Montessori, o de los procedimientos educacionales de John Dewey. Hay que esperar veinticinco años para conocer la significación de los “intelligence-tests”, hechos estos últimos años en las escuelas por los psicólogos. Solamente siguiendo a un gran número de individuos a través de las vicisitudes de su vida y hasta. su muerte podría conocerse, y aun de manera groseramente aproximada, el efecto ejercido sobre ellos por ciertos factores.
La marcha de la humanidad nos parece muy lenta puesto que nosotros, los observadores, formamos parte del rebaño. Cada uno de nosotros no puede hacer por sí mismo sino escasas observaciones. Nuestra vida es demasiado corta. Y existen experiencias que deberían ser prolongadas a lo menos durante un siglo. Sería necesario crear instituciones tales que las observaciones y experiencias no fueran interrumpidas por la muerte del sabio que los comenzó. Y tales organizaciones son desconocidas aun en el dominio científico. Sin embargo revisten ya para otro género de disciplinas. En el monasterio de Solesmes, tres generaciones sucesivas de monjes benedictinos, en el curso de más o menos cincuenta y cinco años, se han ocupado en reconstituir el canto gregoriano. Un método análogo podría ser aplicable al estudio de los problemas de la biología humana. Es preciso suplir la duración excesivamente corta de la vida de cada observador, por medio de instituciones, en cierta forma inmortales, que permitan la continuidad, tan prolongada como fuese necesario, de una experiencia. A la verdad, ciertas nociones de necesidad urgente pueden adquirirse con ayuda de animales cuya vida es corta. Para este objeto se han empleado particularmente ratas y cuyes. Colonias compuestas de muchos millares de estos animales han servido para el estudio de los alimentes, de su influencia sobre la rapidez del desarrollo, la talla, las enfermedades, la longevidad. Desgraciadamente, los cuyes y las ratas no presentan sino analogías lejanas con el hombre. Es peligroso, por ejemplo, aplicar a los niños las conclusiones de investigaciones hechas sobre otros animales cuya constitución es demasiado diferente a la suya. Por lo demás, no es posible estudiar de esta manera, las modificaciones fisiológicas que acompañan los cambios anatómicos y funcionales sufridos por el esqueleto, los tejidos y los humores bajo la influencia del alimento, del género de vida, etc. Al contrario, los animales más inteligentes, tales como los monos y los perros, nos permitirían analizar los factores de la formación mental.
Los monos, a despecho de su desarrollo cerebral, no resultan materia buena de experiencia. En efecto, no se conoce el “pedigree” de los individuos de los cuales se sirve. No se les puede educar fácilmente ni en número suficientemente grande. Son difíciles de manejar. Al contrario, es fácil procurarse perros muy inteligentes, cuyos caracteres ancestrales son exactamente conocidos. Estos animales se reproducen con rapidez. Son adultos al cabo de un año. La duración total de su vida no se prolonga, en general, más allá de quince años. Pueden hacerse en ellos observaciones psicológicas muy detalladas, sobre todo en los perros pastores, que son sensibles, inteligentes, alertas y atentos. Gracias a animales de este tipo, de pura raza y en suficiente número, sería posible dilucidar el problema tan complejo de la influencia del medio sobre el individuo. Por ejemplo, debemos buscar la manera de obtener el desarrollo óptimo de individuos que pertenezcan a una raza dada, averiguar cuál es su talla normal, qué aspecto es preciso imprimirles. Tenemos que descubrir cómo el modo de vida y la alimentación moderna operan sobre la resistencia nerviosa de los niños, sobre su inteligencia, su actividad, su audacia. Una vasta experiencia conducida durante veinte años con muchos centenares de perros pastores nos informaría sobre estas materias tan importantes. Esta experiencia nos indicaría, con más rapidez que la observación sobre seres humanos, en qué dirección es preciso modificar la alimentación y el género de vida. Reemplazaría de manera ventajosa las experiencias fragmentarias y de demasiado corta duración con que se contentan hoy día los especialistas de la nutrición. Seguramente no podría substituirse del todo a las observaciones hechas sobre los hombres. Para el desarrollo de un conocimiento definitivo, haría falta establecer sobre grupos humanos experiencias capaces de prolongarse durante muchas generaciones de sabios.

VI
Reconstitución del ser humano.– Cada fragmento debe ser considerado en sus relaciones con el todo.– Los caracteres de una síntesis utilizable.

Para adquirir un conocimiento mejor de nosotros mismos no basta con elegir en la masa de los conocimientos que ya poseemos aquellos que son positivos, y hacer con su ayuda un inventario completo de las actividades humanas. No basta tampoco con precisar de antemano por medio de nuevas observaciones y experiencias y edificar así una verdadera ciencia del hombre. Hace falta, sobre todo, gracias a estos documentos, construir una síntesis que pueda utilizarse.
En efecto, el fin de este conocimiento no es satisfacer nuestra curiosidad sino reconstruirnos a nosotros mismos y modificar nuestro medio en un sentido que nos sea favorable. Este fin es, en cierto modo, práctico. No nos serviría, pues, para nada, acumular una cantidad de conocimientos nuevos, si estos conocimientos habrían de permanecer dispersos en el cerebro y en los libros de los especialistas. La posesión de un diccionario, no da a su propietario la cultura literaria o filosófica. Es preciso que nuestras ideas se reúnan en un todo viviente en la inteligencia y la memoria de algunos individuos. Así, los esfuerzos que la humanidad ha hecho y hará todavía para conocerse mejor, resultarán fecundos. La ciencia de nosotros mismos vendrá a ser la ciencia del porvenir. Por e! momento, debemos contentarnos con una iniciación a la vez analítica y sintética en los caracteres del ser humano que la crítica científica nos da a conocer como reales. En las páginas siguientes, el hombre se nos presentará, tan ingenuamente como se presenta al observador y a sus técnicas. Le veremos en forma de fragmentos recortados por estas técnicas. Como sea posible, estos fragmentos volverán a ser colocados en el conjunto. Por supuesto, un conocimiento tal es muy insuficiente, pero es seguro. No contiene elementos metafísicos. Es igualmente empírico, porque la elección y el orden de las observaciones, no son guiadas por principio alguno. No tratamos de probar o negar ninguna teoría. Los diferentes aspectos del hombre están considerados tan ingenuamente como, en el curso de ascensión de una montaña, se miran las rocas, los torrentes, las praderas o los pinos, y aun desde el fondo del valle mismo, la claridad de las cimas. Al azar del camino en ambos casos, se hacen las observaciones. Sin embargo, estas observaciones son científicas. Constituyen un cuerpo más o menos sistematizado de conocimientos. Evidentemente no poseen la precisión de las de los astrónomos o de las de los físicos. Pero son tan exactas como lo permiten las técnicas empleadas y la naturaleza del objetivo al cual se aplican estas técnicas. Se sabe, por ejemplo, que los hombres están provistos de memoria y de sentido estético y también que el páncreas secreta insulina; que ciertas enfermedades dependen de lesiones del cerebro, que ciertos individuos manifiestas fenómenos de clarividencia. Se pueden medir la memoria y la actividad de la insulina, pero no la emoción estética y el sentido moral. Las relaciones de las enfermedades mentales y del cerebro, las características de la clarividencia, no son susceptibles de un estudio exacto. Sin embargo, todos estos conocimientos, aunque aproximados, son efectivos.
Se puede reprochar a este conocimiento el ser trivial e incompleto. Es trivial, porque el cuerpo y la conciencia, la duración, la adaptación, la individualidad, son bien conocidos por los especialistas de la anatomía, de la fisiología, de la psicología, de la metapsíquica, de la higiene, de la medicina, de la educación, de la religión y de la sociología. Es incompleto, porque en el número inmenso de los hechos estamos obligados a elegir, y esta elección es necesariamente arbitraria. Se limita a lo que nos parece más importante. Descuida el resto, porque la síntesis debe ser corta y susceptible de ser cogida con una sola mirada. Parece, pues, que, para ser útil, nuestro conocimiento debe ser incompleto. Por lo demás, es la seducción de los detalles, y no su número, lo que da a un retrato su parecido. El carácter de un individuo puede ser expresado con mucha más fuerza por un dibujo que por una fotografía. No trataremos de nosotros mismos, sino groseros bocetos, como esas figuras anatómicas trazadas con tiza en una pizarra. A pesar de la supresión intencional de los detalles, tales diseños resultarán exactos. Estarán inspirados en conocimientos positivos y no sólo en teorías y esperanzas. Ignorarán el vitalismo y el mecanicismo, el realismo y el nominalismo, el alma y el cuerpo, el espíritu y la materia. Pero contendrán, en cambio, todo lo que es observable y los hechos inexplicables que las concepciones clásicas dejan en la oscuridad. En efecto, no descuidaremos los fenómenos que rehúsan entrar en los límites de nuestro pensamiento habitual, pues nos conducirán tal vez a regiones hasta el momento ignoradas por nosotros. Comprenderemos en nuestro inventario todas las actividades manifestadas y manifestables por el individuo humano.


Nos iniciaremos así en el conocimiento de nosotros mismos que es únicamente descriptivo y aun muy próximo a lo concreto. Este conocimiento no tiene sino pretensiones modestas. Será por una parte empírico, aproximativo, trivial e incompleto, pero por otra parte, positivo e inteligible para, cada uno de nosotros.