viernes, 31 de enero de 2014

DOMENICO SCINÀ




 DOMENICO SCINÀ

FERDINANDO MALVICA.


DOMENICO SCINÀ fu uno di que’ pochi cui la storia potrà indicare al mondo come gli uomini, per mezzo della
sola sapienza, possano vincere i pregiudizî della società,
e distruggere le ingiustizie della fortuna; poichè egli,
nato povero ed oscuro, giunse a tale che l’aristocratica
grandezza più superba e più opulenta inchinavasi dinanzi
a lui, e deponeva umile ogni matto prestigio del suo
splendore. Questo è il più bello dei trionfi dell’ingegno
sulla forza e sul potere umano!

Domenico Scinà estese la sua influenza su tutti gli
spiriti, e dominò la letteratura siciliana del suo secolo.
Severo come di volto così di costumi, conscio del suo
valor non comune, e della bassezza dei tempi, sorvolò
qual’aquila su tutti, e fe’ a tutti sentire qual pondo avesse
un ingegno trascendente, quando alla severità del carattere e dei principî si congiunge. Se egli con quel suo
giudicio sì sottile, e quella logica sì potente che faceasi
strada fra mille dei più forti, e mille abbatteva, avesse
accoppiato l’amabilità e la gentilezza dei modi sarebbe
divenuto l’idolo della Sicilia. Ma la natura sempre equa
ne’ suoi divisamenti, compensò in lui a ribocco da una
parte ciò che dall’altra negogli. Perciocchè la tempra del
suo spirito, forte e nobilissima essendo, imprimeva un
carattere robusto ed originale ad ogni opera che creava.
Egli, fisico filosofo storico letterato, eccelse in ogni
ramo di scienza che coltivò, e divenne scrittore di primo
grido. E quantunque geloso ed amantissimo fosse della
sua gloria, pure non pensò mai di estenderla; chè rifuggiva dall’idea che altri credesse lui poter gire in cerca di
suffragi.

Egli nacque in Palermo nel 1765, e trovò quivi al suo
ingresso nell’aringo letterario gli spiriti tanto intenti alla
leibniziana e wolfiana filosofia, che anch’esso a tutto
corpo si gittò in quegli studî; ma per la perspicacia della
sua mente non tardò a conoscerne le illusioni. Quindi gli
abbandonò tosto agli astratti speculatori, e tutto diedesi
alle scienze esatte, che mostrando le verità più sicure e
più inconcusse, son divenute, dacchè Newton scrisse
(mi valgo di una espressione del Condorcet), fondamento
e chiavi delle naturali dottrine. E in ciò molto influì
eziandio il senno e la sapienza del Gregorio: poichè
veggendo questi la fallace via, in cui erasi messo l’amato
allievo, che già tanto di sè prometteva, lo scosse e lo
arrestò, facendogli gustare l’aureo libro di David Hume
sull’umano intelletto. Il che fu bastevole ond’ei dalle
dottrine astratte ed illusorie rifuggisse ognora, e delle
sole realità si appagasse.

La dotta Europa nella gioventù dello Scinà era fortemente
commossa dalle nuove scoperte che i filosofi di
quel tempo avean fatte sull’elettricismo; la curiosità era
universale; dotti ed indotti, i giovani più esimii, le dame
stesse più gentili prendevan grandissimo diletto a sì fatti
studî. La Sicilia non era straniera a quel movimento; e le
scienze di esperienza se non erano in voga, e se non
vantavano illustri maestri avean però svegliato i desideri
della moltitudine. Quindi lo Scinà si volse tutto alle
scienze della natura, e la fisica generale e particolare divenne lo studio da lui più amato e coltivato. La forza del
suo carattere gli dava tal fermezza e tal costanza, che simile a Buffon come nel corpo così nella mente, profondo
e stabile sentimento divenne in lui l’amore del lavoro,
anzi, come di quello si disse, vera passione che vinse
le altre tutte. Dal che nasceva che qualunque ostacolo
gli si parasse dinanzi mai non lo arrestava, nè vi era barriera che l’animo suo non superasse. Difatti con tale
amore e tale assiduità si diede a studiare la fisica, che in
breve tempo ne divenne sommo maestro. Ma dovendo
noi assegnare il posto di onore che conviene allo Scinà
nella storia di questa scienza in Sicilia, fa mestieri primieramente volgere uno sguardo allo stato in cui allora
ella trovavasi, onde avere un punto di rapporto, che ci
faccia bene apprezzare le opere di lui, e misurar l’estensione del suo valore.

La Sicilia mancava a quei tempi di buoni libri, d’istrumenti, e di mezzi per avanzare nelle sperimentali discipline; e a tal giungeva lo stato nostro, che qualche informe
macchina ch’esisteva maneggiar non sapevasi dai
più esperti: tutto era muto; le scienze della natura, come
la teologia s’imparavano. Difatti la fisica peripatetica
dominava nelle scuole; invece di osservare i fenomeni,
di raccoglier fatti, di stabilire principî, di emendare il
linguaggio scolastico, che rassoda gli errori, e rende più
tenaci le menti, venivasi dagl’ingegni più sottili con
pazzo furore quistionando sulla siccità, umidità, rarezza,
e su tutti gli altri, con linguaggio barbarico, così
chiamati accidenti materiali. Il trattato di Muscembroechio si leggeva dalle pubbliche cattedre, ed era il libro che correva nelle mani dei giovani. Ma Palermo conobbe
il bisogno che questa scienza più colle macchine che
colle teoriche imparar si dovesse; e famosa nella nostra
storia sarà l’imperizia dei professori di fisica di quel
tempo, che non seppero dopo molti studî e reiterati
esperimenti, nè anche formare un pallone aereostatistico.
E benchè si fosse pensato, con sapiente consiglio, di
chiamare uno straniero fra noi, onde riparare a quel gravissimo danno, e legger fisica nell’Accademia palermitana,
non venne questa tuttavia migliorandosi gran fatto.

Imperciocchè il P. Elisèo, che fu il professor qua venuto,
volle dare alcune sue istituzioni, scritte in latino, e piene
di vecchie opinioni e di errori; le quali tradivan lo scopo,
e non potean certo appagare i bisogni del tempo, nè
far conoscere i progressi che la scienza avea fatto in Europa.

E certo assai migliore era il compendio della fisica
sperimentale dell’Atwood, che cominciossi a leggere in
Palermo dopo il Muscembroechio, non che gli elementi
dello Zappalà che nell’Università di Catania si leggevano,
avvegnachè fossero stati dettati anch’essi in latino, e
con metodo strano ed inviluppato. Dalle quali cose ben
si vede che quando lo Scinà salì la cattedra dell’Accade-
mia di Palermo vagivano, per così dire, le fisiche discipline, nè vi fu alcun professore in Sicilia che onorasse la
scienza, e meritasse dalla studiosa gioventù. Perlochè di
gran lunga maggiore è la gloria dello Scinà, che seppe
con i mezzi del suo solo ingegno conoscer le tenebre in
cui la fisica trovavasi ravvolta, e sì alto levarla da vestir
la prima volta fra noi pompa e dignità.

La sua celebre Introduzione, stampata nell’anno
1803, il primo lavoro che avesse fatto di ragion pubblica,
fe’ conoscere di che fosse capace il suo sublime intelletto.
In essa abbraccia tutta la scienza, e con uno
slancio di genio singolare la misura in ogni parte. La
storia della fisica, in un modo rapido e nuovo tracciata,
schiude la porta a quel solenne lavoro; e ciò ch’ella fosse
presso gli antichi, ciò ch’ella è presso i moderni non
può da nissuno in miglior guisa dimostrarsi. Il sistema
di Newton non potrà del pari esser da niuno con maggior
chiarezza e precisione spiegato. Ei ti mostra in poche
linee, che il genio solo può dettare, come quel profondo
pensatore, dopo le scoperte di Keplero, di Cartesio,
di Galilei, di Hugenio, ch’ei generalizzò ed accordò,
risguardasse per la prima volta i fenomeni della natura
insieme, e l’universo in grande. Donde, con un concetto
celeste, venne poi a dimostrare, come i fenomeni da leggi
generali e calcolate derivino, come tutti all’attrazione
si riducano, e come l’universo sia stato per lui un problema di algebra e di geometria, di cui, come dice lo
stesso Scinà, in alcune parti ne apprestò intera, ed in alter ne accennò la soluzione: diguisachè (ricordo un altro
concetto di questo grand’uomo) la meccanica celeste è
divenuta il testimonio più vero e grande e glorioso della
forza ed eccellenza dell’umano intendimento.

Lo Scinà in questo stupendo lavoro nota tre epoche
della fisica moderna: le prime due sono storiche, cioè
quella di Galilei, padre e fondatore della scienza, e quella
di Newton perfezionatore della medesima; la terza attendesi ancora, ma venne dallo Scinà ideata ed indicata.
La sua concezione è profonda. Perciocchè facendo vedere
come la fisica e la chimica si sieno a vicenda giovate,
ei ti mostra come sovente un fenomeno appartenga
a tutte le scienze e come queste sieno state divise sol per
istudiarsi, e sono da unirsi per conoscere la natura.
Quindi immaginava di rannodarle distruggere i limiti
che le dividono, formarne di tutte una sola e semplice. E
così mostrando i rapporti occulti che hanno fra loro, e
come si colleghino insieme, guardare la natura non in
frazioni disgiunta, come oggi la guardiamo, ma unita, e
formando in tutto che ha un principio ed un fine. Difatti
è talvolta avvenuto, che i fenomeni che noi osserviamo
in una delle parti, in cui per la nostra fralezza si è divisa
questa sublime scienza, e che proprî di lei reputiamo,
sono ad altre comuni. Le scienze dunque della natura si
collegano, si sostengono insieme, si affratellano. Onde
pensava lo Scinà, che fintantochè questi rapporti e questi
legami non si arrivassero a scoprire, la verità grande
e generale del tutto non si attingerà mai, e non potranno
le scienze giugnere alla desiderata meta. Quindi la separazione delle scienze (egli diceva) dee considerarsi
come temporanea; lo spirito umano le divise per conforto
della propria debolezza; ed allora sarà egli veramente
degno d’interpretar la natura, quando, perfezionate separatamente le scienze, non ne formerà che una. Lo Scinà
presentì questi rapporti, conobbe ch’esister dovevano,
guardò la natura in grande, come Newton aveva fatto,
vide in suo pensiero i limiti che vi aveva l’uomo apposto,
e gli anelli che vi aveva messo la medesima natura;
perciò additò franco il fine degli studî, ed indicò il camino che alla perfezione conduce. La qual cosa è feconda
d’immensi risultamenti; e se oggi venisse qualche
novello genio, e l’indicata via calcasse, la storia proclamerebbe che tal segnalato beneficio prodotto da quel
principio, si ottenne per la mente del siciliano filosofo.
L’Introduzione adunque non è la storia della fisica,
come taluno scioccamente o malignamente aveva detto,
è bensì la logica di tutte le fisiche scienze, com’egli sapientemente al direttore della Biblioteca italiana scriveva.
Or quest’opera fu seguita nell’epoca stessa dalla Fisica
generale, e dopo varî anni dal primo volume della
Fisica particolare; ma tanto la prima quanto la seconda
furon poscia rifuse accresciute migliorate, e nel corso
degli anni 1828 e 29 videsi pubblicata la stessa opera in
quattro volumi, che risguardano due la prima parte, e
due la seconda. Or se l’Introduzione fu l’opera delle meditazioni dello Scinà, e di un momento felice dell’ingegno
di un grand’uomo, la fisica particolare e generale fu
il frutto di un travaglio lungo e paziente, e della dottrina,
dell’erudizione, del profondo giudicio di lui. E siccome
pare certo che i libri tendenti ad ammaestrare la gioventù
non debbano contenere nè lampi di genio, nè profonde
vedute, nè nuove verità, ma sibbene ordinare con
chiarezza e precisione tutte le scoverte già fatte dai filosofi nel corso di più secoli, e le verità già conosciute, e
dall’unanime loro consentimento stabilite; così lo Scinà
attinse pienamente il suo fine. Perciocchè nell’opera
sua, oltre della massima chiarezza, ammirasi l’ordine il
più naturale, il più semplice, e quindi il più logico, ed il
più acconcio all’intendimento dei giovani. Egli dispose
in tal guisa tutte le parti di questa scienza che venne formando unico corpo ed unico sistema, riducendo con accorto
consiglio tutti i fenomeni dell’universo a tre classi,
ai celesti, agli atmosferici, ai terresti; e facendo costantemente vedere la relazione che corre fra gli agenti dai
fenomeni e questi fenomeni stessi. Quindi i giovani col
suo libro alla mano non resteranno più inerti, nè avran
grave la fatica, ma desidereranno di spignersi sempre innanti, e conoscere le dottrine che sieguono e si succedono.
Perciocchè l’autore le annodò strettamente fra loro,
formando di tutte, come asserimmo, un corpo solo e
semplice, eccitando sempre più la curiosità e l’energia
dei giovani, e recandoli, com’ei diceva, a discutere
esperienze, a comparar fatti, a pesar sistemi, a riguardar da per loro lo stato attuale delle nostre cognizioni. E
così facendo, ed il suo lavoro arricchendo e perfezionando, fece meravigliare Italia, come un Siciliano privo
di aiuti, e senza quegl’infiniti mezzi, che negli studî del-
la natura in grandissima copia lo straniero possiede, potesse fare un’opera di fisica, che stesse a livello colle
migliori, per la verità delle dottrine, la ricchezza dell’erudizione, l’esattezza dei fatti delle osservazioni degli
esperimenti. Quest’opera in somma, nulla valutando,
siccome noi siam usi, le censure altrui, onora la Sicilia e
la scienza.

Or noi esaminando la storia dei grandi uomini delle
più colte nazioni abbiam costantemente osservato che la
maggior parte di essi cominciarono sin dall’età più giovanile
a scrivere e pubblicare le cose scritte; quasichè
l’anima loro commossa ed agitata sin dai primi periodi
della vita sdegnasse di restare in circoscritte barriere, ed avesse mestieri nel suo prematuro sviluppo di lanciarsi
nel gran mondo, affinchè di loro, pria del tempo destinato
alla comune degli uomini, si ragionasse. Generoso
sentimento, che ha spesso partorito i più felici risultamenti; e se talvolta si è veduto abortire, egli è derivato,
perchè l’ingegno, gli studî, e le ulteriori vicende del viver
sociale fecero guerra alla volontà, e all’animo egregio
non corrisposero. Nello Scinà pertanto, avvegnachè
fortemente chiamato dalla natura a toccare l’eccelsa scala
che all’immortalità conduce, si è osservato un fenomeno
contrario e singolarissimo. Egli fu sin dai primi
anni spinto da un amore sì caldo per lo studio, che si reputò meraviglioso, ed ebbe tal sentimento per la gloria
sì pronunziato e sì deciso, che non può uno storico trascurarlo.

Egli però seppe soggiogare questo sentimento,
e soffocò gli slanci del suo genio, incatenò la sua natura.
Perciocchè fin presso a quarant’anni (stupendo a dirsi
per un uomo che dovea divenire sì grande!) nulla cosa ei
scrisse, nulla cosa pubblicò; e così l’età matura non gli
rinfacciò mai la sua precipitanza, ed egli non ebbe a
pentirsi, com’è avvenuto alla più parte dei sommi scrittori,
di un lavoro che il suo senno ripudiava. Lo Scinà
studiò eziadio con assidue cure, e più da sè stesso che
con i maestri, le greche le latine e le italiane lettere; e
tanto della ellenica favella si conosceva, che verso il
1788 veniva con grandissimo onore sostituendo nella
cattedra il professor Viviani, che insegnava a quei tempi
lingua greca nell’Accademia palermitana. Lo Scinà dunque
non fece nella prima metà della sua vita, che studiar
sempre più fermo e costante, arricchirsi lo spirito di
elette dottrine, farsi un patrimonio cospicuo di sapienza,
onde poi ad un tratto uscire fra le genti, e con una serie
non interrotta di stupende opere stordire Sicilia.
Or l’uomo che sotto questo rapporto può più allo Scinà
paragonarsi è il filosofo di Montesquieu; poichè in
ambidue parmi di aver dominato lo stesso pensiero, ed il
medesimo principio essere stato di guida e di norma alle
loro anime. Imperocchè il Montesquieu, per dire col
D’Alembert, niente sollecito di mostrarsi al pubblico,
sembrava che attendesse un’età matura per iscrivere. Difatti stampò di trentadue anni il suo primo lavoro, che
furono le famose lettere persiane, in cui mentre trasporta il leggitore a mezzo le cose dell’Oriente, attacca in un modo fino e delicato i nostri costumi, i nostri gusti, i nostri
usi, ed il furore di scrivere pria di pensare, e di giu-
dicare pria di conoscere. Ma trentadue anni non parvero
a Montesquieu ancora bastevoli per presentarsi sulla
scena del mondo con sicurezza di sè medesimo. Quindi
le lettere persiane non parvero che anonime; e tale fu la
condotta dell’autore che per molto tempo ignorossi di
chi elle fossero. Dell’istessa guisa lo Scinà maturo di età
e di senno si presentò sull’aringo letterario che dovea
decidere della sua vita. Ei nel lungo corso degli anni,
anteriori a quelli di scrittore e di filosofo, non era conosciuto che qual valente professore di fisica sperimentale,
avendo nel 1796, dietro il P. Elisèo ch’era stato giubilato,
asceso la cattedra di quella facoltà nell’Accademia
palermitana, Ma altro è leggere una scienza in iscuola,
ed acquistar nome per essa, altro è l’essere scrittore, e
comparire propagatore dei lumi, riformatore dei costumi.
Lo Scinà ebbe come professore, solenne riputazione,
ma si acquistò la stima della patria, ed ottenne culto di
pubblica riverenza, quando colla penna in mano presentossi.

Difatti Sicilia, dietro le opere di fisica di che abbiam
ragionato, vide nel 1808 uscire da quella mente suprema
l’elogio di Francesco Maurolico; nel 1811 la memoria
su i fili reflui e vortici apparenti dello stretto di
Messina; nell’anno stesso le due lettere a Grano per l’eruzione dell’Etna, avvenuta in quell’epoca mentr’egli in
Catania trovavasi; nel 1813 i due volumi sulla vita e la
filosofia di Empedocle; nel 14 le due lettere a Piazzi intorno Girolamo Settimo matematico palermitano; nel
1818 la topografia di Palermo e de’ suoi contorni; nel 19
il rapporto del viaggio alle Madonie in occasione de’
tremuoti ivi accaduti. Nel 1823 si videro dati poscia alle
stampe il discorso intorno Archimede, e i frammenti
della gastronomia di Archestrato: nel 24 apparve con
generale compiacimento il primo volume del prospetto
della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIIIo; il secondo l’anno appresso; e nel 27 il terzo che quell’opera insigne chiudeva.

Dalla pubblicazione di quest’ultimo volume sino al
presente è corso un decennio; ed il Governo di Sicilia,
che, appieno conoscendo la dirittura dello spirito e la
mente sovrana di lui, spesso in interessi di pubblico bisogno aveva al suo consiglio ricorso, in quest’ultimo periodo
affari di gravissimo pondo gli andò commettendo;
ed egli con zelo, con dignità, e con quel suo giusto vedere
in ogni obbietto, in che uguagliar si potea ma vincer
non mai, a lietissimo fine correggendo e migliorando,
ogni incombenza portava2. Ma in mezzo a tante
cure, che gli furon talvolta dure e moleste, ei mai non
depose quella penna, ch’era nel suo pugno uno scettro di
morale potenza divenuta. Perciocchè surto primieramente
nel luglio del 1831 il novello vulcano nei mari di
Sciacca ei scrisse un ragguaglio di quel fenomeno, che
riputavasi da tutti maraviglioso e straordinario, com’era
in effetto, perchè le primitive memorie della formazione
2 Oltre dei particolari incarichi, di cui qui si fa cenno, ebb’egli l’A - bazia di S. Angelo di Brolo; fu cavaliere dell’ordine di Francesco I; regio storiografo; cancelliere dell’Università degli studî; membro perpetuo della Commessione di pubblica istruzione ed educazione di Sicilia.
del globo ci ricordava. Ma questa scrittura, ed altra tale,
come gli articoli sulla versione della poetica di Aristotile
fatta dall’Haus, la prefazione ai discorsi del Gregorio
sulla Sicilia, nella quale venne tracciando la vita di quel
grand’uomo; i rapporti su i bagni termo-minerali di Termini- Imerese; il rapporto sulle ossa fossili di Mar-dolce
e degli altri contorni di Palermo; l’articolo per le sperienze e le scoverte, che sull’elettro-magnetismo avea
fatto il Nobili e l’Antinori, queste scritture, io diceva,
avvegnachè gravissime, erano pur lavori del momento, e
figlie della circostanza. Ma egli in quest’ultimo decennio
della sua vita un’opera iva meditando di gran lena,
di grande utilità, e di grandissimo onore per la patria.
Era questa la storia letteraria di Sicilia, cominciando dai
tempi greci, e venendo mano mano fino al secolo XVIIo,
al quale avrebbe fatto continuazione la storia che già del
secolo XVIIIO aveva egli dettata con sì gran senno e sì
grande filosofia, diguisachè l’isola nostra, sì chiara nel
mondo, per le creazioni dello spirito, avrebbe avuto dai
tempi più remoti fino all’epoca in cui nacquero i padri
nostri, la storia completa della sua civiltà e della sua
gloria. Ma i divisamenti più cospicui degli uomini vengono
spesso o per la fralezza umana, o per le miserie di
questa vita sciagurata, rotti nel mezzo e nel più bello.
Così avvenne alla grand’opera che iva lo Scinà nel suo
sublime pensiero ravvolgendo. Perciocchè egli nel 1832
pubblicò la prima memoria che ne serviva d’introduzione,
e nella quale si dava a dimostrare che i popoli che
abitarono la Sicilia prima delle colonie elleniche, non
furono scienziati, come si pretende dai nostri scrittori,
ma giunsero di mano in mano allo stato di civiltà sociale.
Poi nel 1833 videsi comparire il primo periodo della
letteratura greco-sicola, che dall’arrivo fra noi delle elleniche colonie giungeva sino alla morte del primo Gerone.
Quindi nel 1836 venne in luce il secondo periodo,
che dal punto in cui quello finisce sino alla caduta di
Dionisio si protrae. E mentre si attendeva con grandissima
brama il terzo che quasi al suo termine era condotto,
e che dalla restaurazione operata in Sicilia da Timoleonte
giungeva sino alla caduta di Siracusa sotto la romana
tirannide, la morte venne a troncare il filo dei giorni
suoi.

Ecco quai furon dunque gli svariati lavori di questo
grand’uomo! Eglino son tanti e di tal magistero che una
mente avvezza alle meditazioni, e ricca di sapienza potea
solo concepirli e crearli. Imperciocchè qualunque sia
l’argomento che lo scrittore maneggia, ei lo addentra, e
con critica severa profondamente lo sviluppa. Il qual sistema vedesi da lui costantemente seguito in ogni opera;
di modo che tutte le minute parti di essa con maestra
mano volgendo, lascia di quel subbietto pienamente
istrutti i leggitori.

Egli rivolgendo il pensiero a Maurolico ad Empedocle
e ad Archimede proccurò di presentar questi sommi
nel loro aspetto più veritiero: il metodo tenuto in tutti e
tre questi insigni lavori fu quello di passare sempre dalle
cose più semplici alle più difficili; incalzando come l’argomento stesso incalzava, e rivendicando que’ valentis-
simi dalle censure che la malignità l’invidia i tempi
avean loro scagliato. L’autore mentre illustra l’individuo,
e spiega le sue dottrine e le sue creazioni, colpisce
nell’età in cui fiorì, e la tratteggia a grandi ombre; diguisachè viensi a leggere nella storia di un sol uomo la storia
scientifica di un intero secolo. Le epoche di Empedocle
di Archimede di Maurolico sono famose in Sicilia
per la filosofia e le scienze esatte e naturali. Empedocle
gitta i primi elementi della fisica moderna, migliora il
sistema di Pitagora, e lo diffonde per ogni angolo dell’isola.

Sottilissime sono le ricerche dello Scinà per istabilire
l’età in cui visse e fiorì il Gergentino; profondo ed
arguto è il suo esame per conoscerne i principî, le dottrine, la filosofia. Tutto poi che la sua vita e le sue azioni
risguarda, e che era incerto per que’ Greci e Latini stessi, che vissero nelle età posteriori, ma non molto lontani
da lui, e giaceva per conseguenza in folta oscurità, viene
sparso di una luce sì nuova, che avrebbe fatto meravigliare gli stessi antichi: tanto è il senno con che riunisce
le disperse e disparate notizie! tanto il giudicio con cui
cribra i discordi pareri, e gli accorda o gli ammenda. Ed
a noi pare che valicando i secoli che ne dividono ne andassimo a riunire a quei vecchi padri, frequentare i loro
ginnasî, ascoltar quelle dottrine, che dovean sopravvivere
a tutte le generazioni. Così lo Scinà ti sembra un antico,
il quale venga annunziandoci la sapienza de’ suoi
coetanei: tanta è la franchezza con cui spasseggia le incerte ed oscure vie di quelle epoche rimotissime.
Archimede crea la sublime geometria, stordisce la ter-
ra colle sue invenzioni, e fonda la meccanica. Onde lo
Scinà raccoglie con uno stretto ragionamento tutti i titoli
del siracusano filosofo in modo che viene a presentarlo
in prospettiva, affinchè si misuri ad un colpo tutta l’estensione delle sue maravigliose scoperte. Ed essendosi
voluto a’ dì nostri, e dopo tante varie fatiche, discorrere
di Archimede non si poteva immaginare un quadro migliore
di quel che lo Scinà dipinse. Egli accenna primieramente
poche cose della vita civile del Siracusano, perchè
ovvie ed a tutti cognite; e passa tosto a ragionare
della vita morale ed intellettuale, traendola dalle opere
che di lui ne restano tuttavia. E così facendo ne ha dato
un lavoro originale, perchè nulla curando le cose che di
Archimede si sono scritte, ha letto a modo suo nei libri
di lui, ne ha col proprio giudicio esaminato i grandi pensamenti, e quindi dettando colla propria inspirazione,
noi abbiam ritrovato nelle sue pagine ciò che in altre
non si trova.

Nel Maurolico dimostra come sia costui pervenuto ad
esser geometra, astronomo, aritmetico, ottico, grammatico, poeta e istorico. Niuna cosa che ad onore di quello può ridondare negligenta; ei tel fa vedere nei palagi
stessi dei grandi simile a Platone nella corte dei Dionisii,
verità matematiche dimostrando, e sull’arena segnando
geometriche figure. Ne viene poscia manifestando
come divenne Maurolico superiore al suo secolo; e
come colla sola scorta della sua ragione giungesse a conoscere i falli e le magagne, di che erano stati bruttati
dagl’interpetri e dai copisti i lavori degli antichi geome-
tri; onde dotto com’egli era del greco idioma diedesi
con grandissimo animo a correggerli, a supplirne i voti,
a tradurli. Quindi lo Scinà egregiamente dimostra che il
messinese filosofo in tal guisa corresse, tradusse, abbreviò, comentò Euclide Menelao Teodosio Sereno Apollonio
Archimede, che fornì e mise in luce una esatta e
compiuta biblioteca dei greci maestri in geometria.
Insomma l’autore va pienamente sviluppando le svariate
creazioni di tutti e tre que’ sommi pensatori; s’innalza
al loro livello; e padrone della sapienza loro, volge
in tutti i sensi le loro grandi fatiche: siegue lo spirito
umano passo passo, le cause avvicina agli effetti, e ricava
conseguenze, che applica alle moderne condizioni
della patria, facendo sempre l’antica Sicilia specchio
alla moderna di sè medesima. Quindi Maurolico, Empedocle, Archimede, sono da riputarsi lavori positivi ed
eccellenti. L’amore per la virtù per la sapienza per la patria è il sentimento più costante che vi riluce, e con occulto
segreto nelle vie più profonde dei cuori s’insinua e
signoreggia. Lo Scinà amava la Sicilia non colle parole
e colle vane e stolte declamazioni, ma cogli esempî e coi
fatti: l’amava illustrando le azioni magnanime e generose
dei padri nostri: l’amava in quel modo con cui può
amarsi ai nostri tempi dalle anime più forti. Perciocchè
ogni secolo ha un aspetto suo proprio, e vani non solo
ma dannosi saran tutti gli sforzi degli uomini per cangiarlo.

Le leggi della natura sono eterne ed immutabili,
ed i tempi corrono lor via per loro stessi. Ei si cangiano
e ritornano, come tutta la natura si cangia e si riproduce:
ella crea per distruggere, e distrugge per creare. Solo
pertanto è da riflettere che, senza attendere il lento corso dei tempi, potrebbonsi i mali tremendi che accompagnan
l’esistenza dei consorzî civili menomare propagando
i lumi e le sane dottrine, promovendo i mutui insegnamenti
in ogni classe di cittadini, educando gl’ingegni,
il popolo dirozzando, e proccurando che la voce del
perdono e della grazia non giunga mai tarda. Così affratellansi gli animi, s’istruiscono le nazioni e si vincono; e
mentre si migliorano i costumi, le leggi più si rispettano,
e gli uomini si rompon meno nelle colpe, e non vi offron
più quelle scene di orrore che bruttan sì spesso l’umana
vita. E bellissimo pensiero fu quello che le rivoluzioni
dei nostri giorni servonci come di fiaccola per rischiarare
la storia dei tempi trascorsi. La generazione attuale
ebbe tutte quelle lezioni, che nascono dalle grandi scosse
politiche, e senza dubbio per questa ragione il nostro
secolo meriterà un altro dì d’essere chiamato il secolo
dei lumi. Ed a me pare certo, che ove sono passioni ivi
sono gli elementi del progresso della civiltà dei popoli.
Qui con forza si sente, qui è tumulto di affetti, qui si sublima il pensiero, si spande l’animo, si imita, si crea. Se
questi elementi cadono in mani di chi sa combinarli e
trarne profitto Sicilia progredirà, e si alzerà dal lezzo, in
cui ravvolta si giace; poichè i popoli sono ciò che vuolsi
che sieno.

Lo Scinà, qual sapiente e qual saggio, sentiva in sè
stesso la forza di queste eterne verità, e vedeva in suo
pensiero che il miglior bene che far poteva alla patria
era quello d’illustrarla nel modo che sarebbe tornato più
acconcio alla generazione presente, e fosse stato più utile
e più glorioso per essa. Il qual principio, fonte primiero
di tutte le opere di lui, gli fe’ concepire l’alto e nobile
disegno di abbozzare la topografia di Palermo e de’ suoi
contorni.

Tutte le più culte nazioni de’ tempi nostri vantano le
loro topografie, le quali sono come l’indice sicuro della
loro civiltà. Imperciocchè viensi delineando lo stato fisico
delle città e dei regni: dal che sorge che conoscendosi
la natura de’ monti, de’ terreni, delle acque, del clima
vengonsi a diriger meglio le speculazioni dell’industria,
e ad aprire ai dominatori dei popoli nuove vie per meglio
guidare la pubblica fortuna. Quindi grandissimo è
l’obbligo che dobbiam noi all’illustre uomo perduto, che
pensò formare un’opera nuova, di cui ogni luogo di quest’isola mancava interamente, come ne manca tuttavia.
Onde Palermo è la prima che addita col suo nobile
esempio all’intiera Sicilia il sentiero da battere in questa
carriera, acciocchè alla fine compiuta cognizione si acquistasse della terra che abitiamo.

Lo Scinà previde modestamente i falli che per avventura
potesse contenere il suo lavoro; e forte dubitava che
non fosse egli del tutto riuscito in un’opera così lunga e
faticosa; la quale non essendo stata da altri tentata prima di lui era ben facile che in alcuni articoli fosse venuta
manchevole, ed in altri eziandio erronea. Ma »questo
pensiere, dicea egli, non mi ha sconfortato; anzi con tutto
l’animo desidero che altri studiando con più diligenza
i nostri contorni, venga dopo di me a supplire le mie
mancanze, o ad emendare i miei falli». Qual meraviglia
dunque che vi abbian taluni rinvenuto degli errori, se
l’autore stesso, conoscendo l’arduità dell’impresa, sentiva
in sè medesimo che priva di colpe esser non poteva?
Ma checchè ne sia egli è certo che la topografia dello
Scinà, con tutti i suoi peccati, deesi riputare magnifico
libro, sì che stabilisce un’epoca gloriosa nella civiltà siciliana.

Egli nulla tralascia, per quanto lo potean permettere
i limitati mezzi di un individuo, onde illustrar
pienamente lo stato fisico della nostra bella città. Laonde
i difetti che possonsi imputare a questa fatica, e gli
errori che può ella contenere non toglieranno al suo autore
la gloria di aver fatto un’opera nuova per la Sicilia,
utile importantissima. Egli fece con essa progredire la
siciliana coltura, e fregiò il suo nativo paese di una corona, che per variare di secoli non sarà mai obbliata.
Forse altri in avvenire, ammaestrato dai pregi, e fatto
accorto dagli errori medesimi di lui, ingrandirà e perfezionerà,
dietro il suo esempio, la topografia palermitana.
Ma egli avrà sempre la gloria di averla concepita e creata; poichè altro è dar principio, altro dare accrescimento
ad una scienza; ed è ben diverso il formarla dall’avanzarla.

Euclide Apollonio Archimede furono i più grandi
matematici del tempo antico, e la geometria crearono, e
in alto spinsero: venner quindi il Cavalieri, il Torricelli,
il Viviani, il La Grangia, e quella splendidamente accrebbero
e perfezionarono. Se la gloria di questi ultimi è
grande, quella de primi è grandissima. Il che certamente
avverrà, per la topografia di Palermo, all’illustre scrittore
che piangiamo.

Quest’opera mi guida a parlar di un altro lavoro che
ha con essa stretti legami, per l’indole dell’argomento su
cui volge. È desso il Rapporto sulle ossa fossili di Mardolce, e degli altri contorni di Palermo, che pose in piena
luce le varie sentenze che si emisero fra noi in tal
congiuntura, e smaltì le quistioni, che in affare di tanto
pondo, qual fu la scoperta delle ossa fossili, sorsero e si
agitarono.

A due miglia della città verso il sud-est, e a 937 canne
dal mare è la campagna di Mar-dolce; ove i Principi
normanni tenean lor case di delizia, delle quali veggonsi
tuttavia dei resti informi. Ivi in una grotta a piè del monte Grifone fu scoperto a caso nel marzo del 1830 quell’immenso deposito di ossami di smisurata grandezza,
che aveano ne’ tempi andati indotto parecchi uomini di
riputato valore, come il Valguarnera, il Mongitore, ed
altri a sostenere che appartenevano a giganti, pretesi
abitatori dell’isola. Ma venuta meno ai nostri tempi col
lume della filosofia e della critica quell’idea favolosa, e
spogliata la storia dalle chimere e dalle assurdità, gl’ingegni non videro più in quelle ossa i resti dei sicoli giganti.
Lo Scinà avea detto nella sua topografia, che il
suolo della pianura di Palermo è un deposito del mare, e
vi si osserva qua e là la terra di alluvione. In effetto evidentissimi sono colà i depositi marini; e quel grand’uomo
avea eziandio osservato ch’essi alla loro superficie
hanno uno strato di tufo, indurito dall’azione dell’aria e
dell’acqua, impastato di conchiglie, e pieno di punti
bianco-lucenti ai raggi del sole. Ed aveva aggiunto ancora
che abbondantissimi sono in mezzo a tali strati di
tufo i nicchi marini, che furon depositati, per quanto
pare, lentamente e in un mare tranquillo. Poichè saggiamente diceva trovarsi quei fossili disposti in istrati regolari, e situati in più e distanti cave di pietra, come se ad
arte fossero stati collocati nel medesimo piano e alla
medesima altezza. E così parlando di tutte le varie specie
dei nicchi marini sul nostro suolo esistenti, nota l’unicorno
fossile minerale, che non di rado s’incontra in
mezzo a quel tufo; e quindi su di esso dottamente ragionando conchiude esser cosa certa che l’unicorno contiene
solfato di calce, nè si potrà perciò riprendere chi lo
avrà per un osso o di un animale marino, o pur terrestre
che più non esiste. Per le quali cose ben si vede come
avesse lo Scinà sin dal 1818, in cui pubblicò la sua topografia, ragionato sull’indole dei terreni che circondano
la nostra città, e sulle alluvioni e rivoluzioni della natura
ivi avvenute. Onde scoprendosi la grotta di Mardolce
non fu più malagevole ai buoni pensatori riconoscer
tosto la vera proprietà di quello immenso ammasso
di ossami. Il primo che vi rivolse il pensiero fu il celebre
naturalista Antonino Bivona, di cui sono ancor calde le
ceneri. Egli coll’acutezza del suo intelletto vide che fossili
doveano esser le rinvenute ossa, e consultando perciò
l’opera del Cuvier si rassodò, con questa divina fiaccola,
nelle concepute idee, e venne quindi annunciandoci,
che prezioso tesoro eran quegli ossami, che fossili
dovean reputarsi, e che ad ippopotami, ad elefanti, a cervi, e ad altre razze di animali o comuni o estinte appartenevano.
Ma mentre tali concepimenti facean tanto
onore all’ingegno del Bivona, venivano ad accrescer
nello stesso tempo la gloria dello Scinà. Perciocchè questi
aveva già stenebrato le menti, le aveva fatto accorte
che i contorni e tutta la pianura di Palermo era un ammasso di sabbione, tufo calcare, argilla, sabbia, conchiglie
marine; era ricca di fossili; era un deposito di mare;
le aveva guidate al filosofar presente, e a vedere quel
che oggi in effetto vedeano. Ma siccome tutte le buone
cose debbono aver contradittori e nemici particolarmente
in Sicilia, ove non è raro trovar dei cervelli leggieri e
balzani, così si videro fieramente attaccate le opinioni
del Bivona e dello Scinà. Eravi un discorde sentenziare,
un susurrare perpetuo, un motteggiare, un fantasticare,
un sragionare vergognoso. Fuvvi chi pubblicò nei fogli
periodici che mano d’uomo seppellì nella cennata grotta
le ossa di cui si parla, e che appartenevano agli elefanti
dell’armata cartaginese, allorchè fu da’ Romani vinta
nei contorni della nostra città; e agli ippopotami che si
trasportaron dall’Egitto per servire di diletto ne’ giuochi
della Naumachia, che presso Palermo, e precisamente in
Mar-dolce, esisteva. Altri (e si ricorda con viva dispiacenza per la sua qualità di naturalista) lesse nell’Accademia un discorso, le cui idee furon poscia nei fogli periodici riportate, e pretese che quel deposito di ossa fosse
un’opera dell’uomo; ch’elle fossero state ivi deposte
a strati, e sepolte di calcina di terra di lastroni di dura
pietra; ch’eran tutte di animali noti, e proprî della Sicilia
e della vicina Africa; che vi furon deposte durante il dominio di quasi dugento anni degli Arabi in questa isola,
i quali padroni ancora dell’Africa, di là qui li portarono
per allevarli ne’ loro parchi o serragli di fiere, e per gli
usi necessarî alla vita; cercando di dimostrare che non
poteano essere affatto di tempi antichissimi, mentre, secondo lui, vi si vedea la mano degli uomini che le seppellì.
Per la qual cosa veggendo il Bivona sì stoltamente
attaccate le sue opinioni diedesi ad osservare tutta la costa ch’è a livello di quella di Mar-dolce, la quale, secondo
aveva detto lo Scinà, doveva essere tutta piena di depositi marini; e quindi dovea presentare gli stessi fenomeni
ch’eransi ivi osservati. Difatti andò per le falde di
altri monti, e precisamente in quella dell’opposto Billiemi;
e trovò, scavando, un’immensità di frammenti di
ossa simili a quelle, per cui sì alte e rumorose quistioni
si levavano. Questa scoperta del Bivona convalidava
sempre più le idee dello Scinà, e la gloria ne accresceva.
Perciocchè ivi, secondo che lo stesso Bivona nobilmente
sdegnato rinfacciava, non combattè Asdrubale contro
Metello, ivi non è Naumachia, ivi non son laghi nè fonti,
ivi non fu palagio nè serraglio di Emiri, come non ne
furon giammai a Mar-dolce. Questi eran fatti che dovean
vincere le opinioni più ostinate, e pure non tutti
ammutirono. La pianura di Palermo avea per le osservazioni e pei travagli del nostro autore acquistato già un
eminente posto nella geologia di Europa; ma queste ultime
scoperte la resero famosa nel mondo. Il Cuvier, che
solo in geologia valeva un Areopago, osservava le ossa
che da qui a Parigi gli si mandarono, per conoscere il
parere di lui; ed ei le diceva fossili ed appartenenti ad
ippopotami, com’erasi detto dai nostri saggi, le reputava
preziosissimo acquisto, nel gabinetto del Re le collocava.
Dietro il sovrano giudicio di un sì grand’uomo tacquer
tutti; ed intanto lo Scinà veniva pubblicando quello
stupendo Rapporto che farà epoca nella storia naturale
della Sicilia. Imperciocchè ivi traccia le prime linee dello
studio della notomia comparata, di che non era alcun
segno fra noi. Egli sapientemente dicea che la forma e le
dimensioni sono quelle che distinguono i fossili dai viventi,
e sopra questi caratteri anatomici è fondata la novella
scienza chiamata dal Cuvier Paleontografia, e da
altri Archeologia-Zoologica. Quindi va istituendo confronti
importanti e dottissimi, ed innalza ai fossili siciliani
un monumento che non sarà mai per perire. Osserva
che la terra in cui giacean le ossa, e che le rivestiva,
tanto di Mar-dolce, quanto di Billiemi, era di alluvione,
e manda, calcinandosi, vapori ammoniacali, dando segni
sensibili, che racchiude materia animale, che si distrugge
col calore. In uno dunque degli antichissimi cataclismi
della natura furon colà depositati quegl’immensi
banchi di ossami. Lo Scinà da cento osservazioni di fatto
raccoglie che le ossa fossili che più abbondano sono
quelle degli erbivori, e fra queste le ossa d’ippopotami,
e poi le altre di elefanti; che tanto le ossa ch’eran fuori,
quanto quelle che si trovarono incrostate dalla stallagmite
dentro la grotta, sono tinte alla superficie di un co-
lor bruno rossastro, e nel tessuto cellulare, e nella parte
spugnosa di color rosso bruno, che proviene dall’ossido
di ferro, che le ha rivestito, e si è insinuato al di dentro
al par della calce carbonata, che in forma di cristalli si
vede nei pori, e negl’interstizî interni di tali ossa. L’inondazione non gli parea che fosse stata unica e nel medesimo tempo così in Mar-dolce, come in Billiemi, ed
inclinava a credere tanto per la terra ch’è più silicea nel
primo, e più calcaria nel secondo; quanto pel colore, e
per le varie circostanze dei terreni, e per la varia altezza
de’ luoghi, che sia stata una corrente marina quella che
abbia depositato le ossa nella grotta, e nella costa di
Mar-dolce; e più presto terrestre l’altra di Billiemi. Ma
egli, qual grande sapiente, annunciava dubitando cotale
opinione; ed attendeva che ulteriori scavi, ed ulteriori
scoperte avessero potuto meglio illustrare questo gran
fatto della natura.

La penna dunque dello Scinà, piena di vera e soda
scienza, educa la nazione, e fa sorgere negli animi i sentimenti generosi delle civili virtù. Noi abbiam sinora
proccurato di ritrarre, quasi in iscorcio, la fisonomia di
quelle opere, che cercaron di ricondurre gl’intelletti siciliani allo studio della filosofia, delle matematiche, e delle
cose fisiche e naturali. E sebbene non avessero fatto
elle avanzare la scienza per nuove creazioni ed invenzioni,
pure son tali e pel pondo della loro dottrina, e per
la maturità del giudicio, e per lo scopo, e pei lampi che
spande uno spirito profondo e luminoso, che han richiamato fra noi i buoni ed utili studî, volgendo le menti ad
un solo e vero ragionare.
Le quali cose signoreggiano del pari nelle sue storie
letterarie: quella del secolo XVIIIo mentre vi presenta un
quadro di tutte le vicende a cui soggiacquero in Sicilia
le scienze e le lettere in quel lungo periodo, tende a correggere
gli errori, a distruggere i pregiudizî, ad infervorar
gli animi per le amene discipline, che migliorano i
costumi, e riconducono fra gli uomini le idee del bello
dell’ordine dell’armonia.

Lo Scinà in quest’opera magistrale svolge il suo subbietto
con maestra mano. Egli padrone del campo lo
corre per ogni verso: presenta la cultura siciliana nel suo
vero stato, penetra le cagioni che ne ritardarono il progresso
e lo sviluppo, sieno state prodotte o dalle barbariche
mani degli uomini o dall’ignoranza dei tempi; quindi
veggonsi gli avvenimenti politici ai civili e letterarî
sempre innestati. I metodi degli studî, l’ostinatezza della
scolastica filosofia, e le opinioni e i principî che dominavano
ne’ varî rami del sapere, che or vacillava, or lentamente
progrediva, or di nuovo ricadeva in tenebri più
folte, son tali cose che forman di quel secolo un quadro
ricchissimo di vicissitudini di sapienza di verità. Ed afferrando
noi lo spirito di tutta l’opera diremo ch’ella offre
tre varî stadi dell’epoca che descrive. Nel primo osservansi
errori ed oscurantismo: nel secondo sorgon desiderî
di progresso, e si conoscono gli errori, si fanno
sforzi per vincerli; nasce una lotta di passioni e di opinioni,
si perde e si guadagna, ed intanto si preparano gli
spiriti ad una scientifica e letteraria rigenerazione. Nel
terzo stadio, in cui viveano gli uomini morti la più parte
nel nostro secolo, si abbatte la filosofia del peripato, che
avea tanto grandeggiato e compreso le menti; si studiano
le scienze della natura per mezzo dell’esperienza e
dell’osservazione; la letteratura riprende il suo aspetto
nobile e gentile; i classici tornano in onore; gli studî sopra
altri sentieri si dirigono, le menti al bello ammaestrate,
del bello s’innamorano, ed il gusto, che in quei
tempi tanto fra noi putava del seicento, si deride, ed in
odio si prende.

Lo Scinà dunque trovò la fisica fra noi caduta sì che
barbara era, ed ei colle opere sue l’innnalzò a grandissima
dignità, rivolgendo le menti allo studio delle sperimentali
scienze. La Sicilia non aveva esempî di storia
letteraria, se non poche ed imperfette biografie e bibliografie,
e Scinà di storie letterarie filosofiche ed eccellentissime
le fe’ dono. Egli poi diresse gli studî del suo
tempo, e diede gagliardissima spinta agl’ingegni; quindi
si fu per la sua autorità e per la sua influenza che si videro
creare mano mano il Dicearco, il Gorgia, il Lisia, il
Polizelo, l’Antioco, il Temistogene, l’Epicarmo. Se Scinà
non fosse stato noi non avremmo que’ riputati lavori.
Gli studî greci tornarono in onore appunto perchè egli
co’ suoi scritti scosse gli animi, ed invogliò la generazione
che cresceva a seguire le orme che aveva gloriosamente
segnate. Nè il luminoso esempio di un tanto
uomo limitossi a far che venissero onorati i soli Grecisicoli;
perciocchè i moderni Siciliani più insigni, dietro
l’esempio di lui, son venuti eziandio nobilmente illustra-
ti: ed egli portò sì avanti amore per la patria che i più
cospicui intelletti a coltivare le patrie cose si rivolsero.
E bene e sapientemente diceva che con pochi aiuti potremo
di leggieri studiar le cose di Sicilia, e queste illustrando,
guadagnare una gloria, che non ci potranno rapire
gli stranieri, perchè noi saremo i primi ad arrivarla.

La nostra politica, soggiungeva, giacchè le lettere hanno
ancora la loro, dovrebb’essere quella di occuparci delle
cose nostre, e il motto d’unione tra’ Siciliani che pigliano
a coltivare le scienze, dovrebb’esser Sicilia. Questo
santissimo motto, questa generosa unione, predicata da
un uomo di sì gran nome conseguì pienamente il suo
scopo: le sue voci infiammarono gli animi, e furon concordemente seguite. Ecco l’impronta che diede al suo
secolo Domenico Scinà; ecco i benefizî che fece alla Sicilia
questo grand’uomo. La nostra terra non è stata mai
con più calore studiata, amata, quanto a’ giorni nostri.
Gl’ingegni si diressero ad illustrarla a gara, e chi dal
lato dei prodotti della natura, chi dal lato economico ed
industriale, chi dal lato artistico, chi da quello storico, e
chi da quello archeologico con plauso dell’intera Europa.
I poeti medesimi han cavato gli argomenti de’ loro
poemi, e delle loro tragedie dal fondo della siciliana storia.
Insomma lo Scinà innalzò colla sua voce e col suo
esempio una bandiera, sotto di cui si arrollarono le menti
più grandi della Sicilia.

Ecco l’uomo che abbiam perduto! ecco l’uomo che
per variare di generazioni e di fortuna vivrà eterno nelle
pagine più belle dei nostri annali!

Egli era atletico di figura e severo; e sebbene avesse
avuto debole la vista, pur nel vigore e nella penetrazione
dello sguardo lo avresti fra mille riconosciuto. Visse sobrio
e trascurato di sè stesso: pari al Maurolico benefico
fu verso i suoi, e parco verso di sè: simile all’Alfieri,
l’amabile indulgenza, virtù si cara (come fu sì ben detto)
e sì dolce a chi l’esercita, e verso cui si esercita, gli fu
virtù sconosciuta. Più che l’amore conobbe l’amicizia;
poco diletto prendeva delle ricreazioni dello spirito, e
del corpo; passò sua vita immerso nelle contemplazioni
della natura, e nelle concezioni delle opere sue. Si può
dir di lui quel che di Archimede egli stesso diceva, che
altissime cose contemplando, era preso dalla dolcezza di
queste; e quanto più si estendea nel pensiero, tanto
meno si affaccendava alla cura del corpo. Così e non altrimenti
possono gli scienziati dalla terra innalzarsi, pigliare
le vie sublimi del cielo, la fama eterna acquistare.
Era di fatto l’avidità del sapere, e l’ardore della gloria,
che reggea le sue forze, aguzzava il suo intelletto, sostenea
la sua attenzione. Nè i suoi desiderî andaron falliti:
nome e fama chiarissima ebbe presso tutti, e la posterità,
che non suole ingannarsi nella stima degli uomini che
già furono, lo riguarderà come sommo.

La conversazione di lui era oltremodo piacevole; chè
di spirito, di sali attici, di motti or graziosi or pungenti
condiva il suo faceto ragionare. Non aveva ribrezzo ad
ammetter chicchessia in casa nelle ore che al sollazzo
destinava: quindi assai diverso in ciò dal Gregorio una
miscela curiosa tu vedevi di persone che lo circondava-
no: i dotti e gl’indotti cogli onesti e con quelli che forse
non lo erano in una medesima sala, e in un medesimo
crocchio insieme congiunti. Ma egli onorava gli uni,
scherniva sottilmente gli altri, ed a spese di questi si divertiva.
Cupido di notizie, quasi ad alleggiamento delle
gravi occupazioni dello spirito, prendeva diletto a sapere
ciò che avveniva in Europa, e quel che si dicesse e facesse
in Sicilia. Nelle dispute letterarie avea facilmente
il primato, perchè potente era il suo ingegno, potente la
sua facondia. E se per avventura vi fosse stato, come vi
fu talvolta, chi lo vincesse, ei cangiava tosto ragionare,
ripensava su quel subbietto da sè solo, e quando men si
credeva, vi ritornava con grand’arte altra fiata, e presentandosi con novelle armi, cercava di riguadagnare il perduto.

CONCHIUSIONE.

Era Palermo dal feroce morbo indiano travagliata in
quei giorni che furon gli ultimi di Domenico Scinà: cadeva
il popolo infelice mietuto dal cholera, e più dal
crudele abbandono degli uomini. Lo Scinà sentiva in
suo cuore fierissima doglia della disgrazia che ci colpiva;
e pieno di profonda mestizia muto e riconcentrato
stava in sè stesso. Era egli solito di batter due volte al
giorno le strade che dividon per mezzo la nostra città; ed
in quei momenti di pubblico lutto aveva interrotto il suo
antico costume. Ma un giorno, preso da più truce abbat-
timento, a tante scene di orrore che sotto gli occhi nostri
avvenivano, scende tutto solo dalla derelitta casa, e a
camminar si mise le usate vie. Giunto alla chiesa di Santa
Croce si ferma; e stende lo sguardo per quei luoghi: il
tetro silenzio che dominava, i lividi cadaveri che ammonticchiati
su i carri, e dai carri penzoloni, vedeansi
con disdegno ed orrore trasportare in pieno giorno, lo
spavento che stava impresso ne’ volti di que’ pochi, che
correan furibondi la misera città in cerca di medicine e
di medici, e senza speranza di rinvenire nè le une nè gli
altri, scossero fortemente la concitata fantasia dell’uomo
grande che piangiamo. Ei monta le scale di Santa Croce,
innanzi a cui fermo si stava, e s’imbatte nel P. Milana,
cappellano di quella chiesa: lo arresta, e con un lampo
di quella potente facondia, che le fibre più occulte del
cuore penetrava, gli dice con voce tremola e commossa:
la morte signoreggia dappertutto, le umane illusioni svaniscono,
cedon le passioni, poco altro forse ad ognun di
noi rimarrà di vita, il nostro principio già al principio
eterno si va a congiungere: e sì dicendo gli manifesta la
brama di deporre il pondo delle umane debolezze a piè
del ministro dell’altare. E poco appresso Domenico Scinà
eseguiva entro le sue stesse mura quest’umile atto
della religione de’ padri nostri, e del sacramento eucaristico
si muniva. Difatti pochi giorni più in là veniva
saettato dal tremendo morbo, e quando scoccavano le
ore due de’ 13 luglio Iddio a sè ritirava il sacro soffio di
quella vita.

Fra la innumerevole schiera dei beneficati di Domeni-
co Scinà altri non vi fu, che in quel terribile frangente
gli apprestasse la consolante voce dell’amicizia, che Pasquale
Pacini. Quest’uomo dotto e generoso mai non lo
abbandonò: stava sovente vicino al capezzale del colpito
amico; la gelida destra, ministra un giorno di sì alta sapienza,
spesso fra le sue palme riscaldava, vivi baci imprimendovi,
e di lagrime tenerissime bagnandola. Un
medico, da lui amato e protetto, richiesto con immensa
sollecitudine, dalla trambasciata famiglia, perchè venisse
a visitar Scinà, iniquamente negavasi all’invito. Altri,
di cui la storia, per solo obbrobrio, tace il nome, avvezzo
a salir le scale dei miseri colerici, per l’ingordigia
sola dell’oro, vide più volte, e sempre da lontano l’infermo
sapiente, stolte prescrizioni faceva, e tosto, col pugno
pieno di argento, dispariva. Qui si presenta all’agitato
pensiero il duca di Cumia. Questo uomo singolare,
cui la storia non vile porrà nel suo vero lume e colmerà
di gloria non compra, era dello Scinà amico dolce e caldissimo.
Udiva egli con acerbo dolore il colpo a cui
questi era soggiaciuto; e in mezzo alle sue private sventure,
ed all’enorme soma delle pubbliche cose, che, in
quei momenti di popolare concitazione, reggeva con
senno grandissimo, con consiglio, e con una forza morale
prodigiosa, correva, egli stesso per la città, in traccia
di medici e di medicine, provvedeva l’infermo di tutto
che in quei tempi di estrema penuria, e di generale abbandono,
abbisognar gli potesse, ed inviavagli Girolamo
Minà, dotto ed egregio professore, ed uno dei pochissimi
che si prestarono realmente alla cura degl’infelici at-
taccati. Costui assistette con generoso affetto il
grand’uomo, ma il morbo erasi avanzato, il colpo era
stato letale, e bisognava pagare il tributo alla natura.
Poco innanzi che morisse chiedeva ad un suo giovine
nipote3, che accanto a quel letto di morte sedeva, che
prendesse un libro e leggesse. Cadde al giovinetto nelle
mani un volume di Foscolo, e dicendogli qual libro si
avesse, il moribondo sapiente, con voce fioca e lenta, rispondeva, che quelle pagine l’orazione a Bonaparte contener
dovevano, e quindi quella leggesse....... In questo
mentre il Pacini sopravveniva, e Scinà in segno di dolce
riconoscenza lo abbracciava, e la mano toccandogli l’estremo
addio gli diceva. Poco appresso arriva il P. Insinna
della gesuitica compagnia, amico dello Scinà e da lui
richiesto, e mentre questi la voce dell’ultima speranza
sommessamente gli porgeva, l’anima grande esalava.
Niuno lo accompagnò al sepolcro: niun luogo separato
lo chiuse; verun fiore fu versato sulla sua pietra.
Giorni crudeli! epoca memoranda ed orribile! Verrà qui
lo straniero, dimanderà la tomba, ove Scinà riposa, ed il
silenzio ed il pianto alla sua inchiesta risponderanno.
Tanti insigni intelletti, che resero più nobile e più illustre
il nativo suolo, che diffusero il nome siciliano, e di
somma gloria splendettero non si ebbero un palmo di
terra che separati li chiudesse. Sepolto e confuso fra la
moltitudine degl’infelici, che la fiera pestilenza uccideva,
distrutto il suo corpo dalla calce, non resta più reli-
3 Domenico Ragona di felicissime speranze, e dal defunto caldamen - te amato, ed avviato alle scienze.
quia di quelle membra, che un’anima sì maschia e sì sublime
informarono. Ahi che le mie tremende sventure
ricordo! ahi che il pondo delle angosce private e pubbliche
schiaccia il pensiero e lo annienta!

Salve, o Scinà, salve scrutatore profondo delle siciliane
cose: tu interrogasti la natura, illustrasti il suolo l’aria
il cielo il mare della tua patria; facesti coll’immortale
tua penna rivivere più onorati gli uomini insigni che
l’antica e la moderna Sicilia produsse; illuminasti un secolo,
spargesti lampi di luce su noi. Salve spirito benedetto,
la tua memoria sarà viva nei nostri petti, intatta
sarà la tua fama, e si tramanderà gloriosa alle età più
lontane.


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EL ENCUENTRO EN LA VICTORIA



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UN ENCUENTRO EN LA VICTORIA

Autor: ©Giuseppe Isgró C.

Del libro: La Victoria

Capítulo I

Me encontraba un día, en una fuente de aguas tranquilas, cristalinas, cuando se me acercó un Venerable hombre, vestido a la antigua usanza, con bata blanca, larga, pelo y barba que alguna vez fueron de color pelirrojo y un báculo en la mano derecha.

Concentró sus ojos en los míos; su mirada era profunda, serena y apacible.

Con voz suave y afectiva, me dijo:

-“Hola, hijo, como estás”-.

–Bien, -le contesté-; y, ¿usted?

–Por aquí andamos; -fue su respuesta-, mientras me sonreía.

-¿Dónde estamos?, -le pregunté al Venerable hombre-.

-Este sitio es conocido como La Victoria; -me contestó-. –¿Qué haces por estos lados?

-Salí esta mañana, temprano, con el coche, a dar un paseo; luego, al llegar a esta zona, me paré a contemplar la belleza de los araguaneyes y decidí caminar un poco y la verdad que, absorto en mis reflexiones, caminé por lo menos durante dos horas, hasta llegar aquí. Desconocía este hermoso lugar. Y, usted, -¿vive por aquí cerca? -le pregunté-.

Un poco más arriba, en esa colina boscosa. Hace algunos años, -relata el Venerable hombre- decidí retirarme de la agitada vida ejecutiva en que me desenvolvía profesionalmente, como abogado, en la ciudad de Quebec, Canadá, aunque he viajado por diversos países asesorando a incontables líderes. Construí la casa, en esta zona tropical, con la idea de pasar aquí los meses de invierno. Me dedico al estudio de la vida, a la meditación y a cultivar mi jardín y de vez en cuando, a escribir mis reflexiones, las cuales, algún día, habrán de ser publicadas para esparcir un poco la luz que he podido vislumbrar en mis estudios metafísicos-espirituales.

-¿Quieres tomar un café? –Me preguntó el Venerable hombre-. Lo he traído de Caripe El Guácharo; es de los más exquisitos que he probado.

-Sí, con gusto se lo acepto; -le contesté-.

Nos fuimos caminando por un sendero rodeado de árboles cargados de mangos, aguacates, naranjas y una hilera de cayenas de diversos colores. A lo lejos, el ruido de la brisa se oía apaciblemente. Todo era quietud, armonía y paz. Pero, sobre todo, lo que más me impresionaba era la apacibilidad y el sosiego del Venerable hombre de La Victoria. Emanaba de él un flujo de fuerza que, en su presencia, me sentía con un poder y una seguridad nunca antes experimentados. Fuerzas bienhechoras se iban apoderando de mí y aquella paz y relax que buscaba en la mañana, al salir a dar un paseo, sin percatarme de ello, las estaba experimentando ya.

Después de unos quince minutos de caminar, llegamos a la casa del Venerable hombre. Su aspecto exterior humilde estaba lejos de dejar entrever lo que segundos después habría de asombrarme con lo que encontré en el interior.

Al entrar, en la casa, una joven de unos veinte años saludó al Venerable hombre.

-¡Hola, abuelo!, ¿cómo estás?

–Bien, hija, -contestó el Venerable hombre-. -Prepara un poco de café, Lucía, mientras conversamos un poco, adentro.

-Por cierto, te presento a Santiago, quien ha llegado paseando hasta La Victoria.

Después de la presentación, entramos en la biblioteca del Venerable hombre. Un salón grande, lleno de estantes de libros por todas partes, lo cual hacía inimaginable dicho cuadro desde el exterior. Algunos cuadros al óleo de morichales y de personajes históricos, presentaban un ambiente acogedor. En un rincón se encontraban diversos retratos de Tagore, Gandhi, Cicerón, Séneca, Ibn Arabi y un dibujo de Don Quijote y Sancho Panza. En un pequeño cuadro, podía leerse: -“Lo que Alá quiera. Nada se le asemeja”-.

-Le felicito por este inmenso tesoro que usted tiene aquí, -le dije al Venerable hombre-. -¿Cuáles son los temas de su interés?

A lo cual, me contestó: -Como usted puede ver, Santiago, -y me invitó a recorrer los estantes- aquí hay libros de variados temas: clásicos de todos los países y épocas, desde los Vedas, los Upanishads, el Mahabaratha, los libros de Confucio, El Tao te King, de Lao Tse, el Poema de Gilgamesh, el Código de Amurabí, autores griegos, como Homero y Hesiodo. Se encuentran las obras completas de Euclides, Platón, Aristóteles, Teofrasto, Demetrio de Falereo, de los Presocráticos, Epicteto, Plutarco, etcétera; de los latinos, autores como Séneca, Cicerón, -que son mis preferidos-, Julio César, Tito Livio, Dionisio de Halicarnaso, Marco Aurelio, así como libros de Psicología, Gerencia, Sufismo, Yoga, ensayos, filosofía, parapsicología, hermetismo, El Quijote, libros de economía, filosofía, etcétera, en fin, un poco de todo lo que es preciso conocer para poder entender el significado de la vida: de dónde venimos, por qué estamos aquí y hacía dónde vamos, sin lo cual, la vida no tendría sentido, sobre todo por el gran afán a que está sometido el ser humano en la agitada vida moderna.

Nos sentamos en sendas butacas y nos entretuvimos conversando de temas diversos. Al poco rato, entró Lucía con dos tazas de oloroso café y unos biscochos, que degustamos con agrado en una amena e interesante conversación. Al fondo, podía oírse una suave música de Beethoven.

Pasamos cerca de una hora conversando de sobre la Atlántida, Egipto, los griegos, de Homero, de los sufíes, del budismo zen, los poderes del espíritu, meditación, etcétera, después de lo cual, le hice una pregunta directa.

-Seguramente, usted ha desarrollado alguna técnica de meditación y algún método de resolución de situaciones, en la vida, que me quisiera explicar, ya que, según observo, para tener usted una serenidad tan acentuada y una fortaleza física a la edad que imagino que usted debe tener, -cerca de noventa años- es porque ha encontrado en su larga experiencia algún secreto que quizás quisiera compartir conmigo.

Santiago, -me dijo el Venerable hombre, si vuelves a visitarme otro día, quizá te cuente algo que te pueda servir. Empero, antes de que te vayas, te haré entrega de unos apuntes que hace ya muchos años, en una época en que yo andaba a la búsqueda de sosiego y tratando de encontrarle sentido a la vida, un Venerable hombre que, en una edad similar a la mía, a su vez me entregara y cuya práctica asidua me permitió domar la mente, encarrilar mi vida y poner bajo control los hilos del destino. Son veintidós manuscritos, y una meditación diaria, –continuó diciendo el Venerable hombre, que si bien son ya un poco antiguos, podrás copiarlos de nuevo y si pones en práctica las técnicas que contienen, darás a tu vida un esplendor que habrá de sorprenderte agradablemente.

-Una vez que los hayas probado con total y absoluta satisfacción de tu parte, -me dijo, ponlos en limpio, en forma de libro y publícalo para que su mensaje llegue a mayor número de personas. Hacía tiempo que esperaba a alguien a quien confiarle este legado y creo que hoy, al llegar aquí, en la forma en que lo has hecho, tus pasos han sido dirigidos por Aquel que todo lo sabe y puede, por la Ley Cósmica, y en cuyos planes universales, todos somos sus instrumentos.

Me despedí del Venerable hombre y de su adorable nieta, sintiendo dentro de mí fuerzas desconocidas hasta entonces que preanunciaban grandes cambios en mi vida.

En los días siguientes, aparté una hora diaria, antes de dormirme, y leí y releí, todos los manuscritos, de la siguiente manera: En primer lugar copié la Meditación diaria en un cuaderno, el cual leí durante veintidós noches y mañanas seguidas, tal como lo indicaban las instrucciones de la misma.

Una nota al pie de página mencionaba que si yo la transcribía en un cuaderno, el hecho de hacerlo, grabaría en mi ordenador mental las instrucciones y me sería más fácil desarrollar, en mi personalidad, las cualidades y condiciones que formaban parte de los objetivos implícitos en la misma.

De los veintidós manuscritos, cada lunes, a las once en punto de la noche, copiaba uno en el cuaderno, y durante el resto de la semana, a la misma hora, lo leía y meditaba, siguiendo las fáciles y efectivas técnicas e indicaciones al inicio del mismo.

Cuatro semanas después de leer durante veintidós días seguidos, en la noche y en la mañana, la meditación diaria, comenzaron a manifestarse en mi vida una serie de cambios positivos que me dejaban asombrado a mi mismo, pero, también, los miembros de mi familia y a mis amistades; sobre todo mi semblante comenzó a ser más apacible; volví a sonreír desde el interior; mi estado anímico era de contento; me sentía más seguro de mi mismo; comencé a confiar más en la gente, en la vida y a vislumbrar el sentido de mi misión en la vida –percibía cosas que antes me pasaban desapercibidas, a pesar de haber estado siempre allí. Sentía fluir en mí una nueva corriente vivificadora de prosperidad, de felicidad, de alegría de vivir. Mi entusiasmo y amor por la vida y por mi familia, por mi trabajo y por las personas, crecía día a día. En aproximadamente dos meses había logrado muchas de las cosas en las cuales había soñado desde hacía años. Había dado un paso sorprendente en el camino de la autorrealización.

Efectivamente, pude comprobar que me fue relativamente muy fácil desarrollar las aptitudes y actitudes a nivel físico, mental, emocional, espiritual y en diversos aspectos de mi vida, como el financiero, que comenzó a mejorar casi inmediatamente, así como, surgieron nuevas oportunidades que comencé a aprovechar, casi sin esfuerzo de mi parte.

Transcurría el año de 1967 y mi vida había encontrado un sendero que habría de conducirme a cooperar en forma más efectiva en el plan divino que el Supremo Hacedor, en algún momento, había diseñado para mí.

Tres meses después volví a aquel lugar donde había encontrado al Venerable hombre de La Victoria y allí estaba la fuente que él dijo llamarse La Victoria; empero, cuando traté de encontrar el camino para llegar a la casa donde amablemente me ofreció un delicioso café, preparado por su nieta Lucía, no logré encontrarlo, pese a haber recorrido durante un par de horas por los alrededores. Pregunté a varias personas para ver si podían indicarme como llegar a la casa del Venerable hombre y cual fue mi sorpresa, nadie lo conocía.

Empero, después de tanto buscar, volví a encontrar la casa donde vivía el Venerable hombre de La Victoria, pero se encontraba abandonada. Su aspecto indicaba que debía encontrarse en ese estado un lapso mayor del que mediaba con el encuentro de aquel ser extraordinario. Es sorprendente como los inmuebles solos acusan el paso del tiempo en mayor grado que los que son habitados. Si no fuera por los manuscritos pensaría que el encuentro no fue más que un simple sueño. -¿O se trata, acaso de un sueño combinado con un fenómeno de aporte? Personalmente, no lo creo. El encuentro fue muy vívido y real. El aromático café servido por Lucía estaba exquisito. Durante varios años volví al lugar varias veces, la casa seguía sola. La última vez que volví, no la pude ubicar y sin tener tiempo suficiente para seguir buscándola, me fui. Ahora, vivo muy lejos de aquella zona, en otro continente; han transcurrido muchos años y después de tanto tiempo es poco probable que vuelva allí; pero, los manuscritos y la meditación diaria obran en mi poder, me han transformado y han enriquecido mi vida.

Durante más de treinta y cinco años he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen los manuscritos y la meditación diaria y cada vez que los pongo en práctica, experimentos los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para mí.

Su contenido es eminentemente práctico; no hay teorías superfluas. Si lleva a cabo los ejercicios que contienen, es probable que, gradualmente, se vaya efectuando la transmutación alquímica de su ser sintonizándose con los elevados resultados existenciales, los cuales, por añadidura, al ser creados a nivel mental, se van manifestando en su propia vida, oportunamente.

Sobre todo, con estos ejercicios, me percaté, cuando el Venerable hombre me entregó los manuscritos, de que se dispone de un método para domar la mente y ejercer un pleno dominio sobre la vida en general y, por ende, sobre el destino y controlar, cuando eventualmente se presenten, todas las situaciones, manteniendo un perfecto equilibrio físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

El Venerable hombre de La Victoria me comentaba que todo se puede lograr en la vida si se siembra la respectiva semilla por medio de correctas decisiones acordes con la propia y elevada auto-estima y dignidad personal, desarrollando el convencimiento de que sí se puede hacer, por medio de las afirmaciones, las visualizaciones y meditaciones, la experimentación de un estado emocional acorde al momento de ser logrados los respectivos resultados y la practica del desapego, es decir, dejar encargada a la mente psiconsciente del logro, y además, se espera el tiempo necesario haciendo, mientras tanto, todo lo que se requiere, según el caso o los objetivos por alcanzar.

Estas técnicas funcionan, me decía una y otra vez el Venerable hombre de La Victoria; luego, agregaba: -las he probado por más de cincuenta años y quien, a su vez me las entregó, habría hecho otro tanto, aseverando que eran efectivas, si yo seguía fielmente las instrucciones y las ponía en práctica con expectativas positivas.

Desde que en 1967, el Venerable hombre me hiciera entrega de los manuscritos, han transcurrido un poco más de de treinta y cinco años, durante los cuales yo también he puesto en práctica las diversas variantes de los ejercicios, afirmaciones y meditaciones que contienen, y cada vez que me ejercito con ellos, experimento los mismos beneficios. Ahora, ellos se encuentran en el libro que usted tiene en sus manos; espero que les sean tan útiles como los han sido para todos los que hemos aplicado las enseñanzas del Venerable hombre de La Victoria.

Él me repetía constantemente: -“¡Tú puedes si crees que puedes hacerlo! ¡Hazlo y tendrás el poder!

Recuerdo que ese día el Venerable hombre me dijo: -ejercer el poder con que la naturaleza de las cosas ha dotado a cada ser, cultivando los dones inherentes y aprendiendo todo lo que se pueda de sí y del vasto universo del que se forma parte, es una manera efectiva de ser cada día más feliz. Luego, cuando me despedí de él, expresó: -“¡Que cada día brille más y mejor tu luz interior!”.- Adelante.

Capítulo 2

Meditación diaria

Es lunes en la noche, son las once en punto.

Me dispongo a copiar textualmente, en el cuaderno que he dispuesto para ello, el manuscrito identificado con el título:

Meditación diaria

Dice así:

Afirme, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desee, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubra cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en su vida:

MEDITACIÓN DIARIA

Afirma, en la mañana y en la noche, antes de dormir, durante veintidós días; luego, cada vez que lo desees, esta poderosa fórmula de programación mental positiva y descubre cómo, con facilidad, van ocurriendo cosas maravillosas en tu vida. Al encender la luz en la mente se ilumina la propia existencia y todo en derredor vibra al unísono y con el mismo sentimiento de felicidad y bienestar, interrelacionándose por la ley de afinidad.

1. -Entro en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, contando de tres a uno: Tres, dos, uno.

Ø Ahora, estoy ya en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre.

Ø Voy a permanecer en el nivel de mi mente psiconsciente, en el centro de control de mi piloto mental automático, donde todo va bien, siempre, durante quince minutos y voy a programar los siguientes efectos positivos, los cuales perduran, cada vez mejor, hasta que vuelva a realizar este acceso y programación mental:

Ø Todo va bien, siempre, en todos los aspectos de mi vida, cada día mejor. (Tres veces). –Imagínalo-.

Ø Todo va bien en mi trabajo; cada día logro mejores niveles de efectividad, prosperidad, riqueza, abundancia y bienestar. (Imagínalo).

2. Formo una unidad cósmica perfecta con el Creador Universal, -ELOÍ. (Diez veces, con los ojos cerrados). Hoy se expresa en mí la Perfección universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión en todos los aspectos de mi vida.

3. -Cada día, en todas formas y condiciones, mi cuerpo y mi mente funcionan mejor y mejor. La consciencia de mi conexión permanente e indisoluble con el Creador Universal, -ELOÍ-, restablece y mantiene en mí, diariamente, durante las veinticuatro horas del día, un perfecto estado de salud a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Creador Universal, por darme un cuerpo perfecto, saludable, lleno de energía. Aquí y ahora, me siento en perfecto equilibrio de salud, a nivel físico, mental, emocional y espiritual.

4. Afronto y resuelvo bien toda situación que me compete, siempre.

5. Todo tiene solución, en todas las situaciones de mi vida.

6. El Creador Universal, -ELOÍ-, es en mí, cada día mejor, en todos los aspectos de mi vida, fuente de amor, luz, sabiduría, éxito, riqueza, prosperidad, abundancia y armonía.

7. Permito que las leyes universales de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión actúen bien en el plan de mi vida.

8. Tengo prosperidad y poder. Cada día enriquezco mejor mi vida a través del servicio efectivo, del amor y de la práctica de todas las virtudes.

9. Mi dignidad personal me lleva a realizar las cosas que me competen con la máxima perfección posible.

10. Cada día, en todas formas y condiciones, en todos los aspectos de mi vida, estoy mejor y mejor a nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero.

11. Actúo con templanza, serenidad, autodominio y perfecto equilibrio en todo. Conservo plena autonomía y control sobre todas mis facultades físicas, mentales, emocionales, intelectuales y espirituales. Hecho está. (Visualizar un escudo protector de luz que te envuelve y protege; -una pirámide-).

12. Tengo fortaleza, valor, confianza y fe suficiente para triunfar y alcanzar todas mis metas, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y en armonía con sus planes cósmicos. Soy inmune e invulnerable a las influencias y sugestiones del medio ambiente y de cualquier persona a nivel físico, mental, emocional y espiritual, en las dimensiones objetivas y subjetivas y en cualesquiera otras en que sea requerido.

13. El orden universal de la Vida, del amor, de la luz, de la sabiduría, del perdón, de la percepción de la verdad, de la aceptación de la realidad, de la justicia, de la igualdad, de la compensación, de la fortaleza, de la templanza, de la belleza, del equilibrio, de la armonía, de la salud, de la prosperidad, de la riqueza, de la abundancia, del servicio y de la provisión se establece en mi vida, en todos mis asuntos y en las personas interrelacionadas, aquí y ahora. Hecho está.

14. Asumo la responsabilidad de mis actos y cumplo bien todos mis compromisos, siempre oportunamente, de acuerdo con el orden cósmico.

15. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos da abundancia y armonía en el eterno presente. Vivo en abundancia y en armonía perfectas, aquí, ahora y siempre.

16. El Creador Universal, -ELOÍ-, se está ocupando de todo, en todos los aspectos de mi vida, y se expresa en mí conciencia intuitiva por medio de los sentimientos en correspondencia con los valores universales.

17. Gracias, Creador Universal, -ELOÍ-, por esta vida maravillosa. Que Tu Inteligencia Infinita, Amor, Sabiduría, Justicia, Luz, y Poder Creador guíen, adecuadamente, todas mis decisiones y acciones, ahora y siempre. Gracias, Eloí, por este día maravilloso.

18. El Creador Universal, -ELOÍ-, nos proteja, aquí y en cualquier lugar, ahora y siempre. (Tres veces).

19. Siempre espero lo mejor, de acuerdo con la voluntad del Creador Universal, -ELOÍ-, y la Ley Cósmica, en armonía con todos.

20. Gracias, Creador Universal; todo va bien en todos los aspectos de mi vida, a nivel físico, mental, emocional y espiritual. Gracias, Eloí, todo va bien en mis practicas espirituales y en mi relación Contigo; Tú y yo formamos una unidad perfecta, armónica, aquí y ahora, en el eterno presente. Yo soy Tú, Tú eres yo. Te amo.

21. Voy a realizar –obtener o resolver- (mencionar), antes del: (fecha), de acuerdo al orden divino y en armonía con todos. (Si se trata de varios objetivos, anótelos y haga la afirmación y visualización con cada uno de ellos. Imagínelo concluido satisfactoriamente sin imponer canal alguno de manifestación.)

22. Tengo serenidad y calma imperturbable. Soy impasible frente a todo y a todos. No tengo temor a nada, a nadie ni de nadie en ningún nivel físico, mental, emocional, espiritual y financiero. Dentro de mí vibra la seguridad total. Tengo completa confianza en la vida y en mi propia capacidad de resolver situaciones y alcanzar los resultados satisfactorios que preciso, en cada caso, siempre.

A continuación anoté la fecha: Lunes 12 de agosto de 1967. Luego, tal como me lo indicó el Venerable hombre, anoté la fecha que correspondía veintidós días después: 03 de septiembre de 1967.

Acto seguido, me senté cómodamente, tomé tres respiraciones profundas y realicé la meditación.

Luego, cada noche, durante veintidós días, a las once en punto, me iba a mi cuarto, daba indicaciones de no ser interrumpido durante veinte minutos y realizaba la meditación del día, la cual, siempre complementaba con la lectura breve de uno de los libros de cabecera que siempre suelo tener en mi mesa de noche.

Iba notando, día a día como emergía de mi interior una nueva y desconocida fortaleza, seguridad, estado de ánimo contento, actitud más decidida, optimismo frente a la vida y a las situaciones; comencé a llevarme mejor en las relaciones con las demás personas, a ser más comedido en todo y sobre todo comenzaba a tener conciencia de cosas que antes me solían pasar desapercibidas.

Cabe destacar que, en el punto número veintiuno de la meditación, había anotado siete objetivos que desde hacía tiempo quería realizar y para mi sorpresa, treinta días después de haber terminado de efectuar la meditación del manuscrito número veintidós comencé a observar como, en forma aparentemente casual se iban manifestando la resultados de cada uno de ellos hasta que, algunos meses después, antes de la fechas previstas, los había realizado todos, menos dos, por lo cual, me senté y volví a anotar, en una hoja de mi cuaderno, otros diez objetivos, encabezados por los dos pendientes de la lista anterior, les puse la fecha tope a cada uno, antes de la cual debían ser logrados, para seguir visualizando, su logro, periódicamente.

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viernes, 31 de enero de 2014

DOMENICO SCINÀ




 DOMENICO SCINÀ

FERDINANDO MALVICA.


DOMENICO SCINÀ fu uno di que’ pochi cui la storia potrà indicare al mondo come gli uomini, per mezzo della
sola sapienza, possano vincere i pregiudizî della società,
e distruggere le ingiustizie della fortuna; poichè egli,
nato povero ed oscuro, giunse a tale che l’aristocratica
grandezza più superba e più opulenta inchinavasi dinanzi
a lui, e deponeva umile ogni matto prestigio del suo
splendore. Questo è il più bello dei trionfi dell’ingegno
sulla forza e sul potere umano!

Domenico Scinà estese la sua influenza su tutti gli
spiriti, e dominò la letteratura siciliana del suo secolo.
Severo come di volto così di costumi, conscio del suo
valor non comune, e della bassezza dei tempi, sorvolò
qual’aquila su tutti, e fe’ a tutti sentire qual pondo avesse
un ingegno trascendente, quando alla severità del carattere e dei principî si congiunge. Se egli con quel suo
giudicio sì sottile, e quella logica sì potente che faceasi
strada fra mille dei più forti, e mille abbatteva, avesse
accoppiato l’amabilità e la gentilezza dei modi sarebbe
divenuto l’idolo della Sicilia. Ma la natura sempre equa
ne’ suoi divisamenti, compensò in lui a ribocco da una
parte ciò che dall’altra negogli. Perciocchè la tempra del
suo spirito, forte e nobilissima essendo, imprimeva un
carattere robusto ed originale ad ogni opera che creava.
Egli, fisico filosofo storico letterato, eccelse in ogni
ramo di scienza che coltivò, e divenne scrittore di primo
grido. E quantunque geloso ed amantissimo fosse della
sua gloria, pure non pensò mai di estenderla; chè rifuggiva dall’idea che altri credesse lui poter gire in cerca di
suffragi.

Egli nacque in Palermo nel 1765, e trovò quivi al suo
ingresso nell’aringo letterario gli spiriti tanto intenti alla
leibniziana e wolfiana filosofia, che anch’esso a tutto
corpo si gittò in quegli studî; ma per la perspicacia della
sua mente non tardò a conoscerne le illusioni. Quindi gli
abbandonò tosto agli astratti speculatori, e tutto diedesi
alle scienze esatte, che mostrando le verità più sicure e
più inconcusse, son divenute, dacchè Newton scrisse
(mi valgo di una espressione del Condorcet), fondamento
e chiavi delle naturali dottrine. E in ciò molto influì
eziandio il senno e la sapienza del Gregorio: poichè
veggendo questi la fallace via, in cui erasi messo l’amato
allievo, che già tanto di sè prometteva, lo scosse e lo
arrestò, facendogli gustare l’aureo libro di David Hume
sull’umano intelletto. Il che fu bastevole ond’ei dalle
dottrine astratte ed illusorie rifuggisse ognora, e delle
sole realità si appagasse.

La dotta Europa nella gioventù dello Scinà era fortemente
commossa dalle nuove scoperte che i filosofi di
quel tempo avean fatte sull’elettricismo; la curiosità era
universale; dotti ed indotti, i giovani più esimii, le dame
stesse più gentili prendevan grandissimo diletto a sì fatti
studî. La Sicilia non era straniera a quel movimento; e le
scienze di esperienza se non erano in voga, e se non
vantavano illustri maestri avean però svegliato i desideri
della moltitudine. Quindi lo Scinà si volse tutto alle
scienze della natura, e la fisica generale e particolare divenne lo studio da lui più amato e coltivato. La forza del
suo carattere gli dava tal fermezza e tal costanza, che simile a Buffon come nel corpo così nella mente, profondo
e stabile sentimento divenne in lui l’amore del lavoro,
anzi, come di quello si disse, vera passione che vinse
le altre tutte. Dal che nasceva che qualunque ostacolo
gli si parasse dinanzi mai non lo arrestava, nè vi era barriera che l’animo suo non superasse. Difatti con tale
amore e tale assiduità si diede a studiare la fisica, che in
breve tempo ne divenne sommo maestro. Ma dovendo
noi assegnare il posto di onore che conviene allo Scinà
nella storia di questa scienza in Sicilia, fa mestieri primieramente volgere uno sguardo allo stato in cui allora
ella trovavasi, onde avere un punto di rapporto, che ci
faccia bene apprezzare le opere di lui, e misurar l’estensione del suo valore.

La Sicilia mancava a quei tempi di buoni libri, d’istrumenti, e di mezzi per avanzare nelle sperimentali discipline; e a tal giungeva lo stato nostro, che qualche informe
macchina ch’esisteva maneggiar non sapevasi dai
più esperti: tutto era muto; le scienze della natura, come
la teologia s’imparavano. Difatti la fisica peripatetica
dominava nelle scuole; invece di osservare i fenomeni,
di raccoglier fatti, di stabilire principî, di emendare il
linguaggio scolastico, che rassoda gli errori, e rende più
tenaci le menti, venivasi dagl’ingegni più sottili con
pazzo furore quistionando sulla siccità, umidità, rarezza,
e su tutti gli altri, con linguaggio barbarico, così
chiamati accidenti materiali. Il trattato di Muscembroechio si leggeva dalle pubbliche cattedre, ed era il libro che correva nelle mani dei giovani. Ma Palermo conobbe
il bisogno che questa scienza più colle macchine che
colle teoriche imparar si dovesse; e famosa nella nostra
storia sarà l’imperizia dei professori di fisica di quel
tempo, che non seppero dopo molti studî e reiterati
esperimenti, nè anche formare un pallone aereostatistico.
E benchè si fosse pensato, con sapiente consiglio, di
chiamare uno straniero fra noi, onde riparare a quel gravissimo danno, e legger fisica nell’Accademia palermitana,
non venne questa tuttavia migliorandosi gran fatto.

Imperciocchè il P. Elisèo, che fu il professor qua venuto,
volle dare alcune sue istituzioni, scritte in latino, e piene
di vecchie opinioni e di errori; le quali tradivan lo scopo,
e non potean certo appagare i bisogni del tempo, nè
far conoscere i progressi che la scienza avea fatto in Europa.

E certo assai migliore era il compendio della fisica
sperimentale dell’Atwood, che cominciossi a leggere in
Palermo dopo il Muscembroechio, non che gli elementi
dello Zappalà che nell’Università di Catania si leggevano,
avvegnachè fossero stati dettati anch’essi in latino, e
con metodo strano ed inviluppato. Dalle quali cose ben
si vede che quando lo Scinà salì la cattedra dell’Accade-
mia di Palermo vagivano, per così dire, le fisiche discipline, nè vi fu alcun professore in Sicilia che onorasse la
scienza, e meritasse dalla studiosa gioventù. Perlochè di
gran lunga maggiore è la gloria dello Scinà, che seppe
con i mezzi del suo solo ingegno conoscer le tenebre in
cui la fisica trovavasi ravvolta, e sì alto levarla da vestir
la prima volta fra noi pompa e dignità.

La sua celebre Introduzione, stampata nell’anno
1803, il primo lavoro che avesse fatto di ragion pubblica,
fe’ conoscere di che fosse capace il suo sublime intelletto.
In essa abbraccia tutta la scienza, e con uno
slancio di genio singolare la misura in ogni parte. La
storia della fisica, in un modo rapido e nuovo tracciata,
schiude la porta a quel solenne lavoro; e ciò ch’ella fosse
presso gli antichi, ciò ch’ella è presso i moderni non
può da nissuno in miglior guisa dimostrarsi. Il sistema
di Newton non potrà del pari esser da niuno con maggior
chiarezza e precisione spiegato. Ei ti mostra in poche
linee, che il genio solo può dettare, come quel profondo
pensatore, dopo le scoperte di Keplero, di Cartesio,
di Galilei, di Hugenio, ch’ei generalizzò ed accordò,
risguardasse per la prima volta i fenomeni della natura
insieme, e l’universo in grande. Donde, con un concetto
celeste, venne poi a dimostrare, come i fenomeni da leggi
generali e calcolate derivino, come tutti all’attrazione
si riducano, e come l’universo sia stato per lui un problema di algebra e di geometria, di cui, come dice lo
stesso Scinà, in alcune parti ne apprestò intera, ed in alter ne accennò la soluzione: diguisachè (ricordo un altro
concetto di questo grand’uomo) la meccanica celeste è
divenuta il testimonio più vero e grande e glorioso della
forza ed eccellenza dell’umano intendimento.

Lo Scinà in questo stupendo lavoro nota tre epoche
della fisica moderna: le prime due sono storiche, cioè
quella di Galilei, padre e fondatore della scienza, e quella
di Newton perfezionatore della medesima; la terza attendesi ancora, ma venne dallo Scinà ideata ed indicata.
La sua concezione è profonda. Perciocchè facendo vedere
come la fisica e la chimica si sieno a vicenda giovate,
ei ti mostra come sovente un fenomeno appartenga
a tutte le scienze e come queste sieno state divise sol per
istudiarsi, e sono da unirsi per conoscere la natura.
Quindi immaginava di rannodarle distruggere i limiti
che le dividono, formarne di tutte una sola e semplice. E
così mostrando i rapporti occulti che hanno fra loro, e
come si colleghino insieme, guardare la natura non in
frazioni disgiunta, come oggi la guardiamo, ma unita, e
formando in tutto che ha un principio ed un fine. Difatti
è talvolta avvenuto, che i fenomeni che noi osserviamo
in una delle parti, in cui per la nostra fralezza si è divisa
questa sublime scienza, e che proprî di lei reputiamo,
sono ad altre comuni. Le scienze dunque della natura si
collegano, si sostengono insieme, si affratellano. Onde
pensava lo Scinà, che fintantochè questi rapporti e questi
legami non si arrivassero a scoprire, la verità grande
e generale del tutto non si attingerà mai, e non potranno
le scienze giugnere alla desiderata meta. Quindi la separazione delle scienze (egli diceva) dee considerarsi
come temporanea; lo spirito umano le divise per conforto
della propria debolezza; ed allora sarà egli veramente
degno d’interpretar la natura, quando, perfezionate separatamente le scienze, non ne formerà che una. Lo Scinà
presentì questi rapporti, conobbe ch’esister dovevano,
guardò la natura in grande, come Newton aveva fatto,
vide in suo pensiero i limiti che vi aveva l’uomo apposto,
e gli anelli che vi aveva messo la medesima natura;
perciò additò franco il fine degli studî, ed indicò il camino che alla perfezione conduce. La qual cosa è feconda
d’immensi risultamenti; e se oggi venisse qualche
novello genio, e l’indicata via calcasse, la storia proclamerebbe che tal segnalato beneficio prodotto da quel
principio, si ottenne per la mente del siciliano filosofo.
L’Introduzione adunque non è la storia della fisica,
come taluno scioccamente o malignamente aveva detto,
è bensì la logica di tutte le fisiche scienze, com’egli sapientemente al direttore della Biblioteca italiana scriveva.
Or quest’opera fu seguita nell’epoca stessa dalla Fisica
generale, e dopo varî anni dal primo volume della
Fisica particolare; ma tanto la prima quanto la seconda
furon poscia rifuse accresciute migliorate, e nel corso
degli anni 1828 e 29 videsi pubblicata la stessa opera in
quattro volumi, che risguardano due la prima parte, e
due la seconda. Or se l’Introduzione fu l’opera delle meditazioni dello Scinà, e di un momento felice dell’ingegno
di un grand’uomo, la fisica particolare e generale fu
il frutto di un travaglio lungo e paziente, e della dottrina,
dell’erudizione, del profondo giudicio di lui. E siccome
pare certo che i libri tendenti ad ammaestrare la gioventù
non debbano contenere nè lampi di genio, nè profonde
vedute, nè nuove verità, ma sibbene ordinare con
chiarezza e precisione tutte le scoverte già fatte dai filosofi nel corso di più secoli, e le verità già conosciute, e
dall’unanime loro consentimento stabilite; così lo Scinà
attinse pienamente il suo fine. Perciocchè nell’opera
sua, oltre della massima chiarezza, ammirasi l’ordine il
più naturale, il più semplice, e quindi il più logico, ed il
più acconcio all’intendimento dei giovani. Egli dispose
in tal guisa tutte le parti di questa scienza che venne formando unico corpo ed unico sistema, riducendo con accorto
consiglio tutti i fenomeni dell’universo a tre classi,
ai celesti, agli atmosferici, ai terresti; e facendo costantemente vedere la relazione che corre fra gli agenti dai
fenomeni e questi fenomeni stessi. Quindi i giovani col
suo libro alla mano non resteranno più inerti, nè avran
grave la fatica, ma desidereranno di spignersi sempre innanti, e conoscere le dottrine che sieguono e si succedono.
Perciocchè l’autore le annodò strettamente fra loro,
formando di tutte, come asserimmo, un corpo solo e
semplice, eccitando sempre più la curiosità e l’energia
dei giovani, e recandoli, com’ei diceva, a discutere
esperienze, a comparar fatti, a pesar sistemi, a riguardar da per loro lo stato attuale delle nostre cognizioni. E
così facendo, ed il suo lavoro arricchendo e perfezionando, fece meravigliare Italia, come un Siciliano privo
di aiuti, e senza quegl’infiniti mezzi, che negli studî del-
la natura in grandissima copia lo straniero possiede, potesse fare un’opera di fisica, che stesse a livello colle
migliori, per la verità delle dottrine, la ricchezza dell’erudizione, l’esattezza dei fatti delle osservazioni degli
esperimenti. Quest’opera in somma, nulla valutando,
siccome noi siam usi, le censure altrui, onora la Sicilia e
la scienza.

Or noi esaminando la storia dei grandi uomini delle
più colte nazioni abbiam costantemente osservato che la
maggior parte di essi cominciarono sin dall’età più giovanile
a scrivere e pubblicare le cose scritte; quasichè
l’anima loro commossa ed agitata sin dai primi periodi
della vita sdegnasse di restare in circoscritte barriere, ed avesse mestieri nel suo prematuro sviluppo di lanciarsi
nel gran mondo, affinchè di loro, pria del tempo destinato
alla comune degli uomini, si ragionasse. Generoso
sentimento, che ha spesso partorito i più felici risultamenti; e se talvolta si è veduto abortire, egli è derivato,
perchè l’ingegno, gli studî, e le ulteriori vicende del viver
sociale fecero guerra alla volontà, e all’animo egregio
non corrisposero. Nello Scinà pertanto, avvegnachè
fortemente chiamato dalla natura a toccare l’eccelsa scala
che all’immortalità conduce, si è osservato un fenomeno
contrario e singolarissimo. Egli fu sin dai primi
anni spinto da un amore sì caldo per lo studio, che si reputò meraviglioso, ed ebbe tal sentimento per la gloria
sì pronunziato e sì deciso, che non può uno storico trascurarlo.

Egli però seppe soggiogare questo sentimento,
e soffocò gli slanci del suo genio, incatenò la sua natura.
Perciocchè fin presso a quarant’anni (stupendo a dirsi
per un uomo che dovea divenire sì grande!) nulla cosa ei
scrisse, nulla cosa pubblicò; e così l’età matura non gli
rinfacciò mai la sua precipitanza, ed egli non ebbe a
pentirsi, com’è avvenuto alla più parte dei sommi scrittori,
di un lavoro che il suo senno ripudiava. Lo Scinà
studiò eziadio con assidue cure, e più da sè stesso che
con i maestri, le greche le latine e le italiane lettere; e
tanto della ellenica favella si conosceva, che verso il
1788 veniva con grandissimo onore sostituendo nella
cattedra il professor Viviani, che insegnava a quei tempi
lingua greca nell’Accademia palermitana. Lo Scinà dunque
non fece nella prima metà della sua vita, che studiar
sempre più fermo e costante, arricchirsi lo spirito di
elette dottrine, farsi un patrimonio cospicuo di sapienza,
onde poi ad un tratto uscire fra le genti, e con una serie
non interrotta di stupende opere stordire Sicilia.
Or l’uomo che sotto questo rapporto può più allo Scinà
paragonarsi è il filosofo di Montesquieu; poichè in
ambidue parmi di aver dominato lo stesso pensiero, ed il
medesimo principio essere stato di guida e di norma alle
loro anime. Imperocchè il Montesquieu, per dire col
D’Alembert, niente sollecito di mostrarsi al pubblico,
sembrava che attendesse un’età matura per iscrivere. Difatti stampò di trentadue anni il suo primo lavoro, che
furono le famose lettere persiane, in cui mentre trasporta il leggitore a mezzo le cose dell’Oriente, attacca in un modo fino e delicato i nostri costumi, i nostri gusti, i nostri
usi, ed il furore di scrivere pria di pensare, e di giu-
dicare pria di conoscere. Ma trentadue anni non parvero
a Montesquieu ancora bastevoli per presentarsi sulla
scena del mondo con sicurezza di sè medesimo. Quindi
le lettere persiane non parvero che anonime; e tale fu la
condotta dell’autore che per molto tempo ignorossi di
chi elle fossero. Dell’istessa guisa lo Scinà maturo di età
e di senno si presentò sull’aringo letterario che dovea
decidere della sua vita. Ei nel lungo corso degli anni,
anteriori a quelli di scrittore e di filosofo, non era conosciuto che qual valente professore di fisica sperimentale,
avendo nel 1796, dietro il P. Elisèo ch’era stato giubilato,
asceso la cattedra di quella facoltà nell’Accademia
palermitana, Ma altro è leggere una scienza in iscuola,
ed acquistar nome per essa, altro è l’essere scrittore, e
comparire propagatore dei lumi, riformatore dei costumi.
Lo Scinà ebbe come professore, solenne riputazione,
ma si acquistò la stima della patria, ed ottenne culto di
pubblica riverenza, quando colla penna in mano presentossi.

Difatti Sicilia, dietro le opere di fisica di che abbiam
ragionato, vide nel 1808 uscire da quella mente suprema
l’elogio di Francesco Maurolico; nel 1811 la memoria
su i fili reflui e vortici apparenti dello stretto di
Messina; nell’anno stesso le due lettere a Grano per l’eruzione dell’Etna, avvenuta in quell’epoca mentr’egli in
Catania trovavasi; nel 1813 i due volumi sulla vita e la
filosofia di Empedocle; nel 14 le due lettere a Piazzi intorno Girolamo Settimo matematico palermitano; nel
1818 la topografia di Palermo e de’ suoi contorni; nel 19
il rapporto del viaggio alle Madonie in occasione de’
tremuoti ivi accaduti. Nel 1823 si videro dati poscia alle
stampe il discorso intorno Archimede, e i frammenti
della gastronomia di Archestrato: nel 24 apparve con
generale compiacimento il primo volume del prospetto
della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIIIo; il secondo l’anno appresso; e nel 27 il terzo che quell’opera insigne chiudeva.

Dalla pubblicazione di quest’ultimo volume sino al
presente è corso un decennio; ed il Governo di Sicilia,
che, appieno conoscendo la dirittura dello spirito e la
mente sovrana di lui, spesso in interessi di pubblico bisogno aveva al suo consiglio ricorso, in quest’ultimo periodo
affari di gravissimo pondo gli andò commettendo;
ed egli con zelo, con dignità, e con quel suo giusto vedere
in ogni obbietto, in che uguagliar si potea ma vincer
non mai, a lietissimo fine correggendo e migliorando,
ogni incombenza portava2. Ma in mezzo a tante
cure, che gli furon talvolta dure e moleste, ei mai non
depose quella penna, ch’era nel suo pugno uno scettro di
morale potenza divenuta. Perciocchè surto primieramente
nel luglio del 1831 il novello vulcano nei mari di
Sciacca ei scrisse un ragguaglio di quel fenomeno, che
riputavasi da tutti maraviglioso e straordinario, com’era
in effetto, perchè le primitive memorie della formazione
2 Oltre dei particolari incarichi, di cui qui si fa cenno, ebb’egli l’A - bazia di S. Angelo di Brolo; fu cavaliere dell’ordine di Francesco I; regio storiografo; cancelliere dell’Università degli studî; membro perpetuo della Commessione di pubblica istruzione ed educazione di Sicilia.
del globo ci ricordava. Ma questa scrittura, ed altra tale,
come gli articoli sulla versione della poetica di Aristotile
fatta dall’Haus, la prefazione ai discorsi del Gregorio
sulla Sicilia, nella quale venne tracciando la vita di quel
grand’uomo; i rapporti su i bagni termo-minerali di Termini- Imerese; il rapporto sulle ossa fossili di Mar-dolce
e degli altri contorni di Palermo; l’articolo per le sperienze e le scoverte, che sull’elettro-magnetismo avea
fatto il Nobili e l’Antinori, queste scritture, io diceva,
avvegnachè gravissime, erano pur lavori del momento, e
figlie della circostanza. Ma egli in quest’ultimo decennio
della sua vita un’opera iva meditando di gran lena,
di grande utilità, e di grandissimo onore per la patria.
Era questa la storia letteraria di Sicilia, cominciando dai
tempi greci, e venendo mano mano fino al secolo XVIIo,
al quale avrebbe fatto continuazione la storia che già del
secolo XVIIIO aveva egli dettata con sì gran senno e sì
grande filosofia, diguisachè l’isola nostra, sì chiara nel
mondo, per le creazioni dello spirito, avrebbe avuto dai
tempi più remoti fino all’epoca in cui nacquero i padri
nostri, la storia completa della sua civiltà e della sua
gloria. Ma i divisamenti più cospicui degli uomini vengono
spesso o per la fralezza umana, o per le miserie di
questa vita sciagurata, rotti nel mezzo e nel più bello.
Così avvenne alla grand’opera che iva lo Scinà nel suo
sublime pensiero ravvolgendo. Perciocchè egli nel 1832
pubblicò la prima memoria che ne serviva d’introduzione,
e nella quale si dava a dimostrare che i popoli che
abitarono la Sicilia prima delle colonie elleniche, non
furono scienziati, come si pretende dai nostri scrittori,
ma giunsero di mano in mano allo stato di civiltà sociale.
Poi nel 1833 videsi comparire il primo periodo della
letteratura greco-sicola, che dall’arrivo fra noi delle elleniche colonie giungeva sino alla morte del primo Gerone.
Quindi nel 1836 venne in luce il secondo periodo,
che dal punto in cui quello finisce sino alla caduta di
Dionisio si protrae. E mentre si attendeva con grandissima
brama il terzo che quasi al suo termine era condotto,
e che dalla restaurazione operata in Sicilia da Timoleonte
giungeva sino alla caduta di Siracusa sotto la romana
tirannide, la morte venne a troncare il filo dei giorni
suoi.

Ecco quai furon dunque gli svariati lavori di questo
grand’uomo! Eglino son tanti e di tal magistero che una
mente avvezza alle meditazioni, e ricca di sapienza potea
solo concepirli e crearli. Imperciocchè qualunque sia
l’argomento che lo scrittore maneggia, ei lo addentra, e
con critica severa profondamente lo sviluppa. Il qual sistema vedesi da lui costantemente seguito in ogni opera;
di modo che tutte le minute parti di essa con maestra
mano volgendo, lascia di quel subbietto pienamente
istrutti i leggitori.

Egli rivolgendo il pensiero a Maurolico ad Empedocle
e ad Archimede proccurò di presentar questi sommi
nel loro aspetto più veritiero: il metodo tenuto in tutti e
tre questi insigni lavori fu quello di passare sempre dalle
cose più semplici alle più difficili; incalzando come l’argomento stesso incalzava, e rivendicando que’ valentis-
simi dalle censure che la malignità l’invidia i tempi
avean loro scagliato. L’autore mentre illustra l’individuo,
e spiega le sue dottrine e le sue creazioni, colpisce
nell’età in cui fiorì, e la tratteggia a grandi ombre; diguisachè viensi a leggere nella storia di un sol uomo la storia
scientifica di un intero secolo. Le epoche di Empedocle
di Archimede di Maurolico sono famose in Sicilia
per la filosofia e le scienze esatte e naturali. Empedocle
gitta i primi elementi della fisica moderna, migliora il
sistema di Pitagora, e lo diffonde per ogni angolo dell’isola.

Sottilissime sono le ricerche dello Scinà per istabilire
l’età in cui visse e fiorì il Gergentino; profondo ed
arguto è il suo esame per conoscerne i principî, le dottrine, la filosofia. Tutto poi che la sua vita e le sue azioni
risguarda, e che era incerto per que’ Greci e Latini stessi, che vissero nelle età posteriori, ma non molto lontani
da lui, e giaceva per conseguenza in folta oscurità, viene
sparso di una luce sì nuova, che avrebbe fatto meravigliare gli stessi antichi: tanto è il senno con che riunisce
le disperse e disparate notizie! tanto il giudicio con cui
cribra i discordi pareri, e gli accorda o gli ammenda. Ed
a noi pare che valicando i secoli che ne dividono ne andassimo a riunire a quei vecchi padri, frequentare i loro
ginnasî, ascoltar quelle dottrine, che dovean sopravvivere
a tutte le generazioni. Così lo Scinà ti sembra un antico,
il quale venga annunziandoci la sapienza de’ suoi
coetanei: tanta è la franchezza con cui spasseggia le incerte ed oscure vie di quelle epoche rimotissime.
Archimede crea la sublime geometria, stordisce la ter-
ra colle sue invenzioni, e fonda la meccanica. Onde lo
Scinà raccoglie con uno stretto ragionamento tutti i titoli
del siracusano filosofo in modo che viene a presentarlo
in prospettiva, affinchè si misuri ad un colpo tutta l’estensione delle sue maravigliose scoperte. Ed essendosi
voluto a’ dì nostri, e dopo tante varie fatiche, discorrere
di Archimede non si poteva immaginare un quadro migliore
di quel che lo Scinà dipinse. Egli accenna primieramente
poche cose della vita civile del Siracusano, perchè
ovvie ed a tutti cognite; e passa tosto a ragionare
della vita morale ed intellettuale, traendola dalle opere
che di lui ne restano tuttavia. E così facendo ne ha dato
un lavoro originale, perchè nulla curando le cose che di
Archimede si sono scritte, ha letto a modo suo nei libri
di lui, ne ha col proprio giudicio esaminato i grandi pensamenti, e quindi dettando colla propria inspirazione,
noi abbiam ritrovato nelle sue pagine ciò che in altre
non si trova.

Nel Maurolico dimostra come sia costui pervenuto ad
esser geometra, astronomo, aritmetico, ottico, grammatico, poeta e istorico. Niuna cosa che ad onore di quello può ridondare negligenta; ei tel fa vedere nei palagi
stessi dei grandi simile a Platone nella corte dei Dionisii,
verità matematiche dimostrando, e sull’arena segnando
geometriche figure. Ne viene poscia manifestando
come divenne Maurolico superiore al suo secolo; e
come colla sola scorta della sua ragione giungesse a conoscere i falli e le magagne, di che erano stati bruttati
dagl’interpetri e dai copisti i lavori degli antichi geome-
tri; onde dotto com’egli era del greco idioma diedesi
con grandissimo animo a correggerli, a supplirne i voti,
a tradurli. Quindi lo Scinà egregiamente dimostra che il
messinese filosofo in tal guisa corresse, tradusse, abbreviò, comentò Euclide Menelao Teodosio Sereno Apollonio
Archimede, che fornì e mise in luce una esatta e
compiuta biblioteca dei greci maestri in geometria.
Insomma l’autore va pienamente sviluppando le svariate
creazioni di tutti e tre que’ sommi pensatori; s’innalza
al loro livello; e padrone della sapienza loro, volge
in tutti i sensi le loro grandi fatiche: siegue lo spirito
umano passo passo, le cause avvicina agli effetti, e ricava
conseguenze, che applica alle moderne condizioni
della patria, facendo sempre l’antica Sicilia specchio
alla moderna di sè medesima. Quindi Maurolico, Empedocle, Archimede, sono da riputarsi lavori positivi ed
eccellenti. L’amore per la virtù per la sapienza per la patria è il sentimento più costante che vi riluce, e con occulto
segreto nelle vie più profonde dei cuori s’insinua e
signoreggia. Lo Scinà amava la Sicilia non colle parole
e colle vane e stolte declamazioni, ma cogli esempî e coi
fatti: l’amava illustrando le azioni magnanime e generose
dei padri nostri: l’amava in quel modo con cui può
amarsi ai nostri tempi dalle anime più forti. Perciocchè
ogni secolo ha un aspetto suo proprio, e vani non solo
ma dannosi saran tutti gli sforzi degli uomini per cangiarlo.

Le leggi della natura sono eterne ed immutabili,
ed i tempi corrono lor via per loro stessi. Ei si cangiano
e ritornano, come tutta la natura si cangia e si riproduce:
ella crea per distruggere, e distrugge per creare. Solo
pertanto è da riflettere che, senza attendere il lento corso dei tempi, potrebbonsi i mali tremendi che accompagnan
l’esistenza dei consorzî civili menomare propagando
i lumi e le sane dottrine, promovendo i mutui insegnamenti
in ogni classe di cittadini, educando gl’ingegni,
il popolo dirozzando, e proccurando che la voce del
perdono e della grazia non giunga mai tarda. Così affratellansi gli animi, s’istruiscono le nazioni e si vincono; e
mentre si migliorano i costumi, le leggi più si rispettano,
e gli uomini si rompon meno nelle colpe, e non vi offron
più quelle scene di orrore che bruttan sì spesso l’umana
vita. E bellissimo pensiero fu quello che le rivoluzioni
dei nostri giorni servonci come di fiaccola per rischiarare
la storia dei tempi trascorsi. La generazione attuale
ebbe tutte quelle lezioni, che nascono dalle grandi scosse
politiche, e senza dubbio per questa ragione il nostro
secolo meriterà un altro dì d’essere chiamato il secolo
dei lumi. Ed a me pare certo, che ove sono passioni ivi
sono gli elementi del progresso della civiltà dei popoli.
Qui con forza si sente, qui è tumulto di affetti, qui si sublima il pensiero, si spande l’animo, si imita, si crea. Se
questi elementi cadono in mani di chi sa combinarli e
trarne profitto Sicilia progredirà, e si alzerà dal lezzo, in
cui ravvolta si giace; poichè i popoli sono ciò che vuolsi
che sieno.

Lo Scinà, qual sapiente e qual saggio, sentiva in sè
stesso la forza di queste eterne verità, e vedeva in suo
pensiero che il miglior bene che far poteva alla patria
era quello d’illustrarla nel modo che sarebbe tornato più
acconcio alla generazione presente, e fosse stato più utile
e più glorioso per essa. Il qual principio, fonte primiero
di tutte le opere di lui, gli fe’ concepire l’alto e nobile
disegno di abbozzare la topografia di Palermo e de’ suoi
contorni.

Tutte le più culte nazioni de’ tempi nostri vantano le
loro topografie, le quali sono come l’indice sicuro della
loro civiltà. Imperciocchè viensi delineando lo stato fisico
delle città e dei regni: dal che sorge che conoscendosi
la natura de’ monti, de’ terreni, delle acque, del clima
vengonsi a diriger meglio le speculazioni dell’industria,
e ad aprire ai dominatori dei popoli nuove vie per meglio
guidare la pubblica fortuna. Quindi grandissimo è
l’obbligo che dobbiam noi all’illustre uomo perduto, che
pensò formare un’opera nuova, di cui ogni luogo di quest’isola mancava interamente, come ne manca tuttavia.
Onde Palermo è la prima che addita col suo nobile
esempio all’intiera Sicilia il sentiero da battere in questa
carriera, acciocchè alla fine compiuta cognizione si acquistasse della terra che abitiamo.

Lo Scinà previde modestamente i falli che per avventura
potesse contenere il suo lavoro; e forte dubitava che
non fosse egli del tutto riuscito in un’opera così lunga e
faticosa; la quale non essendo stata da altri tentata prima di lui era ben facile che in alcuni articoli fosse venuta
manchevole, ed in altri eziandio erronea. Ma »questo
pensiere, dicea egli, non mi ha sconfortato; anzi con tutto
l’animo desidero che altri studiando con più diligenza
i nostri contorni, venga dopo di me a supplire le mie
mancanze, o ad emendare i miei falli». Qual meraviglia
dunque che vi abbian taluni rinvenuto degli errori, se
l’autore stesso, conoscendo l’arduità dell’impresa, sentiva
in sè medesimo che priva di colpe esser non poteva?
Ma checchè ne sia egli è certo che la topografia dello
Scinà, con tutti i suoi peccati, deesi riputare magnifico
libro, sì che stabilisce un’epoca gloriosa nella civiltà siciliana.

Egli nulla tralascia, per quanto lo potean permettere
i limitati mezzi di un individuo, onde illustrar
pienamente lo stato fisico della nostra bella città. Laonde
i difetti che possonsi imputare a questa fatica, e gli
errori che può ella contenere non toglieranno al suo autore
la gloria di aver fatto un’opera nuova per la Sicilia,
utile importantissima. Egli fece con essa progredire la
siciliana coltura, e fregiò il suo nativo paese di una corona, che per variare di secoli non sarà mai obbliata.
Forse altri in avvenire, ammaestrato dai pregi, e fatto
accorto dagli errori medesimi di lui, ingrandirà e perfezionerà,
dietro il suo esempio, la topografia palermitana.
Ma egli avrà sempre la gloria di averla concepita e creata; poichè altro è dar principio, altro dare accrescimento
ad una scienza; ed è ben diverso il formarla dall’avanzarla.

Euclide Apollonio Archimede furono i più grandi
matematici del tempo antico, e la geometria crearono, e
in alto spinsero: venner quindi il Cavalieri, il Torricelli,
il Viviani, il La Grangia, e quella splendidamente accrebbero
e perfezionarono. Se la gloria di questi ultimi è
grande, quella de primi è grandissima. Il che certamente
avverrà, per la topografia di Palermo, all’illustre scrittore
che piangiamo.

Quest’opera mi guida a parlar di un altro lavoro che
ha con essa stretti legami, per l’indole dell’argomento su
cui volge. È desso il Rapporto sulle ossa fossili di Mardolce, e degli altri contorni di Palermo, che pose in piena
luce le varie sentenze che si emisero fra noi in tal
congiuntura, e smaltì le quistioni, che in affare di tanto
pondo, qual fu la scoperta delle ossa fossili, sorsero e si
agitarono.

A due miglia della città verso il sud-est, e a 937 canne
dal mare è la campagna di Mar-dolce; ove i Principi
normanni tenean lor case di delizia, delle quali veggonsi
tuttavia dei resti informi. Ivi in una grotta a piè del monte Grifone fu scoperto a caso nel marzo del 1830 quell’immenso deposito di ossami di smisurata grandezza,
che aveano ne’ tempi andati indotto parecchi uomini di
riputato valore, come il Valguarnera, il Mongitore, ed
altri a sostenere che appartenevano a giganti, pretesi
abitatori dell’isola. Ma venuta meno ai nostri tempi col
lume della filosofia e della critica quell’idea favolosa, e
spogliata la storia dalle chimere e dalle assurdità, gl’ingegni non videro più in quelle ossa i resti dei sicoli giganti.
Lo Scinà avea detto nella sua topografia, che il
suolo della pianura di Palermo è un deposito del mare, e
vi si osserva qua e là la terra di alluvione. In effetto evidentissimi sono colà i depositi marini; e quel grand’uomo
avea eziandio osservato ch’essi alla loro superficie
hanno uno strato di tufo, indurito dall’azione dell’aria e
dell’acqua, impastato di conchiglie, e pieno di punti
bianco-lucenti ai raggi del sole. Ed aveva aggiunto ancora
che abbondantissimi sono in mezzo a tali strati di
tufo i nicchi marini, che furon depositati, per quanto
pare, lentamente e in un mare tranquillo. Poichè saggiamente diceva trovarsi quei fossili disposti in istrati regolari, e situati in più e distanti cave di pietra, come se ad
arte fossero stati collocati nel medesimo piano e alla
medesima altezza. E così parlando di tutte le varie specie
dei nicchi marini sul nostro suolo esistenti, nota l’unicorno
fossile minerale, che non di rado s’incontra in
mezzo a quel tufo; e quindi su di esso dottamente ragionando conchiude esser cosa certa che l’unicorno contiene
solfato di calce, nè si potrà perciò riprendere chi lo
avrà per un osso o di un animale marino, o pur terrestre
che più non esiste. Per le quali cose ben si vede come
avesse lo Scinà sin dal 1818, in cui pubblicò la sua topografia, ragionato sull’indole dei terreni che circondano
la nostra città, e sulle alluvioni e rivoluzioni della natura
ivi avvenute. Onde scoprendosi la grotta di Mardolce
non fu più malagevole ai buoni pensatori riconoscer
tosto la vera proprietà di quello immenso ammasso
di ossami. Il primo che vi rivolse il pensiero fu il celebre
naturalista Antonino Bivona, di cui sono ancor calde le
ceneri. Egli coll’acutezza del suo intelletto vide che fossili
doveano esser le rinvenute ossa, e consultando perciò
l’opera del Cuvier si rassodò, con questa divina fiaccola,
nelle concepute idee, e venne quindi annunciandoci,
che prezioso tesoro eran quegli ossami, che fossili
dovean reputarsi, e che ad ippopotami, ad elefanti, a cervi, e ad altre razze di animali o comuni o estinte appartenevano.
Ma mentre tali concepimenti facean tanto
onore all’ingegno del Bivona, venivano ad accrescer
nello stesso tempo la gloria dello Scinà. Perciocchè questi
aveva già stenebrato le menti, le aveva fatto accorte
che i contorni e tutta la pianura di Palermo era un ammasso di sabbione, tufo calcare, argilla, sabbia, conchiglie
marine; era ricca di fossili; era un deposito di mare;
le aveva guidate al filosofar presente, e a vedere quel
che oggi in effetto vedeano. Ma siccome tutte le buone
cose debbono aver contradittori e nemici particolarmente
in Sicilia, ove non è raro trovar dei cervelli leggieri e
balzani, così si videro fieramente attaccate le opinioni
del Bivona e dello Scinà. Eravi un discorde sentenziare,
un susurrare perpetuo, un motteggiare, un fantasticare,
un sragionare vergognoso. Fuvvi chi pubblicò nei fogli
periodici che mano d’uomo seppellì nella cennata grotta
le ossa di cui si parla, e che appartenevano agli elefanti
dell’armata cartaginese, allorchè fu da’ Romani vinta
nei contorni della nostra città; e agli ippopotami che si
trasportaron dall’Egitto per servire di diletto ne’ giuochi
della Naumachia, che presso Palermo, e precisamente in
Mar-dolce, esisteva. Altri (e si ricorda con viva dispiacenza per la sua qualità di naturalista) lesse nell’Accademia un discorso, le cui idee furon poscia nei fogli periodici riportate, e pretese che quel deposito di ossa fosse
un’opera dell’uomo; ch’elle fossero state ivi deposte
a strati, e sepolte di calcina di terra di lastroni di dura
pietra; ch’eran tutte di animali noti, e proprî della Sicilia
e della vicina Africa; che vi furon deposte durante il dominio di quasi dugento anni degli Arabi in questa isola,
i quali padroni ancora dell’Africa, di là qui li portarono
per allevarli ne’ loro parchi o serragli di fiere, e per gli
usi necessarî alla vita; cercando di dimostrare che non
poteano essere affatto di tempi antichissimi, mentre, secondo lui, vi si vedea la mano degli uomini che le seppellì.
Per la qual cosa veggendo il Bivona sì stoltamente
attaccate le sue opinioni diedesi ad osservare tutta la costa ch’è a livello di quella di Mar-dolce, la quale, secondo
aveva detto lo Scinà, doveva essere tutta piena di depositi marini; e quindi dovea presentare gli stessi fenomeni
ch’eransi ivi osservati. Difatti andò per le falde di
altri monti, e precisamente in quella dell’opposto Billiemi;
e trovò, scavando, un’immensità di frammenti di
ossa simili a quelle, per cui sì alte e rumorose quistioni
si levavano. Questa scoperta del Bivona convalidava
sempre più le idee dello Scinà, e la gloria ne accresceva.
Perciocchè ivi, secondo che lo stesso Bivona nobilmente
sdegnato rinfacciava, non combattè Asdrubale contro
Metello, ivi non è Naumachia, ivi non son laghi nè fonti,
ivi non fu palagio nè serraglio di Emiri, come non ne
furon giammai a Mar-dolce. Questi eran fatti che dovean
vincere le opinioni più ostinate, e pure non tutti
ammutirono. La pianura di Palermo avea per le osservazioni e pei travagli del nostro autore acquistato già un
eminente posto nella geologia di Europa; ma queste ultime
scoperte la resero famosa nel mondo. Il Cuvier, che
solo in geologia valeva un Areopago, osservava le ossa
che da qui a Parigi gli si mandarono, per conoscere il
parere di lui; ed ei le diceva fossili ed appartenenti ad
ippopotami, com’erasi detto dai nostri saggi, le reputava
preziosissimo acquisto, nel gabinetto del Re le collocava.
Dietro il sovrano giudicio di un sì grand’uomo tacquer
tutti; ed intanto lo Scinà veniva pubblicando quello
stupendo Rapporto che farà epoca nella storia naturale
della Sicilia. Imperciocchè ivi traccia le prime linee dello
studio della notomia comparata, di che non era alcun
segno fra noi. Egli sapientemente dicea che la forma e le
dimensioni sono quelle che distinguono i fossili dai viventi,
e sopra questi caratteri anatomici è fondata la novella
scienza chiamata dal Cuvier Paleontografia, e da
altri Archeologia-Zoologica. Quindi va istituendo confronti
importanti e dottissimi, ed innalza ai fossili siciliani
un monumento che non sarà mai per perire. Osserva
che la terra in cui giacean le ossa, e che le rivestiva,
tanto di Mar-dolce, quanto di Billiemi, era di alluvione,
e manda, calcinandosi, vapori ammoniacali, dando segni
sensibili, che racchiude materia animale, che si distrugge
col calore. In uno dunque degli antichissimi cataclismi
della natura furon colà depositati quegl’immensi
banchi di ossami. Lo Scinà da cento osservazioni di fatto
raccoglie che le ossa fossili che più abbondano sono
quelle degli erbivori, e fra queste le ossa d’ippopotami,
e poi le altre di elefanti; che tanto le ossa ch’eran fuori,
quanto quelle che si trovarono incrostate dalla stallagmite
dentro la grotta, sono tinte alla superficie di un co-
lor bruno rossastro, e nel tessuto cellulare, e nella parte
spugnosa di color rosso bruno, che proviene dall’ossido
di ferro, che le ha rivestito, e si è insinuato al di dentro
al par della calce carbonata, che in forma di cristalli si
vede nei pori, e negl’interstizî interni di tali ossa. L’inondazione non gli parea che fosse stata unica e nel medesimo tempo così in Mar-dolce, come in Billiemi, ed
inclinava a credere tanto per la terra ch’è più silicea nel
primo, e più calcaria nel secondo; quanto pel colore, e
per le varie circostanze dei terreni, e per la varia altezza
de’ luoghi, che sia stata una corrente marina quella che
abbia depositato le ossa nella grotta, e nella costa di
Mar-dolce; e più presto terrestre l’altra di Billiemi. Ma
egli, qual grande sapiente, annunciava dubitando cotale
opinione; ed attendeva che ulteriori scavi, ed ulteriori
scoperte avessero potuto meglio illustrare questo gran
fatto della natura.

La penna dunque dello Scinà, piena di vera e soda
scienza, educa la nazione, e fa sorgere negli animi i sentimenti generosi delle civili virtù. Noi abbiam sinora
proccurato di ritrarre, quasi in iscorcio, la fisonomia di
quelle opere, che cercaron di ricondurre gl’intelletti siciliani allo studio della filosofia, delle matematiche, e delle
cose fisiche e naturali. E sebbene non avessero fatto
elle avanzare la scienza per nuove creazioni ed invenzioni,
pure son tali e pel pondo della loro dottrina, e per
la maturità del giudicio, e per lo scopo, e pei lampi che
spande uno spirito profondo e luminoso, che han richiamato fra noi i buoni ed utili studî, volgendo le menti ad
un solo e vero ragionare.
Le quali cose signoreggiano del pari nelle sue storie
letterarie: quella del secolo XVIIIo mentre vi presenta un
quadro di tutte le vicende a cui soggiacquero in Sicilia
le scienze e le lettere in quel lungo periodo, tende a correggere
gli errori, a distruggere i pregiudizî, ad infervorar
gli animi per le amene discipline, che migliorano i
costumi, e riconducono fra gli uomini le idee del bello
dell’ordine dell’armonia.

Lo Scinà in quest’opera magistrale svolge il suo subbietto
con maestra mano. Egli padrone del campo lo
corre per ogni verso: presenta la cultura siciliana nel suo
vero stato, penetra le cagioni che ne ritardarono il progresso
e lo sviluppo, sieno state prodotte o dalle barbariche
mani degli uomini o dall’ignoranza dei tempi; quindi
veggonsi gli avvenimenti politici ai civili e letterarî
sempre innestati. I metodi degli studî, l’ostinatezza della
scolastica filosofia, e le opinioni e i principî che dominavano
ne’ varî rami del sapere, che or vacillava, or lentamente
progrediva, or di nuovo ricadeva in tenebri più
folte, son tali cose che forman di quel secolo un quadro
ricchissimo di vicissitudini di sapienza di verità. Ed afferrando
noi lo spirito di tutta l’opera diremo ch’ella offre
tre varî stadi dell’epoca che descrive. Nel primo osservansi
errori ed oscurantismo: nel secondo sorgon desiderî
di progresso, e si conoscono gli errori, si fanno
sforzi per vincerli; nasce una lotta di passioni e di opinioni,
si perde e si guadagna, ed intanto si preparano gli
spiriti ad una scientifica e letteraria rigenerazione. Nel
terzo stadio, in cui viveano gli uomini morti la più parte
nel nostro secolo, si abbatte la filosofia del peripato, che
avea tanto grandeggiato e compreso le menti; si studiano
le scienze della natura per mezzo dell’esperienza e
dell’osservazione; la letteratura riprende il suo aspetto
nobile e gentile; i classici tornano in onore; gli studî sopra
altri sentieri si dirigono, le menti al bello ammaestrate,
del bello s’innamorano, ed il gusto, che in quei
tempi tanto fra noi putava del seicento, si deride, ed in
odio si prende.

Lo Scinà dunque trovò la fisica fra noi caduta sì che
barbara era, ed ei colle opere sue l’innnalzò a grandissima
dignità, rivolgendo le menti allo studio delle sperimentali
scienze. La Sicilia non aveva esempî di storia
letteraria, se non poche ed imperfette biografie e bibliografie,
e Scinà di storie letterarie filosofiche ed eccellentissime
le fe’ dono. Egli poi diresse gli studî del suo
tempo, e diede gagliardissima spinta agl’ingegni; quindi
si fu per la sua autorità e per la sua influenza che si videro
creare mano mano il Dicearco, il Gorgia, il Lisia, il
Polizelo, l’Antioco, il Temistogene, l’Epicarmo. Se Scinà
non fosse stato noi non avremmo que’ riputati lavori.
Gli studî greci tornarono in onore appunto perchè egli
co’ suoi scritti scosse gli animi, ed invogliò la generazione
che cresceva a seguire le orme che aveva gloriosamente
segnate. Nè il luminoso esempio di un tanto
uomo limitossi a far che venissero onorati i soli Grecisicoli;
perciocchè i moderni Siciliani più insigni, dietro
l’esempio di lui, son venuti eziandio nobilmente illustra-
ti: ed egli portò sì avanti amore per la patria che i più
cospicui intelletti a coltivare le patrie cose si rivolsero.
E bene e sapientemente diceva che con pochi aiuti potremo
di leggieri studiar le cose di Sicilia, e queste illustrando,
guadagnare una gloria, che non ci potranno rapire
gli stranieri, perchè noi saremo i primi ad arrivarla.

La nostra politica, soggiungeva, giacchè le lettere hanno
ancora la loro, dovrebb’essere quella di occuparci delle
cose nostre, e il motto d’unione tra’ Siciliani che pigliano
a coltivare le scienze, dovrebb’esser Sicilia. Questo
santissimo motto, questa generosa unione, predicata da
un uomo di sì gran nome conseguì pienamente il suo
scopo: le sue voci infiammarono gli animi, e furon concordemente seguite. Ecco l’impronta che diede al suo
secolo Domenico Scinà; ecco i benefizî che fece alla Sicilia
questo grand’uomo. La nostra terra non è stata mai
con più calore studiata, amata, quanto a’ giorni nostri.
Gl’ingegni si diressero ad illustrarla a gara, e chi dal
lato dei prodotti della natura, chi dal lato economico ed
industriale, chi dal lato artistico, chi da quello storico, e
chi da quello archeologico con plauso dell’intera Europa.
I poeti medesimi han cavato gli argomenti de’ loro
poemi, e delle loro tragedie dal fondo della siciliana storia.
Insomma lo Scinà innalzò colla sua voce e col suo
esempio una bandiera, sotto di cui si arrollarono le menti
più grandi della Sicilia.

Ecco l’uomo che abbiam perduto! ecco l’uomo che
per variare di generazioni e di fortuna vivrà eterno nelle
pagine più belle dei nostri annali!

Egli era atletico di figura e severo; e sebbene avesse
avuto debole la vista, pur nel vigore e nella penetrazione
dello sguardo lo avresti fra mille riconosciuto. Visse sobrio
e trascurato di sè stesso: pari al Maurolico benefico
fu verso i suoi, e parco verso di sè: simile all’Alfieri,
l’amabile indulgenza, virtù si cara (come fu sì ben detto)
e sì dolce a chi l’esercita, e verso cui si esercita, gli fu
virtù sconosciuta. Più che l’amore conobbe l’amicizia;
poco diletto prendeva delle ricreazioni dello spirito, e
del corpo; passò sua vita immerso nelle contemplazioni
della natura, e nelle concezioni delle opere sue. Si può
dir di lui quel che di Archimede egli stesso diceva, che
altissime cose contemplando, era preso dalla dolcezza di
queste; e quanto più si estendea nel pensiero, tanto
meno si affaccendava alla cura del corpo. Così e non altrimenti
possono gli scienziati dalla terra innalzarsi, pigliare
le vie sublimi del cielo, la fama eterna acquistare.
Era di fatto l’avidità del sapere, e l’ardore della gloria,
che reggea le sue forze, aguzzava il suo intelletto, sostenea
la sua attenzione. Nè i suoi desiderî andaron falliti:
nome e fama chiarissima ebbe presso tutti, e la posterità,
che non suole ingannarsi nella stima degli uomini che
già furono, lo riguarderà come sommo.

La conversazione di lui era oltremodo piacevole; chè
di spirito, di sali attici, di motti or graziosi or pungenti
condiva il suo faceto ragionare. Non aveva ribrezzo ad
ammetter chicchessia in casa nelle ore che al sollazzo
destinava: quindi assai diverso in ciò dal Gregorio una
miscela curiosa tu vedevi di persone che lo circondava-
no: i dotti e gl’indotti cogli onesti e con quelli che forse
non lo erano in una medesima sala, e in un medesimo
crocchio insieme congiunti. Ma egli onorava gli uni,
scherniva sottilmente gli altri, ed a spese di questi si divertiva.
Cupido di notizie, quasi ad alleggiamento delle
gravi occupazioni dello spirito, prendeva diletto a sapere
ciò che avveniva in Europa, e quel che si dicesse e facesse
in Sicilia. Nelle dispute letterarie avea facilmente
il primato, perchè potente era il suo ingegno, potente la
sua facondia. E se per avventura vi fosse stato, come vi
fu talvolta, chi lo vincesse, ei cangiava tosto ragionare,
ripensava su quel subbietto da sè solo, e quando men si
credeva, vi ritornava con grand’arte altra fiata, e presentandosi con novelle armi, cercava di riguadagnare il perduto.

CONCHIUSIONE.

Era Palermo dal feroce morbo indiano travagliata in
quei giorni che furon gli ultimi di Domenico Scinà: cadeva
il popolo infelice mietuto dal cholera, e più dal
crudele abbandono degli uomini. Lo Scinà sentiva in
suo cuore fierissima doglia della disgrazia che ci colpiva;
e pieno di profonda mestizia muto e riconcentrato
stava in sè stesso. Era egli solito di batter due volte al
giorno le strade che dividon per mezzo la nostra città; ed
in quei momenti di pubblico lutto aveva interrotto il suo
antico costume. Ma un giorno, preso da più truce abbat-
timento, a tante scene di orrore che sotto gli occhi nostri
avvenivano, scende tutto solo dalla derelitta casa, e a
camminar si mise le usate vie. Giunto alla chiesa di Santa
Croce si ferma; e stende lo sguardo per quei luoghi: il
tetro silenzio che dominava, i lividi cadaveri che ammonticchiati
su i carri, e dai carri penzoloni, vedeansi
con disdegno ed orrore trasportare in pieno giorno, lo
spavento che stava impresso ne’ volti di que’ pochi, che
correan furibondi la misera città in cerca di medicine e
di medici, e senza speranza di rinvenire nè le une nè gli
altri, scossero fortemente la concitata fantasia dell’uomo
grande che piangiamo. Ei monta le scale di Santa Croce,
innanzi a cui fermo si stava, e s’imbatte nel P. Milana,
cappellano di quella chiesa: lo arresta, e con un lampo
di quella potente facondia, che le fibre più occulte del
cuore penetrava, gli dice con voce tremola e commossa:
la morte signoreggia dappertutto, le umane illusioni svaniscono,
cedon le passioni, poco altro forse ad ognun di
noi rimarrà di vita, il nostro principio già al principio
eterno si va a congiungere: e sì dicendo gli manifesta la
brama di deporre il pondo delle umane debolezze a piè
del ministro dell’altare. E poco appresso Domenico Scinà
eseguiva entro le sue stesse mura quest’umile atto
della religione de’ padri nostri, e del sacramento eucaristico
si muniva. Difatti pochi giorni più in là veniva
saettato dal tremendo morbo, e quando scoccavano le
ore due de’ 13 luglio Iddio a sè ritirava il sacro soffio di
quella vita.

Fra la innumerevole schiera dei beneficati di Domeni-
co Scinà altri non vi fu, che in quel terribile frangente
gli apprestasse la consolante voce dell’amicizia, che Pasquale
Pacini. Quest’uomo dotto e generoso mai non lo
abbandonò: stava sovente vicino al capezzale del colpito
amico; la gelida destra, ministra un giorno di sì alta sapienza,
spesso fra le sue palme riscaldava, vivi baci imprimendovi,
e di lagrime tenerissime bagnandola. Un
medico, da lui amato e protetto, richiesto con immensa
sollecitudine, dalla trambasciata famiglia, perchè venisse
a visitar Scinà, iniquamente negavasi all’invito. Altri,
di cui la storia, per solo obbrobrio, tace il nome, avvezzo
a salir le scale dei miseri colerici, per l’ingordigia
sola dell’oro, vide più volte, e sempre da lontano l’infermo
sapiente, stolte prescrizioni faceva, e tosto, col pugno
pieno di argento, dispariva. Qui si presenta all’agitato
pensiero il duca di Cumia. Questo uomo singolare,
cui la storia non vile porrà nel suo vero lume e colmerà
di gloria non compra, era dello Scinà amico dolce e caldissimo.
Udiva egli con acerbo dolore il colpo a cui
questi era soggiaciuto; e in mezzo alle sue private sventure,
ed all’enorme soma delle pubbliche cose, che, in
quei momenti di popolare concitazione, reggeva con
senno grandissimo, con consiglio, e con una forza morale
prodigiosa, correva, egli stesso per la città, in traccia
di medici e di medicine, provvedeva l’infermo di tutto
che in quei tempi di estrema penuria, e di generale abbandono,
abbisognar gli potesse, ed inviavagli Girolamo
Minà, dotto ed egregio professore, ed uno dei pochissimi
che si prestarono realmente alla cura degl’infelici at-
taccati. Costui assistette con generoso affetto il
grand’uomo, ma il morbo erasi avanzato, il colpo era
stato letale, e bisognava pagare il tributo alla natura.
Poco innanzi che morisse chiedeva ad un suo giovine
nipote3, che accanto a quel letto di morte sedeva, che
prendesse un libro e leggesse. Cadde al giovinetto nelle
mani un volume di Foscolo, e dicendogli qual libro si
avesse, il moribondo sapiente, con voce fioca e lenta, rispondeva, che quelle pagine l’orazione a Bonaparte contener
dovevano, e quindi quella leggesse....... In questo
mentre il Pacini sopravveniva, e Scinà in segno di dolce
riconoscenza lo abbracciava, e la mano toccandogli l’estremo
addio gli diceva. Poco appresso arriva il P. Insinna
della gesuitica compagnia, amico dello Scinà e da lui
richiesto, e mentre questi la voce dell’ultima speranza
sommessamente gli porgeva, l’anima grande esalava.
Niuno lo accompagnò al sepolcro: niun luogo separato
lo chiuse; verun fiore fu versato sulla sua pietra.
Giorni crudeli! epoca memoranda ed orribile! Verrà qui
lo straniero, dimanderà la tomba, ove Scinà riposa, ed il
silenzio ed il pianto alla sua inchiesta risponderanno.
Tanti insigni intelletti, che resero più nobile e più illustre
il nativo suolo, che diffusero il nome siciliano, e di
somma gloria splendettero non si ebbero un palmo di
terra che separati li chiudesse. Sepolto e confuso fra la
moltitudine degl’infelici, che la fiera pestilenza uccideva,
distrutto il suo corpo dalla calce, non resta più reli-
3 Domenico Ragona di felicissime speranze, e dal defunto caldamen - te amato, ed avviato alle scienze.
quia di quelle membra, che un’anima sì maschia e sì sublime
informarono. Ahi che le mie tremende sventure
ricordo! ahi che il pondo delle angosce private e pubbliche
schiaccia il pensiero e lo annienta!

Salve, o Scinà, salve scrutatore profondo delle siciliane
cose: tu interrogasti la natura, illustrasti il suolo l’aria
il cielo il mare della tua patria; facesti coll’immortale
tua penna rivivere più onorati gli uomini insigni che
l’antica e la moderna Sicilia produsse; illuminasti un secolo,
spargesti lampi di luce su noi. Salve spirito benedetto,
la tua memoria sarà viva nei nostri petti, intatta
sarà la tua fama, e si tramanderà gloriosa alle età più
lontane.


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